per dire chi era Klee Benally (è morto un paio d’anni fa) procederò per frammenti, un po’ a caso.
qualche mese fa: a tavola si parlava di alcuni pregiudizi verso certe categorie politiche, in particolare gli anarchici, di cui sono vittima alcune amiche che diffidano delle pratiche anarchiche più per motivi estetici che altro, sostenendo tutta una serie di affermazioni apodittiche tipo gli anarchici sono così, gli anarchici sono cosà, e via di stereotipi. io a un certo punto, dopo qualche bicchiere, dico: “ma un anarchico può essere come vuole [tranne essere un anarco-capitalista], può anche essere uno che si presenta in tacchi a spillo e giacca e cravatta, no?”.
era una risposta di basso livello per una discussione di basso livello, così, tanto per dire. tanto che poi per fortuna mi sono dimenticato tutto, fino a qualche giorno dopo, quando vedo questo video. Klee Benally in tacchi a spillo e giacca e cravatta, truccato, stilosissimo. quando ho detto quella frase non l’avevo ancora visto. ma lui era già lì, come se la incarnasse.
un anarchico navajo/diné ex punk in tacchi a spillo e cravatta.
lo stile, prima delle parole, è stata la prima cosa che ho notato in Klee Benally. non parlo solo di estetica: stile nel parlare, nel muoversi, nel ragionare, nel costruire pensiero a partire dalla pratica, ma anche nel suo sguardo ferocemente critico. non era solo cosa diceva, ma come lo diceva. non era carisma (che spesso è solo un altro nome per il dominio), sicuramente non era leadership, anche se immagino sia stato un punto di riferimento per alcune persone. era proprio stile, nel senso più pieno. si muoveva bene nel mondo.
un passo indietro: questa sua intervista con una mascherina floreale, stiloso anche nella postura, dalle parole precise, affilate, potenti ma misurate (la precisione chirurgica con la quale chiama gli Stati Uniti sempre e solo “so-called United States”, i cosiddetti Stati Uniti). questa intervista, profondamente antiautoritaria e anticolonialista, molto focalizzata sulle pratiche di mutuo appoggio, mi ha convinto che fosse utile ascoltarlo.
a volte capita di trovare qualcuno dall’altra parte del mondo, uno sconosciuto proveniente da una cultura in teoria molto lontana, che sembra parlarti direttamente: si stabilisce un contatto, una relazione.
un altro passo indietro: la migliore risposta alla domanda “che musica ti piace ascoltare in questo periodo?”. beh, probabilmente i canti tradizionali navajo contro la polizia. da ascoltare ogni giorno, da sparare con le casse alle manifestazioni, alle feste, nei supermercati.
mi piace Klee Benally anche per come ha preso ciò che gli era utile da altre culture, ad esempio Kropotkin, e l’ha integrato nella cultura ancestrale del suo popolo e nelle sue pratiche quotidiane. non si è trattato di una semplice assimilazione delle pratiche anarchiche (azione diretta, mutuo appoggio), ma di un processo complesso e in parte problematico – diciamo critico – di rielaborazione e radicamento in una visione del mondo indigena che ha tenuto conto delle differenze e delle proprie specificità, coerente con la visione del mondo suo e del suo popolo, come aveva spiegato in questo testo, dove ad esempio dice che “l’autonomia indigena non ha bisogno di un fondamento teorico per giustificarsi” e soprattutto: “Per chiarire la differenza, direi che un anarchico affermerebbe: ‘Non c’è autorità al di sopra di te stesso’. Un anarchico indigeno, invece, direbbe: ‘Non c’è autorità se non quella della natura’. Quando non sono a casa, mi definisco un anarchico indigeno per oppormi all’assimilazione e alla politica liberale di merda. Quando sono a casa, sono figlio di Yoolgai Asdzáá (Donna Conchiglia Bianca). Sono tra le sue braccia, dove i vincoli del controllo politico coloniale e delle sue categorie non hanno alcun significato”.
quindi insomma Klee Benally era un anarchico a modo suo, forse come ogni anarchico, e per cogliere il senso delle sue parole, va compreso che il sacro è il principio guida della sua visione del mondo – qualcosa che quasi sempre resta fuori dallo sguardo della maggior parte degli anarchici occidentali, bloccati in automatismi razionalisti-illuministi, ateismi pigri, materialismi urbani. quelli che se dici madre terra si mettono a ridere e ti trattano da scemo o da sciroccato new age.
Klee Benally, per sua storia e cultura, prendeva queste cose piuttosto sul serio. lui parla di “analfabetismo del sacro”, e dice anche che la crisi ambientale è una crisi sociale e spirituale. il punto di vista è estremamente distante da ciò che la maggior parte di noi percepisce, dalle nostre idee, dai nostri valori. lui e il suo popolo, i diné, considerano la madre terra non un luogo, non un ambiente in cui noi viviamo (e da proteggere, ecc.), ma un’entità vivente con la quale si entra in relazione.
in quest’ottica, oleodotti, miniere e varie industrie devastanti rappresentano un attacco alla madre terra, mentre i luoghi sacri sono fondamentali per mantenere l’equilibrio con il mondo naturale. quindi sì, c’è un conflitto in atto, ma è un po’ diverso da come l’abbiamo sempre percepito da queste parti.
il conflitto, la tensione di cui parla lui, è anche e soprattutto una tensione spirituale.
scrive: “Molto prima che potessimo capire, [mio padre] aveva insegnato a me, a mio fratello e a mia sorella ad armarci delle armi spirituali necessarie per la vita in questo mondo. Diceva: “Questa è una guerra spirituale”.
nessuna esotizzazione né idealizzazione – semplicemente prendo atto di un approccio radicalmente diverso.
non voglio fare il santino di Klee Benally, ci mancherebbe, non ce n’è bisogno – però il suo percorso è davvero di ispirazione e le sue parole risuonano potenti. sopratutto quando parla di relazioni. lo dice chiaramente più volte, tutto è relazione. con la terra, con gli altri animali, con i nostri simili.
non era d’accordo con il concetto di intersezionalità, a cui opponeva l’interrelazionalità. prima viene la relazione con le persone, la fiducia, l’incontro, poi possiamo fare delle cose insieme (è un po’ più complesso di così, sto sintetizzando). era un pensiero che nasceva dal contesto, dall’esperienza indigena, dall’idea che nessun essere – umano o non umano – vive isolato e che la lotta nasce insieme, non per somma di identità ma per intreccio di relazioni.
a un certo punto è morto, relativamente giovane
un libro che raccoglie i suoi scritti (molto autobiografico, anche se dice che non vorrebbe), le sue esperienze, i suoi ragionamenti, potrebbe essere tradotto e stampato in italiano: “NO SPIRITUAL SURRENDER: anarchia indigena in difesa del Sacro”. Qua il link per partecipare, 15 euro adesso per sostenere il progetto, poi costerà 7 euro e sarà comunque disponibile gratuitamente in forma digitale.
a me sembra una cosa utile.