Le Films

cronologia delle visioni. sono micro-analisi, appunti post visione – e contengono numerose anticipazioni della trama. gli ultimi film visti sono quelli più in alto. è possibile consigliarmi film da vedere (va bene tutto) nei commenti qua sotto o via email.

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Cleo dalle 5 alle 7 (1962) – incredibile non esordio ma secondo film di Agnes Varda. per me la vera folgorazione nouvelle vague dei primi ’60 assieme a Fino all’ultimo respiro di Godard (qua presente, sicuramente come influenza, ma anche fisicamente nella sequenza della comica muta). non saprei nemmeno cosa dire, se ne potrebbe parlare molto ma mi rifiuto, e dico giusto qualcosa sulla sensazione che mi ha lasciato. di inadeguatezza, di morte, di limitatezza (mia), contrapposta all’estro, al talento, alla freschezza, alla libertà, alla vitalità e alla profondità della giovane Agnes Varda. queste erano immagini vive, fatte da persone vive, anche se ora sono tutte morte.

Una pallottola spuntata 2 1/2 (1991) – era difficile replicare il livello del primo film, ma ci sono quasi riusciti. quasi: questo secondo episodio è sicuramente sotto il primo forse per un ritmo un po’ diverso nelle gag. il film del 1988 era una raffica continua di idee, come in altri film degli autori, qua invece mi sembra si vada più lenti e, inevitabilmente, non tutto funziona. però ridere si ride abbastanza e il mondo pazzo dei Zucker in qualche modo c’è, ma soprattutto Leslie Nielsen è ancora una volta perfetto nei panni del tenente Frank Drebin. le scene migliori sono quelle che qualcuno chiamerebbe “demenziali” ma che forse dovremmo chiamare surreali, come lei che prepara da mangiare per il cane, poi per il gatto, poi per delle pecore, dei maiali e così via. il fascino di Drebin è il suo non accorgersi di nulla, se ci facessimo raccontare la trama dal suo personaggio saprebbe dirci pochissimo, nonostante risulti il protagonista e l’eroe della situazione, ma è proprio questo il bello. la sua forza è l’assenza di consapevolezza: non coglie la complessità delle situazioni, non comprende le implicazioni, non ha un piano. Drebin vive nell’immediatezza e paradossalmente questo lo libera dal peso dell’ansia, dell’errore, della responsabilità. la sua ignoranza lo rende invulnerabile, perché niente può destabilizzarlo se non viene realmente percepito come minaccia. Drebin non percepisce l’assurdità dei fatti – assurdità spesso causata proprio da lui – e resta impermeabile, al massimo sorpreso per una frazione di secondo, e quella di Leslie Nielsen è una maschera comica degna dei grandi tipo il più grande di tutti, Buster Keaton.

Vizio di forma (2014) – Vizio di forma, più precisamente “vizio intrinseco” (questo il titolo originale) però in effetti forse suonava male come titolo. arrivato alla quarta visione, posso dire che capisco che abbia confuso molti spettatori e immagino anche qualche spettatrice. ma il Paul Thomas Anderson atipico è forse quello che preferisco, e non a caso il suo film che preferisco è Punch Drunk Love (sebbene, oggettivamente, riconosco The master come il suo capolavoro). detto ciò, Vizio di forma avrei voluto vederlo al cinema, e invece l’ho sempre visto a casa. secondo me è la rappresentazione perfetta di uno specifico modo di interagire con la realtà che noi fattoni conosciamo molto bene. è quando sei abituato, perché alterato, ad avere difficoltà nel decifrare immediatamente cosa succede – allucinazioni, persone che appaiono, che forse ti guardano, spesso tutto al limite della paranoia – ma siccome ti sei abituato, riesci in qualche modo ad andare avanti. il protagonista del film è molto abile nel giostrarsi in quelle situazioni di alterazione, ma questa interazione difficoltosa con la realtà qua si manifesta in un’indagine – un’indagine che è una metafora esistenziale e politica. è un film (e prima ancora un libro) che parte da quei classici come Il grande silenzio, Il lungo addio, Chinatown, dove la trama diventa talmente intricata che nessuno capisce niente, collegamenti imprevedibili, morti che non sono morti, vivi che non sono chi dicono di essere, gente che appare, scompare, nomi di posti, nomi di persone, nomi di barche, nomi che vogliono dire almeno 4 cose diverse, e così via. in questo senso l’investigazione di Doc Sportello è una rappresentazione stilizzata di come la mente umana può funzionare quando è costantemente disallineata con la realtà comune. è un noir lisergico, dove la confusione non è un bug della trama, ma è proprio la trama, e Doc è abile perché sa navigare la confusione, è abituato. vediamo in almeno due occasioni il suo punto di vista che osserva una persona attraverso il fumo. questa è la realtà: inafferabile, opaca, forse non è nemmeno reale. la prima volta che appare lei (non entra, non bussa, ma appare, come spesso nei noir) lui è sul divano e le chiede se è davvero lei, e lei risponde qualcosa come “pensi che sia un’allucinazione?”. in un’altra scena Doc prende nota sul taccuino “Not hallucinating”. ma tutta la trama, sicuramente intricata fino al surrealismo, alla fine si può ridurre a Doc che vuole ritrovare la sua ragazza, anche se l’investigazione ha un andamento quasi del tutto casuale, cosa che mi ha ricordato anche il personaggio di Dirk Gently. è anche un film divertente, con gag comiche, che ha anche una sua visione sulla fine del mondo hippy (per decine di volte lui viene definito “un lurido hippy”) e della politica americana di quel periodo, cioè anni 70. è il film di Anderson che avevo apprezzato meno, ma alla quarta visione in dieci anni devo dire che l’ho rivalutato parecchio, forse anche grazie alla recente visione di Una battaglia dopo l’altra, non lo so. molto interessante anche il rapporto tra Doc e il suo amico-nemico, lo sbirro Bigfoot. aggiungo che, oltre ai film noir/hard-boiled già citati (qualcuno ha giustamente fatto riferimento anche a Chi ha incastrato Roger Rabbit, per vari motivi), c’è anche – come in Una battaglia dopo l’altra, film affine, entrambi tratti da Pynchon – Il Grande Lebowski – ecco, è una versione più estrema, drogata e sperimentale di Lebowski. lì, una situazione apparentemente semplice (il tappeto e il rapimento) diventa inutilmente complicata, per poi dipanarsi e risolversi. qua il livello di complessità aumenta ogni due minuti, ed è affascinante, ipnotico, divertente. ma c’è anche qualcosa di Paura e delirio a Las Vegas, sicuramente per i temi (tramonto dell’epoca hippy, droga, paranoia), ma anche per la capacità dei protagonisti di muoversi in una realtà assurda senza mai lasciarsi prendere troppo dalla paranoia: inoltre, sarà una coincidenza, in entrambi i film Benicio Del Toro fa l’avvocato del protagonista drogato (lì Johnny Depp, qua Joaquin Phoenix). anche io vorrei Benicio Del Toro come avvocato. apprezzo molto che un regista super-inserito, super mainstream come Anderson abbia passato quattro anni della sua vita, dal 2010 al 2014, a dedicarsi a questo progetto un po’ folle, costoso e rischioso, invece di andare su qualcosa di più facile. poi ci sarebbe da dire sulla regia e la fotografia di singole sequenze, ma nel frattempo mi è venuta voglia d’erba.

Riflessi sulla pelle (1990) – prolifico scrittore e autore teatrale, ma anche pittore, il britannico Philip Ridley ha fatto tre film e non conosco nessuno che li abbia visti, nonostante almeno questo suo esordio, all’epoca, si era un po’ fatto notare, per poi finire nel dimenticatoio. ed è qua che ovviamente arrivo io. The Reflecting Skin è un film magnifico, una fiaba dark che esteticamente (ma per certi  versi anche narrativamente) sta a metà strada tra I giorni del cielo di Malick e Tideland di Gilliam. tutto il film è visto dal punto di vista del bambino protagonista, con un filtro deformante, quasi come se da adulto, o proprio da vecchio, stesse ricordando la sua infanzia, ma così come l’ha vissuta e percepita lui, con traumi, invenzioni, falsi ricordi o ricordi esagerati, come capita a tutti (ma la sua è un’infanzia particolarmente di merda). quindi la sua vicina di casa è una vampira, c’è una macchina nera che è una specie di mostro e che rappresenta la morte, un feto che è il suo amico morto diventato un angelo senza ali, insomma tutte quelle cose a cui può credere un bambino. la storia, i personaggi, tutto, sembra emergere dal paesaggio, questi campi di grano giallissimi, le case bianche, il cielo azzurro, tutto sempre molto illuminato. è un horror dove non è il buio a fare paura, ma il sole, la luce. come la luce di un’esplosione atomica: il fratello del bambino, Viggo Mortensen, sembra avere degli effetti collaterali da radiazioni in seguito alle esplosioni atomiche nel pacifico – anche se per il bambino ovviamente è vittima della donna vampira. lo spazio rappresentato da Ridley è metafisico, più uno spazio dell’immaginazione, del ricordo: come a dire che quel giallo forse non era così giallo, ma lui se lo ricorda così. e infatti Mortensen, quando ritorna dalla guerra, guardandosi intorno dice “che posto di merda”: lo vede in modo diverso da come lo vede il bambino. ha ricordi diversi. non a caso poi parla di un “rosa mai visto” in riferimento ai test atomici. non sono colori che esistono, sono immagini del ricordo, immagini interiori, vediamo il riflesso di una vita, il riflesso della pelle, come la fotografia che Mortensen mostra al fratellino, quella di un bambino giapponese la cui pelle è diventata argentea a causa delle radiazioni. un grande film perturbante, con un bel punto di vista bambino (genere che amo, a partire dal mio preferito, La morte corre sul fiume / The night of the hunter), in cui il mondo interiore diventa superficie, colore, luce, immagine, cinema. curiosità: sembra il film di un regista maturo, ma l’autore quando l’ha fatto aveva 26 anni.

La trama fenicia (2025) – mettiamola così: se questo fosse il primo e unico film di Wes Anderson che guardate, e se non aveste mai sentito parlare di lui, sembrerebbe bellissimo, qualcosa di insolito e molto originale. dopotutto molti artisti, pittori, pittrici, musicisti, hanno fatto sempre la stessa cosa, magari con delle piccole variazioni, per tutta la vita. Anderson è così, e infatti se ti piace, ti piace sempre, se non ti piace non ti piace mai. non è mai sorprendente, se lo conosci, se hai visto – come me – tutti i suoi film, sai già come racconterà qualcosa, che inquadratura farà, che taglio di montaggio ci sarà, che tipo di recitazione, che tipo di dialogo, tutto. non a caso i due film che preferisco di Anderson sono quelli animati, i più insoliti, Fantastic Mr. Fox e l’Isola dei cani. detto ciò, La trama fenicia è una commedia surreale con due bei personaggi, quelli di Benicio Del Toro, imprenditore disumano che scampa in continuazione ad attentati, e sua figlia suora. è divertente, non ci sono emozioni – o quasi – come in tutto l’Anderson degli ultimi anni, tutto è stilizzato, quasi astratto, con spunti potenzialmente comici ma immersi nel ghiaccio – ma è molto meglio di due film che io ho faticato a vedere interi come Asteroid City e The French Dispatch (molto meglio invece i corti tratti da Dahl di La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre tre storie), troppo sterili, glaciali, nonostante il lavoro sui colori in particolare per Asteroid City. quindi che dire, La trama fenicia va bene, anzi va molto bene, ci sono tante idee di cinema che dio lo benedica, e qualcuno che non avrà mai sentito parlare di Anderson lo scoprirà nel 2075 e diventerà un suo film cult, ma guardare i suoi film spesso più che un atto di fiducia è un atto di resistenza, cioè riuscire a resistere a opere autoreferenziali, che vivono in un mondo chiuso, fatto di quel tipo di colori e quel tipo di inquadrature, con la solita carrellata inutile di star, alcune che appaiono per pochi secondi. le parti migliori forse sono quelle dove a Del Toro appare l’aldilà, qualcosa finalmente di diverso. premio speciale (mio) per le scenografie, tutte magnifiche.

Una battaglia dopo l’altra (2025) – mettiamola così: sto pagando 9 euro per vedere un film su dei rivoluzionari costato 130 milioni di dollari, e siamo in due, io e la mia compagna, quindi 18 euro, in una sala vuota, presenti solo alcuni 80enni, film dove il protagonista della storia è interpretato da un attore, DiCaprio, che per fare questo ruolo da rivoluzionario bombarolo ha preso 25 milioni di dollari e che ha investito nella costruzione di hotel di lusso in Israele – chissà cosa ne penserebbe il suo personaggio. diciamo che bisogna dimenticarsi tutto questo e ricordarsi che il cinema “americano” è sempre stato così, quindi non ha senso aprire wikipedia prima di vedersi il film: è finzione, sono attori, è rappresentazione, lo fanno per lavoro. così come quando a teatro quello che fa Amleto non è davvero il tormentato principe di Danimarca, chissà chi è, non lo sappiamo. fatta questa premessa, Una battaglia dopo l’altra è diverse cose: una divertente commedia satirica, un magnifico e travolgente film d’azione con momenti da road-movie, un melodramma famigliare, un film politico, il tutto con la consueta forza espressiva di Anderson. Una battaglia dopo l’altra è tutte queste cose assieme, un po’ come il Il grande Lebowski, per certi versi, che di sicuro non era solo una commedia su un tizio che vuole il suo tappeto. è evidente che il personaggio di DiCaprio è ispirato a lui, dopotutto nel film dei Coen il Drugo (come lo chiamiamo nel doppiaggio italiano) che vediamo oggi un po’ trascurato, vestito comodo, tra una canna e un white russian, dice di aver contribuito alla stesura della Dichiarazione di Port Huron, un manifesto politico degli studenti di sinistra, quindi forse era un attivista, ma poi si è lasciato andare. qualcosa di simile al percorso del personaggio di DiCaprio, anche se il Drugo era evidentemente un moderato, lui invece è un rivoluzionario armato, mette bombe, scappa dalla polizia, vive in incognito, in fuga perenne. è il film con il ritmo più serrato e coinvolgente tra quelli realizzati da Paul Thomas Anderson, anche grazie a un mirabolante montaggio e alla consueta ottima musica di Jonny Greenwood (amico di Israele e grande musicista). il film dura 160 minuti ma sembra appena un’ora, perché di fatto sono due flussi, due sequenze, con pochissime soste. un primo flusso, la descrizione del tentativo di rivoluzione, poi c’è l’unico stop nell’azione, nasce la bambina, la bambina cresce. 15 anni dopo riparte un secondo flusso d’azione che non si ferma mai, fino alla fine, con DiCaprio perennemente in vestaglia, una battaglia dopo l’altra. è un film di nomi assurdi, Perfidia Beverly Hills, Ghetto Pat, Rocketman, Fica Selvaggia, I Pionieri del Natale, e così via, e di codici, parole segrete, lunghe frasi da ricordare per identificarsi all’interno del gruppo (e che DiCaprio, come da gag ormai già nota anche a chi non ha visto il film, non riesce a ricordare). però non è uno di quei film dove i rivoluzionari sono rappresentati come dei coglioni, simpatici ma ingenui e stupidi: anzi, sono gli eroi dei film e le donne in particolare, come Perfidia e Fica Selvaggia, sono decisamente fighe e ricordano vere leader nere rivoluzionarie del passato. la loro battaglia, nel film, sembra indubbiamente giusta (di fatto iniziano liberando messicani dai centri di detenzione-lager). inoltre soprattutto il finale, che non è educato raccontare, sembra molto ottimista verso le nuove generazioni di rivoluzionari. se sembra una storia semplice (a me no, dico la verità) è perché è un film fatto di sequenze. ad esempio la parte registicamente incredibile da quando DiCaprio si presenta in vestaglia nella palestra del sensei Benicio Del Toro, fino alla sua caduta da un palazzo, è quasi un film a sè. in quella parte c’è anche un’interessante rappresentazione dei messicani, normalmente rappresentati sì come categoria oppressa, ma anche molto passivi, dei poveri cuccioli che o le prendono dalle guardie o al massimo possono essere salvati da uno sbirro buono o da un bianco che ha a cuore la loro causa. qua tutto è ribaltato. sono cazzuti e organizzati. Benicio Del Toro – in uno dei suoi ruoli migliori di sempre – è calmo, rilassato, organizzato, per niente impaurito. i giovani messicani prima sono entusiasti degli scontri in strada contro la polizia e l’esercito, che cercano di raggiungere con gli skate, poi riescono a fuggire senza problemi, di fatto prendendo per il culo i militari, infine Del Toro diventa una specie di presenza soprannaturale riuscendo (non faccio spoiler) a intervenire in modi imprevedibili – sempre calmo e con una birra in mano mentre guida. i militari sono tutti delle merde: una visione semplicistica, dirà qualcuno. beh, ma non è così? avete visto i cosiddetti Stati Uniti di questi anni, e pure degli anni prima, ma limitiamoci anche solo agli ultimi? come andrebbero rappresentati? io credo che la realtà sia peggiore di quella che si vede nel film. perché inventarsi delle sfumature paracule che non esistono? oltretutto c’è almeno una scena che allude all’ICE, ai rapimenti, alle deportazioni, al trumpismo nella sua manifestazione più militare. il potere è mostruoso, e qua è rappresentato in due modi: I Pionieri del Natale, un incrocio tra dei suprematisti bianchi che ricordano dei mafiosi e degli ottuagenari psicopatici e disgustosi, perfino pervertiti, in stile Salò di Pasolini. questo è un volto del potere. l’altro è quello del personaggio forse più bello del film, quello di Sean Penn (mostruoso anche nel senso di bravo – guardate come cammina), un militare idiota di cui non racconto il complesso percorso nel film perché è da vedere. soprattutto nel finale si esplicita il suo essere mostruoso, un essere umano ormai del tutto compromesso, quasi non umano. quindi sì, è un film dove da una parte ci sono dei rivoluzionari che forse hanno ragione, sono simpatici, hanno sentimenti, ci credono, si amano, dall’altra dei mostri. la scena d’azione con i dossi nel deserto è una delle più belle di sempre, uno degli inseguimenti più astratti e tesi mai visti. elencare le scene belle è difficile dopo una prima visione al cinema, è sicuramente da rivedere, ma forse la mia parte preferita è proprio quella della fuga con Benicio Del Toro, poi quella con DiCaprio completamente sballato e prossimo al tracollo emotivo che incontra l’insegnante della figlia, parla dei vecchi presidenti e dice “erano tutti schiavisti” e poi, quando l’insegnante dice che la figlia è molto brava e si comporta molto bene, il tracollo arriva, DiCaprio quasi scoppia a piangere ma dice “se vede delle lacrime sono lacrime di felicità”. ma scene così ce ne sono centinaia. anche personaggi che appaiono per pochi minuti o secondi restano impressi, come il cacciatore di taglie indigeno, la rivoluzionaria interpretata da Alana Haim (già protagonista di Licorice Pizza), e naturalmente la scoperta del film, Chase Infiniti, si chiama davvero così e credo suoni come “inseguire l’infinito”, giovane abbastanza sconosciuta che si è rivelata un’ottima scelta nel ruolo della figlia di DiCaprio e della rivoluzionaria interpretata stupendamente da Teyana Taylor. insomma gara di attori, tutti bravi e tutte brave, e delle tre star maschili presenti è davvero difficile dire chi riesce meglio, direi pari. ci rifletterò ancora e spero di vederlo molte altre volte – sono invidioso di Spielberg che sostiene di averlo visto tre volte in pochi giorni, ma lui credo abbia i 9 euro del biglietto – ma intanto, questa trasposizione di un libro di Pynchon che non ho letto, direi che è senza dubbio uno dei migliori Paul Thomas Anderson di sempre, regista quasi antipatico per quanto è bravo, così capace di usare tutti i generi, di cambiare, di fare film corali, regista che ha fatto solo “film migliori” quindi classificare i suoi film è difficile e non so quanto sia utile (forse, per me, il migliore è The master). curiosità finale: DiCaprio sul divano guarda in tv La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, mentre una scena dove sparano ricorda molto Gomorra di Garrone, chissà. consiglio: film da vedere al cinema, lo so che costa, boh, entrate di straforo se riuscite. nota metodologica: queste parole le ho scritte poche ore dopo la visione, senza aver mai letto una recensione o un articolo che parli del film.

La valutazione (2024) – hard disk pieno di film bellissimi e rari, principalmente vecchie assurdità italiane e recenti perle “orientali”, ma alla fine è tardi, sono stanco, ho mal di gola, ho sonno, metto un film totalmente a caso in streaming, al 50% sarà una visione che dimenticherò poco dopo, al 50% invece è qualcosa di interessante. con questo film di Fleur Fortuné sono stato fortunato: è qualcosa di interessante. all’inizio mi sembrava una puntata di Black Mirror lunga, con un po’ di tocchi da videoclip (la regista è in effetti una regista di videoclip – e questo è un bene) e una spruzzata di Lanthimos, e il film in effetti è tutto questo, ma assolutamente in senso positivo. in una futuro mai spiegato bene, dove probabilmente ci sono stati pesanti casini con il clima e l’aria non è più respirabile, una coppia vive in una casa ovviamente iper tecnologica sul mare, e vuole avere figli. ma la riproduzione è regolamentata dallo Stato, che manda una valutatrice con il compito di decidere se la coppia può avere figli o no. è già inquietante la prima scena, quando la valutatrice fa delle domande per un questionario, ma andando avanti la situazione diventa sempre più angosciante. dal punto di vista formale è tutto bello, in particolare la casa, gli spazi, le geometrie, le luci, i colori. c’è una intelligente rappresentazione di una tecnologia futura non immaginabile – ad esempio quella che usa lui per costruire animali virtuali, non si capisce bene come, e questo è efficace. è una tecnologia stile Black Mirror, quindi il progresso è visto come qualcosa di malvagio: una casa “intelligente” di fatto è un sistema di sorveglianza, tutto è valutabile, lo Stato dà dei punteggi, insomma cose che già viviamo ma aumentati di 10x. così come non si capisce dove loro vivono realmente, come sia diventata la società (solo verso la fine avremo qualche indizio, ma anche lì viene saggiamente mostrato poco), che tipo di organizzazione sociale ci sia. abbiamo più che altro indizi, segni, frammenti. viene sicuramente nominato lo Stato, qua rappresentato come emergenziale-totalitario, talmente invadente da entrare nell’intimità delle persone – ricorda niente? è già così – come nella stupenda scena di sesso orale con la valutatrice che spia a pochi metri di distanza e dice “prego, continuate”. può sembrare cringe, e invece nel contesto è disturbante, inquietante ma soprattutto credibile, perché è proprio quel tipo di Stato onnipresente, tra 1984 e Il racconto dell’ancella, ma è anche una scena un po’ ironica. non esistono porte chiuse, sono sempre aperte, e se sono chiuse la valutatrice le può aprire. sono pochissimi i momenti in cui la coppia può parlare in libertà e lo fanno velocemente e sottovoce come cospiratori all’interno della loro stessa casa, anche se in alcuni casi la valutatrice riesce comunque a sentirli (ma anche fuori dalla casa le cose non vanno meglio, anzi). lei è la classica visitatrice misteriosa portatrice di caos che destabilizza la famiglia, un po’ come Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos o Teorema di Pasolini, e non è un caso se seduce entrambi i membri della coppia (in parte, volendo, viene in mente anche Funny Games). notevoli le due attrici protagoniste, l’aspirante madre e [non faccio spoiler] diciamo la valutatrice, una vera performer, sia nel film, sia come attrice, nel senso che entra in un personaggio e non si capisce mai chi è davvero (tanto che lui ogni tanto, vedendola, le dice “adesso sei tu?” e lei risponde “sono sempre io”), e fa davvero di tutto, quindi ottima Alicia Vikander, presente in molti film, ad esempio era la robot di Ex Machina di Garland, giusto per citare un altro ruolo fantascientifico. una cosa che mi interessa molto in questo tipo di film, come in Speak no evil di Christian Tafdrup, The invitation di Karyn Kusama e mille altri, è vedere come la borghesia non riesca a trovare il punto in cui non accettare quelli che di fatto sono soprusi. come se non riuscissero a mettere un limite, a dire “qui non accetto più”, anche quando gli abusi diventano espliciti, un po’ per educazione, un po’ per passiva accettazione dell’oppressione sistemitca. è la classica situazione da rana bollita, il sopruso è graduale, si accetta sempre di più, si evita il conflitto e poi ci si chiede “come siamo arrivati a questo?” – capita a tutti noi. argomento sicuramente da approfondire, ma ora non posso, e oltretutto dovrei spoilerare almeno 10 film in una botta sola. comunque: The valutation è un bell’esempio di fantascienza contemporanea che a me, non che ce ne fosse bisogno, mi ha definitivamente tolto la voglia di avere figli e uno Stato.

BlacKkKlansman (2018) – il film all’inizio ci tiene a dire che è tratto da una storia vera, e si capisce il perché di questa precisazione: quello che vedremo sembra tutto molto improbabile. cioè il poliziotto nero che si infiltra nel kkk fingendosi un bianco razzista al telefono e manda poi di persona un suo collega bianco e i due vanno avanti così per mesi. sembra una trovata assurda di sceneggiatura, buona per una gag breve, ma pare sia successo davvero – esiste il libro scritto dal vero poliziotto nero – e anche diverse scene che sembrano inventate invece sono accadute realmente. ce n’è una però che, guardando il film, ho pensato “no, questa è davvero un’invenzione di sceneggiatura” e infatti c’ho preso: mi riferisco alla storia d’amore tra il poliziotto e la militante nera degli studenti, super politicizzata, che odia “i porci”. che lei si metta insieme a lui anche dopo aver scoperto che era un poliziotto sotto copertura è davvero difficile da credere, e infatti questo non è successo, anche se capisco perché è stata inserita, e cioè per rappresentare meglio il conflitto del protagonista tra la sua identità di poliziotto (e quindi contro i neri per definizione) e il suo essere un giovane uomo nero. per il resto il film è uno dei migliori di Spike Lee degli ultimi anni e forse in assoluto di tutta la sua filmografia, un film super politico, senza mezze misure, che però sceglie la strada della commedia, risultando spesso divertente, con una regia avvincente e a tratti audace – con alcune stranezze ormai marchio di fabbrica di Lee – che pur essendo molto anni ’70 riesce con intelligenza a collegarsi al presente, al trumpismo, al suprematismo di questi anni, roba che non è mai andata via e forse non sparirà mai. dico la verità: io ho problemi a vedere film con i poliziotti, mi danno quasi sempre fastidio, soprattutto quelli americani. però qua la situazione si sopporta, anche perché viene mostrata l’omertà della polizia di fronte al razzismo anche da parte di quelli che nel film sono i “poliziotti buoni” (ad esempio Adam Driver). anche il finale quasi favolistico dove improvvisamente sembra andare tutto bene, alla Frank Capra, viene interrotto da una minaccia incombente, e poi si collega al presente, come a dire “col cazzo che è andato tutto bene, guardate com’è messa l’america di oggi”. bella l’apparizione di Harry Belafonte.

Avatar (2009) – un’altra delle mie discusse (da nessuno, in verità) scelte per il gruppo cinema del collettivo. ricordiamo che l’unico vero Avatar è Anatar, ma detto questo, il filmone di Cameron è tra quelli che al cinema erano un’esperienza psichedelica indimenticabile, ma visti a casa perdono almeno del 50%. si può quasi dire che non ha senso vederlo a casa. non è solo un discorso di impatto visivo, spettacolarità – anche – ma il punto è la funzione narrativa del 3d. senza 3d questo film ha molto meno senso. perché è fondamentale non solo per immegerci nel pianeta Pandora e nella foresta – esperienze che ricordo bellissime e che per fortuna ho fatto più volte al cinema in pochi giorni – ma soprattutto per portare a un cambio di percezione e quindi di prospettiva, che è quello che succede al protagonista. il soldato bianco idiota (un disabile, che volendo è una metafora) che cambiando prospettiva, cioè essendo letteralmente in un altro corpo, con altri sensi, altre percezioni, cambia modo di essere, capisce cose che non avrebbe potuto capire, sente cose che non avrebbe potuto sentire, nemmeno con tutti gli sforzi possibili di empatia. questo percorso, grazie al 3d, lo fa anche lo spettatore: mi immergo nella realtà dell’altro, di come la vive l’altro, non solo la sua cultura ma addirittura le sue percezioni e perfino il suo corpo: sono nel corpo dell’altro. vivo come l’altro. quindi la dislocazione sensoriale del protagonista è anche una dislocazione culturale – e questo vale anche per lo spettatore. il 3d diventa un tentativo di decentramento: lo spettatore bianco è costretto a guardare con occhi diversi, non da esterno, ma da interno: è un na’vi. quindi il 3d offre letteralmente un nuovo sguardo. in questo senso è sicuramente un film anti-coloniale e anti-militarista e giustamente manicheo: i militari terrestri sono tutti stronzi (a parte i disertori), i na’vi sono tutti buoni e hanno ragione. quando muoiono i militari, non ci viene quasi mostrato, non c’è drammatizzazione, mentre viene data importanza alla morte dei na’vi e degli animali. secondo me è una scelta azzeccata e non così scontata in un film così mainstream. certo, la sceneggiatura non è il massimo della raffinatezza, soprattutto in certi dialoghi, ma la storia semplice è sensata: ci sono i terrestri che vogliono estrarre minerali da terre abitate e considerate sacre dagli indigeni, quindi prima provano “costruendo scuole e strade”, poi passano allo sterminio. sono storie che abbiamo visto in vari continenti e che in occidente si dovrebbero conoscere bene. anche alcune frasi che il cattivo, l’odioso capo dei militari, pronuncia, potrebbero sembrare da b-movie, esagerate, impossibili, eppure le abbiamo sentite da esponenti del colonialismo in america, in africa, e di recente in palestina, ad esempio. proprio su palestina/israele mi ha colpito una scena del film dove lo stronzissimo personaggio interpretato da Ribisi, quando viene a sapere che nell’albero che vogliono buttare giù ci sono dei bambini, si fa degli scrupoli, tenta un’altra opzione: cosa che oggi, sapendo bene cosa fa sistematicamente Israele, fa quasi sorridere. sulla questione white savior/salvatore bianco: polemica inevitabile ma merita un breve approfondimento. perché la storia è appunto quella di un bianco di merda, militare mercenario, che senza farsi troppe domande collabora a un’occupazione e uno sterminio – fotocopia di tanti che vanno a occupare e massacrare posti che non sanno nemmeno dove si trovano – ma poi diserta, si immerge in un’altra cultura, impara a conoscerla, non insegna nulla, non porta nulla della sua superiorità (di solito tecnologica) bianca, ma ascolta, si adatta, tanto da diventare uno di loro. la storia voleva essere appunto questa, tanto che dalla fine di questo primo film non si può nemmeno più parlare di bianco, lui è diventato un na’vi, ormai la sua identità, il suo corpo e il suo colore (blu) è quello. ed è esattamente quello che si intende, in particolare nel cinema, con white savior, cioè un protagonista bianco che ha il ruolo di leader nel salvare le minoranze non bianche, di solito in un film scritto da bianchi e diretto da bianchi, raccontato dal punto di vista del bianco. e in Avatar è sicuramente così: c’è il bianco che viene da fuori che dà la spinta perché gli indigeni si difendano, anche se di fatto è una ribellione collettiva ed ecologica, vengono salvati da Eywa, la divinità natura/madre-terra, e il colpo decisivo è di Neytiri, la donna di lui, e alle azioni contro i militari collaborano tutti, non solo i na’vi ma anche gli animali – in realtà sono proprio loro ad essere fondamentali nella vittoria. è vero che il protagonista è appunto il protagonista, quindi il fatto che noi vediamo la storia dal suo punto di vista già la rende più bianca, e poi ha un ruolo simbolico molto forte quando si presenta cavalcando quell’uccellone rosso che nessuno riusciva a cavalcare e diventa una specie di mito per tutti (una delle scene più problematiche). ma io penso che, al netto di questi mega clichè, Avatar rappresenti proprio un decentramento, un uscire dalla propria identità per comprendere l’altro, fino addirittura a morire e rinascere nel corpo dell’altro. quindi la rinascita del protagonista come na’vi è una metafora di perdita della centralità bianca, anche se resta raccontata attraverso lo sguardo bianco: fino all’ultimo è la voce fuori campo del protagonista a parlare, ma è bianco o blu? dopo le due cerimonie lui è a tutti gli effetti un na’vi, o al massimo una specie di “mezzosangue”, visto che è nato in un’altra cultura. aggiungo anche che il protagonista è un utile alleato per i na’vi: conosce le tecniche di combattimento degli occupanti, la loro tecnologia, chiunque, in un conflitto, lo vorrebbe dalla sua parte. quindi si può dire che, pur restando un film white savior, Avatar ha introdotto nuovi elementi del genere, secondo me interessanti. per essere meno bianco e avere una prospettiva originale il film doveva essere scritto da una persona indigena, o almeno con la collaborazione di una persona indigena, non bianca, non occidentale – forse si sarebbe scritta una storia diversa,  chissà. ma a parte tutto questo (e ci sarebbe molto altro da dire), a me la saga di Avatar piace, anche se va vista solo al cinema. ha alti e bassi, ma gli alti – al cinema, insisto – sono molto alti, come la corsa notturna nella foresta di Pandora – pura psichedelia – o le scene di volo con gli uccelli che non so come si chiamano.

Beyond the Infinite Two Minutes (2020) – [consigliato da CC] sinteticamente, diciamo che è la versione fantascienza-viaggi-nel-tempo di One cut of the dead – mini-capolavoro giapponese del 2017. questo film di Junta Yamaguchi del 2020 è una commedia fantascientifica basata su virtuosismi di sceneggiatura e regia, quindi paradossi temporali da far scoppiare la testa e finti piani sequenza molto fluidi, come se il film fosse girato in tempo reale. a quanto pare c’è perfino un termine giapponese per questo genere, nagamawashi, cioè film a basso budget con finti piani sequenza. ad esempio questo è costato circa 17mila euro ed è stato girato in 7 giorni, immagino con molte prove e molta coreografia, perché è un congegno perfetto. all’inizio pensavo potesse essere ripetitivo, un’idea forse buona per un corto, e invece regge benissimo anche grazie agli attori. film intelligente e divertente, di fatto ambientato in due stanze, si basa su una singola idea – due schermi a poca distanza ma con 2 minuti di differita, quindi si può vedere il tempo 2 minuti prima o 2 minuti dopo – e da lì si sbizzarrisce con varie variazioni sul tema. come per il praticamente-capolavoro One cut of the dead, anche qua l’estrema difficoltà del girare un film così preciso non si nota durante la visione, leggera, coinvolgente, divertente. mi viene in mente quello che pare disse Stendhal de L’italiana in Algeri di Rossini, “una follia organizzata e completa”, dove la grande scrittura, preparazione e virtuosismo venivano sublimate in qualcosa di giocoso e divertente. viva i film così, a basso budget ma complessi e divertenti.

Ovunque nel tempo (1980) – oh, siamo nella mia zona preferita, quella dei film che non hanno avuto successo al tempo, né di pubblico né di critica, e poi sono stati quasi del tutto dimenticati. eppure questo è scritto nientemeno che da Richard Matheson, che oltre a Io sono leggenda (adattato per la prima volta al cinema in italia, ricordiamo), aveva scritto anche tanti episodi di Ai confini della realtà, e questo film sembra come un episodio di quella serie però più lungo e molto più romantico. è un fantasy d’amore, con una situazione simile a quella di Ritratto di Jennie, anche qua infatti c’è un ritratto e c’è un amore che attraversa il tempo in modo paradossale. c’è il viaggio nel tempo più semplice e originale mai visto, che assomiglia in tutto e per tutto a un trip o a un sogno (e infatti il film, ehm, può essere interpretato anche così), niente apparecchi, portali o macchinari. io apprezzo quando si schiaccia il pedale del sentimento, bisogna avere coraggio, essere anche un po’ incoscienti. belle ambientazioni d’epoca, ma soprattutto interessante feticismo per gli oggetti che attraversano il tempo, le monete, l’orologio, il ritratto, i vestiti – oggetti magici che collegano le due dimensioni temporali. Cristopher Reeve era appena diventato famoso due anni prima con Superman, ma qua fa un personaggio che ricorda quelli di Hugh Grant qualche anno dopo, solo più alto e muscoloso, quindi in pratica un mix tra Superman e Hugh Grant e qualcuno giustamente potrebbe dire “ah, certo, intendi Clark Kent”. diretto da Jeannot Szwarc, regista di decine di serie televisive e di film di culto come Lo squalo 2, Enigma e La storia di babbo natale, che da bambino avrò visto 1000 volte. mentre lei è Jane Seymour, che io – ma pure altri immagino – ricordo più che altro per La signora del West. secondo me l’insuccesso del film è dato dalla combinazione di elementi nerd-bizzarri (i paradossi dei viaggi nel tempo, ecc.) con l’altissimo livello di romanticismo. chi può essere il target per un film così, a parte il sottoscritto? mi viene in mente un altro film di quel periodo con “problemi” simili, e infatti anche quello fu un flop, ovvero il mio film preferito di Carpenter (ogni volta che lo dico un cinefilo di youtube sviene), Starman.

Brigadoon (1954) – che trip, questo musical di Vincent Minelli. siamo nel periodo d’oro del genere, Un americano a Parigi, Cantando sotto la pioggia, Gigi e via dicendo, gli anni sono quelli. e infatti il protagonista è il grande Gene Kelly. ma Brigadoon è decisamente diverso da tutti gli altri musical. è una specie di fantasy romantico, con parti folk, mitologiche, leggendarie, anche da fiaba, con un’atmosfera onirica, non per forza spensierata e allegra, anzi più spesso malinconica, se non proprio cupa. Brigadoon è un villaggio della Scozia non presente sulle mappe, appare solo per un giorno ogni 100 anni. due americani ci finiscono per caso, uno dei due si innamora di una ragazza del villaggio. sicuramente minore rispetto ai film citati per quanto riguarda le coreografie – nonostante fossero di Gene Kelly – e di fatto non c’è nemmeno una scena di ballo che resti impressa. a restare impressa è l’atmosfera, ma soprattutto le incredibili scenografie, davvero belle – il film è interamente girato in studio. ci sono riflessioni sul tempo, sull’amore impossibile, ma poco altro, sembra tutto volutamente superficiale, eppure ha quel fascino da film di culto, oggi dimenticato – anche perché oggettivamente meno bello di altri del genere – e invece da recuperare proprio perché insolito, strano, classico ma sperimentale.

Verso il sole (1996) – che filmografia strana, quella di Cimino. questo è il suo ultimo film ufficiale, dopo tutta una serie di insuccessi clamorosi che l’hanno condannato alla frase “era meglio Il cacciatore”. qua, su sceneggiatura non sua, mi sembra completamente libero, livello che cazzo me ne frega, dopotutto come nei film precedenti. di fatto è un road-movie con inseguimenti, anche quando i due protagonisti non sono inseguiti le scene sono girate come inseguimenti. da cosa scappano? sappiamo verso dove vanno: una conversione spirituale. c’è un ragazzino navajo malato terminale che obbliga il suo dottore, appena conosciuto, ad accompagnarlo verso una montagna sacra che potrebbe guarirlo. il dottore è il bianco, la scienza, l’occupante, il ragazzino sente di avere un legame con un sapere antico legato alla madre terra, anche se di fatto è un giovane membro di una gang, non così legato alla vita dei navajo, ma sente comunque il richiamo delle radici. il percorso spirituale, di fatto, vale per entrambi. film bizzarro, molto sopra le righe, ma che diventa molto interessante soprattutto nella seconda parte, quando si lasciano città, strade asfaltate e tavole calde e ci si immerge in quei paesaggi che penso siano il mojave o roba simile. lì c’è la scena che mi è piaciuta di più del film, quando, scappando dalla polizia, i due protagonisti a bordo di una vecchia cadillac corrono in montagna assieme a una mandria di cavalli e di navajo (un po’ come la famosa scena di Ritorno al futuro – Parte III quando la delorean appare durante un inseguimento nel deserto). bravo Woody Harrelson, anche se a colpire veramente è il finto navajo (in realtà è un americano-portoricano) Jon Seda, così aggressivo, incazzato, moribondo e spirituale. non so come è stato accolto dai navajo, ma secondo me è una scelta intelligente quella di scegliere un protagonista che in realtà non è del tutto dentro quell’ambiente, di fatto è un piccolo criminale di città, il libro che si porta dietro l’ha trovato per caso in carcere, è un “mezzosangue” come si presenta lui stesso, che cerca però una via di riscatto, un senso più grande della sua vita breve e disperata. e questa tensione tra marginalità urbana e spiritualità ancestrale è forse la cosa più interessante del film: non è tanto un ritratto realistico dei navajo, quanto la proiezione di un bisogno di ritorno a un’origine, a un legame perduto, perfino a un legame che forse non c’è mai stato. Cimino sembra usare quel contesto come spazio simbolico, più che etnografico (merito anche della sceneggiatura). nota finale: purtroppo è difficile da trovare, quindi l’ho visto a una qualità per me non del tutto soddisfacente, quindi questo elemento va tenuto in considerazione per la valutazione.

Il ritratto di Jennie (1948) – altro film fantasy-sentimentale per certi versi simile al capolavoro del 1935 Sogno di un prigioniero. qua c’è una bambina che appare a un pittore alla ricerca di ispirazione, non sembra appartenere al presente, non si capisce da dove viene. la incontra più volte, lei ogni volta cresce e i due ovviamente si innamorano, e lui comincia a dipingerla. allo stesso tempo indaga su di lei per capire chi è veramente. bel bianco e nero, belle le apparizioni ectoplasmatiche di Jennie, con tutta una serie di inquadrature ed effetti molto intelligenti, il film, molto classico, a un certo punto si fa inaspettatamente sperimentale, ad esempio c’è tutta una sequenza completamente verde (e una parte finale a colori). è tra la lunghissima lista dei film dimenticati, ma va recuperato per questa bella unione di romantico e soprannaturale, anche se siamo lontani dai livelli di Sogno di un prigioniero. non c’è quella magia, anche se è un film molto più misterioso, e per certi versi l’indagine del protagonista per capire chi è Jennie ricorda anche James Stewart in Vertigo. ma soprattutto ricorda Quando c’era Marnie di Hiromasa Yonebayashi. entrambi vengono da due romanzi, il ritratto di Jennie è uscito prima, ma raccontano situazioni simili. l’incontro con una ragazzina che non sembra appartenere al presente e che dà indizi misteriosi se non proprio contradditori sulla sua identità e il suo passato, l’innamoramento tra i due personaggi, uno dei due che disegna l’altro (era così anche in Marnie!), la realtà sospesa tra sogno e memoria, questo soprattutto in Marnie, ma se dico altro è reato di spoiler. comunque c’è tutto un genere, soprattutto di quel periodo ma non solo, di film fantasy-romantici, di innamoramenti con sogni, fantasmi, persone che non esistono e via dicendo (anche Ovunque nel tempo del 1980, tratto da Matheson).

Solo gli amanti sopravvivono (2013) – lo dico subito, è un mio comfort movie ed è il mio film preferito sui vampiri. un fantasy commedia horror sentimentale curatissimo nei dettagli e nelle atmosfere. la storia è talmente semplice che non è importante riportarla, il film è nelle musiche, nei vestiti, negli occhiali da sole, nell’arredamento, nello stile, e ovviamente in Tilda Swinton. come molti film, quasi tutti, è anche una grande storia d’amore – una storia d’amore che attraversa i secoli visto che i due vampiri protagonisti vivono non si capisce bene da quando tempo, forse mille anni, forse di più. e cos’hanno fatto in tutto questo tempo? si sono dedicati all’arte, alla cultura, alla conoscenza della natura. siccome non lavorano, hanno tempo per le cose belle della vita, la musica, la poesia, la botanica, quello che volete. per me il messaggio del film – se ce n’è uno – è questo: gli esseri umani, liberi dalla schiavitù del lavoro, diventano creature raffinate, dedite alla bellezza, all’arte. una schiavitù è rimasta, ed è fisiologica: i vampiri devono bere sangue, altrimenti muoiono. Jarmush rappresenta questa loro costante ricerca come una tossicodipendenza, e quando prendono il sangue sembrano sballarsi. a parte ciò, è un film che vidi due volte al cinema quando è uscito, nel 2013, un giorno e poi il giorno dopo, e negli anni l’ho rivisto decine di volte. so benissimo che non è un capolavoro – anche se è uno dei migliori di Jarmush – ma mi piace starci dentro, e ogni tanto ci devo tornare. geniali le scelte di Tangeri (bellissime tutte le sequenze notturne-gialle girate lì) e soprattutto quella di Detroit. niente Londra, Roma o New York: i vampiri di Jarmush vivono nelle grandi aree abbandonate di Detroit. meravigliosa come al solito la Swinton che cammina elegante con guanti e occhiali da sole, rigorosamente al buio. da citare anche la fotografia di Yorick Le Saux, a lungo collaboratore di Ozon ma anche di Assayas.

Finale a sorpresa (2021) – titolo originale Competencia oficial. partiamo dalle cose belle: i tre attori, ovvero Penelope Cruz, Antonio Banderas, Oscar Martinez, tutti e tre molto in forma. di fatto il film è fatto solo con loro tre, per il 90% del tempo nello stesso posto, a recitare ma anche a far finta di recitare. la Cruz è, come quasi sempre, meravigliosa. Martinez bravissimo, me lo ricordavo per Relatos salvajes, e Banderas forse è il più istrionico e divertente. è una gara tra stronzi e cinici, sono tutti e tre dei personaggi spietati, ognuno a loro modo, con un ego enorme. il film è una commedia satirica proprio sugli attori e i registi (la regista, in questo caso, ovvero la Cruz) e secondariamente sul mondo del cinema. caso raro di film non sul making of di un film ma sulla pre-produzione, quando si legge il copione, si discute, si litiga, mentre nel finale vediamo una conferenza stampa in qualche festival, ma non vediamo mai il film o la sua realizzazione. a volte può risultare ripetitivo e non tutte le gag riescono, ma alcune sì e anche molto bene: la “cattiva notizia” di Banderas e soprattutto la scena più bella dei film, quella dei premi. quindi divertente, diciamo abbastanza, non da strapparsi i capelli ma comunque con diverse cose interessanti. anche questo spazio enorme e vuoto, quasi metafisico, in cui i tre artisti si muovono e provano crea un’atmosfera irreale, caricata ancora di più quando viene aggiunto un enorme masso sulle teste degli attori per sentire “il peso”. bello lo spunto iniziale, il miliardario che vuole essere ricordato e allora dà un super budget a una regista super premiato per fare un film con attori super premiati (film tratto da libro premiato). forse il difetto del film è che è troppo teorico e intellettuale: con questo spunto, questo materiale e questi attori forse era più interessante un film che avesse il coraggio di svaccare veramente. chissà.

Be Kind Rewind (2008) – incompresa e sottovalutata commedia di Gondry, come spesso è capitato al regista francese (cioè di essere incompreso e sottovalutato). l’idea di base è molto bella: in una piccola videoteca di quartiere si smagnetizzano tutte le videocassette, allora i gestori, pur di non deludere i clienti, girano in maniera totalmente amatoriale delle copie dei film fatte da loro. le persone non solo non restano deluse, ma apprezzano molto questo genere di film arrangiati e la richiesta aumenta. nel frattempo, il palazzo dove si trovano dev’essere demolito. ora: perché il film è ambientato a Passaic, New Jersey, cittadina di 70mila abitanti non esattamente famosa? perché Gondry voleva un posto qualunque, lontano da Hollywood e dalle location di Hollywood, un posto popolare. quindi non è solo un magnifico e divertente elogio del cinema autentico, fatto con passione e divertimento e zero budget, ma anche un’esaltazione della comunità. i due della videoteca non agiscono da soli, da subito coinvolgono altre persone, attori, attrici, aiutanti, poi gli stessi clienti/spettatori finiscono dentro ai film, tutto il quartiere è coinvolto, fino al finale dove gli abitanti, tutti insieme, collaborano per mettere in scena un pezzo della storia della loro città (tra l’altro girato con centinaia di persone di Passaic). e infine, tutti insieme si guardano questo strambo docu-film, realizzato nella maniera più arrangiata possibile, tra effetti artigianali, fughe dalla polizia, costumi improbabili e via dicendo. quindi il potere del cinema come collante sociale, come gioco collettivo e come strumento di memoria. alla fine è un’odea alla creatività popolare e condivisa, senza autore perfino, visto che il film finale viene fatto da tutti (ma anche in quelli precedenti, le copie di Ghostbusters, Robocop ecc. non c’era un vero e proprio autore). io amo questo film perché dice esattamente questo: il cinema lo può fare chiunque, come tutte le altre arti non parte dall’alto, non devi aspettare nulla, se vuoi suonare prendi una chitarra e suoni, se vuoi fare un film prendi la prima videocamera che trovi e fai un film, anche partendo da una copia (dopotutto quando si comincia a suonare si parte sempre da qualcosa di già esistente). nonostante il finale simil Frank Capra,  con tutta la comunità riunita che si vuole bene, il palazzo della videoteca verrà comunque distrutto, ma il film si ferma prima, come a dire “ok, il palazzo può essere distrutto, ma il legami creati nella comunità no”. stilisticamente è 100% Gondry, forse molto più vicino ai suoi videoclip che ad altri film, ma insomma siamo lì. film non capito dalla critica, nemmeno italiana (con qualche prevedibile eccezione, come Spietati.it), ma chi se ne frega. in un certo senso è il film-manifesto di Gondry, ed è divertente. Mos Def ok, Jack Black strafa ma proprio per questo funziona.

Mobile Men (2008) – sì, sono solo 3 minuti, ma di Apichatpong Weerasethakul. ci sembra bello solo perché è di un autore che amiamo? no, è veramente bello, e sì, sono solo 3 minuti. un ragazzo su un pickup a tutta velocità, dietro scorre il paesaggio del tramonto, o forse dell’alba, ma direi più del tramonto. poi vediamo invece l’altro ragazzo che sta riprendendo, tatuato. c’è una sorta di scoperta e intimità tra i due, ma in un veicolo a tutta velocità in una strada che attraversa i campi. i due sono vicini in uno spazio ristretto, i corpi quasi si toccano, la macchina da presa insiste sui dettagli minuti, ma in un auto lanciata in velocità e c’è uno strano contrasto tra la vulnerabilità dell’intimità e la forza del veicolo che li trascina. i due si passano la camera di mano in mano, a un certo punto si vede anche il regista, a bordo con loro, spettatore partecipante, e c’è perfino un cambio di lente. di questo film Weerasethakul ha detto che “il pickup simula un piccolo isolotto in movimento senza frontiere, dove c’è la libertà di comunicare, di vedere e di condividere”. potrebbero essere tre minuti sorprendentemente magici in un vlog di viaggio visto per caso su youtube alle 3 del mattino in una notte insonne. quindi, insomma, bello.

La collina dei conigli (1978) -titolo originale Watership Down. film d’animazione britannico, e si vede, nel senso che è decisamente diverso dai film disney, tanto che in molti paesi è stato censurato per la violenza. eppure è un film su un gruppo di conigli, cosa mai ci potrebbe essere di così fastidioso? ad esempio molto sangue, violenza cruda e realistica, in una campagna vera, talvolta cupa, non idealizzata, fatta di tralicci dell’alta tensione, binari, filo spinato, fattorie. in nessun film disney si vedrebbe una scena come quella in cui uno dei conigli protagonisti – una coniglia – viene catturata al volo da un falco e uccisa. dura forse due secondi, non c’è musica drammatica sotto, gli altri conigli semplicemente vanno via e amen, non se ne parla più. non c’è la compensazione emotiva tipica dei film disney: la morte arriva, accade di colpo, senza musica, spiegazioni o moralismi. pensiamo alla differenza con due scene famose e traumatiche come la morte della mamma di Bambi e la morte di Mufasa nel Re Leone, estremamente drammatizzate. qua no, la natura è indifferente, la morte capita e per quanto dolorosa si va avanti, perché se si vuole sopravvivere si è costretti ad andare avanti, non si può restare fermi ad ascoltare i violini. mi è piaciuto questo mix di realismo rurale e mitologia conigliesca, con il loro folclore, il loro dio creatore, le loro profezie, il coniglio nero della morte. pare che nel romanzo da cui è tratto tutto questo fosse ancora più presente, ma secondo chi l’ha letto il film è una ottima trasposizione. nonostante il budget molto più piccolo delle produzioni disney, le animazioni funzionano, i fondali della campagna, dei prati, delle colline, sono molto belli, e funzionano soprattutto le parti più stilizzate. fa ridere pensare che andasse in onda in tv come normalissimo cartone per bambini, perché ci sono scene dove i conigli muoiono male, altre dove si graffiano e si squarciano, con tanto sangue, ma soprattutto quella dove vengono soffocati sottoterra dagli umani, terribile. il personaggio dell’uccello secondo me ha di brutto influenzato quello di Brisby e il segreto di NIMH del grande Don Bluth, altro grandissimo film non-disney, di qualche anno successivo a questo. ma anche altri aspetti del film sono simili, come il personaggio dell’animale profeta (qua Quintilio, là Nicodemo), ma la stessa ambientazione della campagna, la fattoria, gli oggetti umani che possono uccidere. ma soprattutto, a parte l’ovvio discorso su natura vs essere umani, La collina dei conigli è un film anarchico, o almeno io l’ho visto così. vedo spesso che certe persone definiscono “anarchico” un certo cinema o un certo regista totalmente a caso, non capisco mai cosa intendono. qua non è una questione di linguaggio cinematografico ma più dell’aspetto narrativo. il gruppo di conigli dissidenti che lascia la conigliera perché non ascoltati dal loro capo, cercano la libertà in un’ipotetica collina dove vivere liberi, intendendo senza capi, si scontrano con una comunità autoritaria dominata da un coniglio detto “il generale”, simbolo della dittatura e della repressione, propongono agli altri di scappare e di andare a vivere liberi, senza capi. non c’è un vero leader, potrebbe sembrare  quello che forse è il protagonista, Moscardo, che ha autorevolezza, ma non esercita mai potere, non dà ordini, ascolta, a volte guida, ma altre lascia spazio. altre volte potrebbe sembrare Parruccone, ma anche lui è un leader solo quando servono le sue competenze tattiche (è il combattente), entrambi sono compagni di cui si riconosce l’esperienza, ma non capi, tantomeno tiranni. di fatto le decisioni spesso vengono prese collettivamente in un esempio di cooperazione basata sulla fiducia reciproca (e interspecie, vista l’alleanza con il volatile già citato). l’originalità del film – e del romanzo ovviamente – è anche nella scelta dei conigli come protagonisti, umanizzati ma non troppo. per dire, in Brisby, e in mille altri, quelli intelligenti sono i topi. qua vediamo invece i conigli, spesso associati alla codardia – semplicemente perché animali molto prudenti – e di certo non considerati molto intelligenti, come animali coraggiosi, astuti e intraprendenti. un’ultima cosa: in questo film non ci sono decine di canzoni stracciapalle, ma solo una, breve, in un momento molto bello e significativo, una canzone eterea, malinconica e luminosa, scritta da Mike Batt e cantata da Art Garfunkel, che si inserisce delicatamente e quasi a sorpresa nella colonna sonora del film.

Sogno di un prigioniero (1935) – melodramma visionario, capolavoro di Henry Hathaway, inspiegabilmente non famoso nemmeno tra certi cinefili, e invece è un film da conoscere, da vedere e rivedere. ha quella magia fiabesca tipo La morte corre sul fiume, anche se è un dramma romantico, forse una delle storie più romantiche mai viste al cinema. inizia con due bambini, amici e vicini di casa, che vengono separati, poi si rivedono da adulti ma non si riconoscono, ma si innamorano comunque. quando capiscono chi sono è troppo tardi, lui finisce all’ergastolo per omicidio (un buffo omicidio, va detto). ma nel frattempo i due avevano scoperto una cosa: sono capaci di fare sogni condivisi, quindi di incontrarsi in una realtà onirica. bianco e nero affascinante, regia perfetta, Gary Cooper ottimo per il ruolo, dialoghi perfetti ancora oggi. è pieno di cose belle, difficile fare l’elenco. influenzerà tanti film, anche alcuni che forse non lo sanno. ad esempio ha tente cose in comune con Inception, anche se non ho trovato questa connessione da nessuna parte. eppure: sogni lucidi condivisi, storia d’amore che si rifugia in un sogno, architetto dei sogni che costruisce un edificio ma la costruzione crolla quando il sogno crolla, l’oggetto magico-simbolico legato al mondo onirico, i modellini di costruzioni che evocano il sogno, i dubbi sul confine tra realtà e sogno. c’è un’intera sequenza che sembra Inception, ma a quanto pare – se ho cercato bene su internet – sono l’unico a sostenerlo, mah, mistero. sul tema c’era già stato un film del 1921, La vita è un sogno, tratto dallo stesso romanzo e oggi purtroppo andato perduto. comunque, ha influenzato sicuramente i surrealisti – Breton e Bunuel lo amavano – ma forse anche film come Il ritratto di Jennie, e volendo anche Se mi lasci ti cancello, in qualche modo. sull’aspetto visivo il tema ricorrente delle sbarre, in parte a prefigurare il destino di lui ma anche l’amore impossibile tra loro nella realtà, mi ha ricordato In the mood for love. solo che qua, grazie al sogno, [spoiler] lui passa attraverso le sbarre e può vivere il suo amore per l’eternità.

Paddington in Perù (2024) – anche chi mi conosce bene forse non può immaginare che io sia un super fan della saga di Paddington. a volte chiamo così il mio gatto, e in casa abbiamo pure attaccato un poster del primo film su una porta. adesso non capite, ma tra 30/40 anni tutti i film della serie verranno rivalutati. secondo me già ora sono perfetti come trip-movie, dove con trip intendo il viaggio psichedelico. questo capitolo è avventuroso e colorato, bizzarro, con questo perù immaginario, la foresta, gli intrighi e i colpi di scena, tutta la parte centrale secondo me è evidentemente ispirata a quella perla che è Jungle Cruise (bellissimo, altro mio comfort movie). però Paddington ha da sempre un gusto inevitabilmente britannico, un po’ eccentrico, un po’ strano, più vicino ai Monty Python che al manuale del bravo sceneggiatore statunitense. riesce a rendere avvincente la storia di un orso molto educato e gentile che è preoccupato per la salute di sua zia che abita in perù. molti i riferimenti ad altri film, alcuni totalmente inaspettati: Tutti insieme appassionatamente, 2001 odissea nello spazio, Fitzcarraldo (questo davvero inaspettato in un film così, oltretutto in più scene) e volendo anche un po’ di Aguirre, Steamboat Bill, Jr. di Buster Keaton, Indiana Jones (la palla gigante che lo insegue, idea in realtà già vista in Seven Chances sempre di Keaton) e credo anche altre che o non ho colto o che adesso non ricordo – ma tanto il film lo rivedrò più volte. anche il senso finale può sembrare facile ma è interessante, siamo in zona Kore’eda: c’è un luogo d’origine, che è bello ritrovare ma al quale non si appartiene più, c’è una casa in cui si è cresciuti, ma poi si è andati via, e poi c’è la famiglia che si è scelto. nessuna di queste è quella “vera”, tutte convivono, in qualche modo. inutile dirlo, ma CGI ottima, attori tutti ok, anche se si fa notare in particolare la suora di Olivia Colman. già non vedo l’ora che esca il prossimo.

Paterson (2016) – uno dei migliori di Jarmusch, nonchè uno dei film più vicini a Perfect Days di Wenders per l’attitudine zen, non solo per la storia ma anche per lo stile di regia, per lo sguardo, e per il protagonista che fa un lavoro normale. di questi personaggi i critici cinematografici scrivono che fanno lavori umili, che sono della working class, cose di questo tipo, perché il loro punto di vista è irrimediabilmente borghese, ma noi che questi lavori li abbiamo fatti e li facciamo davvero pensiamo: ah che bello, si parla anche di gente normale, e non in maniera caricaturale. Paterson abita a Paterson e fa l’autista/driver ed è interpretato da Adam Driver. nei pochissimi momenti liberi dal lavoro scrive poesie. non vuole fare il poeta, è un poeta. ma ha poco tempo per farlo perché lavora. lo stesso film è come una sua poesia, ed è sicuramente ispirato da un vero poeta legato a Paterson (intesa come città) ovvero William Carlos William. leggetevi qualche sua poesia e capirete meglio questo film che sembra raccontare quasi il nulla, ma proprio per questo è interessante. molto bello e complesso il rapporto tra il protagonista e la sua compagna che non lavora ma ha tante aspirazioni creative. molti critici non hanno capito un cazzo di questo rapporto splendidamente rappresentato perché di solito sono dei maschi cinici e incattiviti. l’amore tra loro due è una delle cose più interessanti del film. Paterson con Perfect Days condivide, tra le tante cose, la rappresentazione del gesto quotidiano, la ripetizione che non è solo monotonia ma anche spazio di contemplazione (in quello di Wenders il protagonista osservava e fotografava la luce tra gli alberi, in Paterson lui osserva e scrive poesie), in una vita che vive con grazia e consapevolezza i propri limiti sociali ed economici. certo, viene da chiedersi se è saggezza o se è una resa a un mondo impossibile da cambiare, dove si può solo esistere nel modo più elegante possibile, ma è una domanda che è bello lasciare aperta. è un film privo di conflitto, cosa inimmaginabile per gli spettatori cresciuti a pane e cinema statunitense. va riportata anche l’ottima cit. a Gaetano Bresci, che abitava proprio a Paterson.

Toy Story (1995) – rivisto per il gruppo cinema del collettivo, alla fine è sempre divertente e anche la grafica regge incredibilmente bene dopo 30 anni. ha sicuramente, per i miei gusti attuali, dei grossi difetti. sembra scritto con il manuale dello sceneggiatore statunitense in mano, e non escludo che sia successo davvero. ogni scena serve a creare un conflitto, ed è tutto un alternarsi di conflitto-tensione-ostacoli-risoluzione e via dicendo. se pensiamo che in quello stesso periodo, qualche anno prima e qualche anno dopo, in Giappone c’era roba come Ghost in the Shell (stesso anno), Principessa Mononoke, Akira, Una tomba per le lucciole, Porco rosso, I sospiri del mio cuore (sempre stesso anno), Perfect Blue, Pioggia di ricordi… giusto per dirne alcuni. insomma, questi erano i film d’animazione che si facevano in Giappone, se li si confronta con Toy Story (che resta uno dei migliori in assoluto della Pixar), che dire, gli Usa erano un po’ indietro. in oriente si lavorava su temi adulti, filosofici, spesso cupi e poetici, mentre Toy Story inaugura l’epoca Pixar con una scrittura molto “manualistica”, tutta a conflitti concatenati e con un target più familiare (anche se è uno dei primi film che piacque molto anche agli adulti). due mondi che si guardavano quasi da estremi opposti. il film però è avvincente e divertente, diverse trovate sono tuttora ottime, e ovviamente l’aspetto tecnico è innegabile, rivoluzionario, qualcosa di mai visto (se non nel corto che l’ha ispirato, sempre di Lasseter, Tin Toy). quindi sulla tecnica non si discute. una cosa che mi piace veramente molto di Toy Story è il personaggio di Buzz Lightyear, bello per design, caratterizzazione, psicologia, espressività. scene preferite del film, due: quella dell'”artiglio”, e quella con i giocattoli muti e mutanti, totalmente perturbante. anche le scene d’azione sono davvero spettacolari, rimani incollato a seguire tutto dimenticandoti che sono dei giocattoli disegnati al computer – ti importa davvero sapere se si salvano e come ci riusciranno. da apprezzare anche il fatto che le canzoncine sono poche e durano poco, a differenza di molti film disney/pixar successivi dove ti viene voglia di piantarti delle forbici nelle orecchie. comunque della serie il migliore è senza dubbio il terzo.

Kairo (2001) – conosciuto anche come Pulse, horror di Kiyoshi Kurosawa, regista che all’epoca si era già fatto notare per Cure e che poi avrà una lunga filmografia. siamo nel periodo d’oro dell’horror giapponese, Ringu e via dicendo, e Kairo è uno dei film migliori. ma non è semplicemente un horror: è un film filosofico, poetico, esistenzialista ed estremamente pessimista sulla solitudine e l’alienazione, che procede con un ritmo lento e ipnotico, dilatato e rarefatto. è uno di quelli che sembra raccontare i giorni nostri, ma 25 anni prima. penso alla scena in cui lei chiede a lui “ah, ti sei iscritto a internet? pensi che connetta le persone?”. ma internet nel film è un mezzo che amplifica l’isolamento. è davvero più una riflessione esistenziale che un horror, anche se ci sono momenti perturbanti e di paura. regia cupa ed elegantissima, che sfocia poi in un finale apocalittico. ha influenzato diversi film giapponesi del periodo, ma anche film occidentali di molto successivi come It follows. per certi versi ha anche delle affinità con la serie anime del 1998 Serial Experiments Lain, e in generale con le opere che riflettevano l’ansia di fine anni ’90 verso internet e la tecnologia. oggi, se si dovesse fare un remake (non fatelo), ci starebbe bene l’immagine di una persona a letto, in una stanza buia, illuminata solo dalla luce dello smartphone in pieno doomscrolling, fino a diventare un ombra sul materasso, come le ombre di Kairo (e di Hiroshima).

Si gira a Manhattan (1995) – titolo originale Living in Oblivion, che è il film che la troupe capitanata dal regista indipendente Steve Buscemi sta cercando di girare. soliti intoppi, va tutto male, cose che prendono fuoco, attori pazzi, tecnici irascibili – in Italia qualcuno pensa che questo genere sia nato con Boris, ma ci sono almeno 18 film esattamente così. questo di Tom DiCillo è uno dei più riusciti, diviso in tre capitoli, con una intelligente alternanza tra b/n e colore, è abbastanza divertente ed è costruito quasi casualmente, nel senso che è stato girato prima un cortometraggio (il primo capitolo del film), con pochi mezzi e pochi soldi – per essere un film americano, insomma il protagonista era comunque Buscemi… – poi nei mesi successivi, trovando di volta in volta dei soldi, è stato girato il resto, che quindi inizialmente non era previsto, ed è diventato un lungometraggio. bello quando realtà, finzione filmica e sogno si mescolano, come quando Buscemi fa all’attrice un discorso identico a quello che dovrebbe fare l’attore protagonista. rimane impressa Catherine Keener e, nonostante il piccolo ruolo, anche Peter Dinklage, qua al suo esordio, da molti ricordato come “il nano del Trono di spade”, ma in realtà ha fatto un casino di film e a me piace ricordarlo come appassionato di treni e misantropo nel piccolo “Station Agent” del 2003. una delle scene migliori ce l’ha proprio lui, quando si ribella alla scena pensata dal regista del sogno della protagonista dicendo “perché ci dovrebbe essere un nano? tu hai mai sognato un nano? no? nemmeno io ho mai sognato un nano!”.

Il sospetto (2012) – un uomo di 40 anni viene accusato di aver molestato una bambina – e successivamente anche altri bambini – in un asilo danese, ma è innocente. fun fuct: mi pare per 5 anni io e la mia ex-compagna abbiamo avuto in camera, di fronte al letto, un poster di questo film, ma non tanto perché ci era piaciuto particolarmente, ma per la faccia di Mads Mikkelsen, che in quel periodo, oltre a Pusher e Bleeder, aveva già fatto il miglior cattivo di sempre di 007 in Casino Royale e soprattutto Valhalla Rising, e la faccia che faceva sulla locandina – una delle scene migliori del film – era straordinaria. comunque: Il sospetto è bello, angosciante e realistico. rappresenta molto bene la solitudine dell’accusato (e la sua condanna perenne anche se innocente – come intuiamo dal finale ambiguo), e la brutalità latente delle comunità. ma soprattutto ha portato al grande pubblico una verità da ricordare: i bambini spesso dicono cazzate, e gli adulti sono dei rincoglioniti. il titolo originale “la caccia” era più giusto. qua c’è Mads Mikkelsen forse al suo meglio, mentre Vinterberg fa il suo, ma non molto di più. in generale non mi ha mai colpito come regista e questo è probabilmente il suo film migliore, molto “da oscar”, ma quell’anno venne battuto – ehm – da La grande bellezza di Sorrentino, film di cui ho visto solo mezz’ora e poi ho lasciato perdere. nel caso de Il sospetto è davvero difficile lasciare perdere: tiene inchiodati allo schermo e dà un solo momento di vera soddisfazione, quando il protagonista dà una testata a un uomo. curiosità finale: è un film involontariamente (credo) misogino. i personaggi negativi sono tutte femmine, a partire dalla bambina che scatena il casino, poi sua madre, poi le altre madri, la direttrice della scuola, le insegnanti, l’ex moglie del protagonista (l’ex moglie è sempre una stronza, in tutti i film), la sua attuale compagna. nei maschi c’è più varietà, alcuni sono stronzi, altri no: il suo migliore amico, padre della bambina non-abusata, è decisivo per la sua riabilitazione, un altro amico gli resta vicino dall’inizio, suo figlio è dalla sua parte, e il protagonista stesso, Mads Mikkelsen, è un personaggio estremamente positivo, buono, calmo, giusto. comunque è nella categoria di film “santo dio spero che non mi capiti mai una cosa così”.

Pecker (1998)  – super gradevole e intelligente commedia di John Waters. il suo problema è che molte persone – insomma, tra quelle che conoscono il suo cinema – pretendono che lui rifaccia per tutta la vita Pink Flamingos (che poi vorrei sapere quante volte l’avete visto, Pink Flamingos). è la situazione “era meglio il primo album”, in questo caso “era meglio il terzo film”. in realtà Waters, come tutti gli artisti, è sì rimasto fedele a se stesso, ma è anche cambiato, e negli anni ha fatto cose diverse. questa storia del ragazzino proletario di Baltimora che diventa una star della fotografia a New York è molto bella, e presumo molto autobiografica. niente eccessi (tranne un paio di cose che ormai, a fine anni ’90, quasi non si notano), è più una commedia delicata ma eccentrica e bizzarra. protagonisti due attori molto promettenti a fine 90/inizio 2000, Edward Furlong e Christina Ricci, che poi si sono persi per strada (soprattutto il primo). bellissima la scena del tossico che si sta bucando per strada e vedendosi ritrarre dal ragazzino si lamenta, lo insulta, ma lui gli dice “aspetta, ma quella è la radio di mio padre! l’hai rubata tu!”, al che il tossico risponde “perché, tu mi hai pagato per la foto?”. in generale si riflette molto sulla street photograpy, sul consenso, sull’idea di fare soldi (o like, oggi) con le facce di persone inconsapevoli. in questo senso il film è stranamente attuale. quindi ok, importanti i film feroci e disgustosi di Waters, ma a me piacciono molto queste commedie molto successive.

Top secret (1984) – ero triste e mi son detto: mettiamo un film che fa ridere. è molto difficile ridere quando si è tristi, ma ho riso più volte guardando questa perla meno conosciuta della premiata ditta Zucker-Abrahams-Zucker. cinema surrealista, dove niente è come te l’aspetti. per me la chiave di questo genere di film (il mio preferito resta Una pallottola spuntata) è proprio quella del surreale, più che del comico-demenziale. è un mix tra i film di guerra-spionaggio e quelli sui cantanti tipo Elvis. Val Kilmer, allora 24enne, è fenomenale, è una delle cose migliori del film, e canta davvero. ma le trovate sono migliaia, alcune cazzatine, alcune lampi di genio, molte sono belle e divertenti. il treno che si ferma alla stazione e riparte, ma in realtà a partire è la stazione. Omar Sharif compattato dentro un’automobile. tutte le assurde performance di canto e danza di Val Kilmer. la sequenza con le mucche. i giochi con la prospettiva, come il telefono gigante. giocare a tris rompendo i vetri. il monumento al piccione. l’incredibile, bellissima, magnifica sequenza d’apertura con i surfisti armati che sparano mentre cavalcano le onde (ci sarebbe stata bene in Apocalypse Now, o in Point Break). l’altra incredibile sequenza di rissa in un western-subacqueo (questa è difficile da spiegare, va vista – ma è questo che intendo con surrealismo). la scena girata al contrario, bella, proto-Twin Peaks, ma soprattutto girata benissimo. la mia gag preferita però è quella del tizio della resistenza che ogni volta entra in scena ferito, con la testa fasciata, si butta a terra e comunica qualcosa di importante. poi sparisce, ma dopo un po’ riappare così, come se fosse sopravvissuto a qualcosa, ferito, con poche parole da comunicare. insomma, gag belle in una storia semplice ma che funziona, ambientata in un periodo impossibile da precisare, perché ci sono questi che sembrano nazisti, ma c’è il rock’n’roll anni 50, le macchine vecchie, ma ci parla della Tatcher e di Reagan. è chiaro che non siamo in un tempo della realtà, ma nel tempo del cinema, nel tempo dei film, citati, parodiati, rimasticati e sputati.

Pompo la cinefila (2021) – bel film d’animazione di Takayuki Hirao molto consigliato a chi soffre di cinefilia. Pompo è una produttrice di film di serie-b che scrive un film serio e lo fa dirigere al suo assistente, un nerd cinefilo ansioso e depresso. c’è tutta la fase di lavorazione, ma soprattuto la parte del montaggio, con il giovane nerd che non riesce a scendere sotto le 4 ore di film, mentre l’obiettivo sono i classici 90 minuti (lo stesso Pompo la cinefila dura esattamente 90 minuti). che dire, Lav Diaz non sarebbe d’accordo, perché il film dice che puoi sintetizzare qualsiasi cosa in 90 minuti, tagliando con l’accetta, e in effetti, per chi ha montato almeno una volta in vita sua, questa parte del film è molto divertente e ha una resa grafica molto forte e a tratti psichedelica. belle anche le parti in svizzera, e in generale interessante il contrasto tra il realismo delle animazioni, da film “adulto”, con l’aspetto e la presenza di Pompo, molto più infantile (adorabile quando entra nelle stanze sfondando la porta ed esclamando “Pompo è arrivata!”). è un personaggio buffo, che però scrive un drammone serissimo e profondo – o almeno così intuiamo. dai, non male. da mettere nella lista di film sul cinema.

A morte Hollywood (2000) – film di John Waters che sta a metà tra il Bowfinger di Frank Oz/Steve Martin e Terror Firmer della Troma: non “per famiglie” come quello (adorabile) di Oz, ma nemmeno estremo come quello della Troma. è a metà, e secondo me sta bene dove sta. il titolo originale è il nome del protagonista: Cecil B. Demented. la storia è quella di un gruppo terroristico di cineasti-cinefili che, in difesa del “vero cinema” underground e contro Hollywood, rapiscono una star e la costringono a recitare nel loro film, ma lei poi a sorpresa si unisce al gruppo (quest’ultima cosa è ispirata alla vera storia di Patricia Campbell Hearst). commedia d’azione, demente ma assolutamente lucida, ha una energia punk sovversiva innegabilmente vitale, quindi va dritto nella lista dei film sul fare i film. ci sono diverse battute memorabili. è sicuramente un inno al cinema indipendente, prende in giro Hollywood (la scena dove il gruppo irrompe armato nella sala dove proiettato la director’s cut di Patch Adams è stupenda), ma anche certi tic del cinema d’autore o dei fissati con il cinema di genere. quindi un film senza dubbio autoironico, pur restando un attacco al cinema borghese e convenzionale. attacco meno potente rispetto ad altri film passati di Waters, ma se i due opposti sono un cinema completamente disturbante o uno completamente furbo e accomodante, io forse gradisco questa via di mezzo. di fatto resta quello che è: una simpatica commedia cinefila su un gruppo di terroristi cineasti. la follia c’è: i protagonisti sono dei pazzi invasati in un mondo di pazzi, e non hanno paura di nessuno, tranne dell’associazione dei genitori. Cecil B. Demented e la sua banda sono caricature sopra le righe, ma anche simboli di resistenza culturale e tutto quello che dicono nel film per me è giusto, quindi forse sono più pazzo di John Waters, non lo so. nel cast anche due giovani Maggie Gyllenhaal e Michael Shannon. mi ha colpito il fatto che è costato 10 milioni di dollari, quindi non poco, ma ne parlava lo stesso Waters in un’intervista dicendo che è stato fatto come un film di hollywood, è un film d’azione e c’era il sindacato ecc. insomma negli usa, se fai i film legalmente, ti servono un sacco di soldi.

Ritratto di famiglia con tempesta (2016) – sì, il titolo italiano ricorda Ritratto della giovane in fiamme, ma è un film del grande Hirokazu Kore’eda. è il classico “film minore” di Kore’eda, così vengono presentati questi film dalla stampa, quindi un grande film, al solito. a differenza di altri suoi film non parte con un racconto corale ma sembra (e sottolineo sembra) concentrarsi su un personaggio, un loser, non ho capito se 40enne o addirittura 50enne, divorziato, con problemi di soldi, dipendente dal gioco d’azzardo, che rubacchia a casa della madre, ex aspirante scrittore (ha scritto un libro molti anni prima) e attualmente investigatore privato, che non accetta la fine del suo matrimonio e fa di tutto per vedere suo figlio. detto così sembra un banale dramma, e invece è una commedia. perché il tutto è raccontato con leggerezza. anche se per i canoni ai quali siamo stati abituati dal cinema mainstream di fatto non succede nulla, il film in realtà è incredibilmente avvincente. sono due ore che guardi senza battere le palpebre, di fronte a cose minime – bellissime soprattutto le parti nella casa della nonna del bambino, madre del protagonista, con una regia e dei dialoghi che ovviamente rimandano a Ozu (è inevitabile). il film porta tutto a la lunga sequenza finale: la tempesta. fuori c’è un tifone, quindi la famiglia in qualche modo è costretta a riunirsi. tutto è molto realistico e allo stesso tempo simbolico. il fantasma del padre del protagonista aleggia per tutto il film, si riflette sulle radici, sulla famiglia (è un film di Kore’eda), in particolare sulla domanda – presente in molti altri film del regista – “non siamo più una famiglia? siamo ancora in una famiglia, ma forse in un altro modo?”. personaggio chiave, per me, la nonnina. il protagonista è Hiroshi Abe, attore dal volto famigliare che pensavo di aver visto in mille film e invece, scorrendo la filmografia, vedo che lo conosco solo per il cult Thermae Romae. in generale, proprio la sensazione di incompiutezza riscontrata da alcuni critici, è l’aspetto interessante del film. tra i tanti, forse il mio preferito di Kore’eda è Nessuno lo sa del 2004.

Cosa fare in caso di incendio? (2001) – [consigliato da RB] commedia tedesca con gli anarchici, e chi ne aveva mai sentito parlare? film scomparso da quasi ogni radar, eppure doveva essere uscito in italia in qualche modo, perché ne esiste perfino una rarissima versione doppiata. è una storia di un gruppo di amici anarchici nella berlino ovest anni ’80, zona squat. l’inizio è molto punk, un po’ in stile videoclip-riot, scontri con la polizia, vita quotidiana da squatter, costruzione di bombe. proprio una bomba è il macguffin del film. viene lasciata in una villa, come attacco alla “cementificazione”, non in una zona a caso, ma a Grunewald, una delle zone più ricche ed esclusive della città. ma per 12 anni non scoppia, finchè un giorno un’agente immobiliare e un cliente aprono la porta e la bomba esplode (ma non muoiono). già qua il film si fa interessante, perché altrove partirebbe un drammone con gli anarchici cresciuti che si disperano “oddio cosa abbiamo fatto!” e invece il film, per quanto a tratti amaro, resta una commedia, quindi una delle prime reazioni che vediamo è quella di uno degli irriducibili che si dice contento che sia saltata in aria quella “puttana immobiliare” (o una cosa simile). la bomba che esplode in ritardo è sicuramente simbolica: diventa il simbolo di un passato che ritorna e che costringe i personaggi a fare i conti con sé stessi. gli sbirri decidono di capire chi aveva messo quella bomba, gli anarchici sanno che potrebbero essere trovati perché, dopo lo sgombero del loro covo, sono stati sequestrati dei filmini dove avevano documentato la costruzione della bomba (questa cosa è totalmente assurda e impossibile. chi farebbe mai un video dove costruisce una bomba? boh). i due irriducibili, uno in sedia a rotelle dopo aver perso le gambe in uno scontro contro la polizia (sembra un veterano del vietnam), vanno a cercare i vecchi amici che non vedono da oltre 10 anni e si sono tutti, in un modo o nell’altro, imborghesiti. uno è diventato un famoso pubblicitario cinico e ricco, una si sta per sposare con un uomo ricco, un’altra ha fatto figli e messo la testa a posto, uno fa l’avvocato e vuole rispettare tutte le leggi possibili. ma si rimettono insieme per eliminare le prove e quindi attaccare la centrale della polizia. qua inizia la parte d’azione del film, abbastanza assurda ma divertente. stroncato quasi ovunque, accusato di clichè e di personaggi prevedibili, ma anche di aver in qualche modo addomesticato e ripulito la scena autonoma berlinese, in realtà è un film assolutamente da salvare, in primis perché ha come protagonisti soggetti che non si vedono mai nel cinema e il film è totalmente dalla loro parte. ti fa provare simpatia, la loro lotta, qualunque sia, ti sembra giusta. certe dinamiche all’interno del gruppo militante, per quanto ovviamente sintetizzate e parzialmente semplificate, sono realistiche. è anche un film sulla nostalgia, una riflessione su cosa resta degli ideali giovanili quando si invecchia e magari bisogna mantenere dei figli, ma il tutto con un tono leggero e mai moralista, e con la simpatia schierata nettamente verso gli ex-squatters (è evidente che i due personaggi che fanno più simpatia sono i due irriducibili che non hanno mai abbandonato lo squat). a me del film è piaciuta proprio la leggerezza, forse l’aspetto che è piaciuto meno ad altre persone, che in questa leggerezza hanno visto una edulcorazione degli aspetti conflittuali contro lo stato. un film innocuo, insomma, fatto per non spaventare il pubblico. ma, a parte che il film si concentra più sull’aspetto umano, cioè sul gruppo di amici, comunque a me è piaciuto proprio il suo essere adatto a tutti: è un film che poteva intercettare uno spettatore qualunque e trovarsi a tifare per questi che spaccano vetrine e mercedes e mettono bombe e sono “simpatici”. nell’immaginario cinematografico questa cosa non si vede mai e quindi per me bene così.

Il libro delle soluzioni (2023) – di film autobiografici Gondry ne aveva già fatto, si veda il precedente e per me adorabile Microbo e Gasolina, non il suo migliore ma il suo film che preferisco, ma questo è il più autobiografico di tutti. è una perfetta, drammatica e allo stesso tempo comica rappresentazione di certi disturbi mentali e di certe neurodivergenze, disturbo bipolare e adhd in primis, durante un processo creativo. la storia di questo regista che scappa con il suo film non finito – con la montatrice, l’assistente e un fonico – nella casa di campagna di sua zia (che, se ho capito bene, è la vera casa di Gondry), è anche la storia dell’high del processo creativo, frenetico, maniacale, fuori controllo, sempre alla ricerca di altro, ma non interessato a una fine, a un obiettivo, a un risultato, perché vorrebbe dire perdere quell’high, fermarsi o restare deluso (il protagonista non vuole mai vedere il film montato). c’è tutto Gondry, quel tipo di ironia che mescola leggerezza a realismo crudo e vero dolore, il surrealismo di certe scelte, l’andamento quasi casuale del film – esattamente come il procedere del protagonista – e tanti piccoli dettagli che solo un occhio attento come il suo sa notare. è un film pieno di idee, da rivedere tante volte (infatti questa non è la prima volta), cosa abbastanza facile perché è scorrevole e divertente. il protagonista è comico e insopportabile allo stesso tempo, quel mix di “è buffo” e “lo vorrei strangolare”. ma forse i personaggi più interessanti sono tutte le donne, quelle coinvolte nella realizzazione del film, che vanno a vivere con lui da sua zia. sono sempre pazienti, sempre calme (fino a un certo punto), realmente appassionate al cinema – e poi sua zia, personaggio chiave, a quanto pare anche nella vita reale di Gondry che ha dedicato un documentario alla sua vera zia. ci sono sequenze stupende, come quando il protagonista “compone” e dirige un’orchestra senza sapere nulla di musica, o le sua assurde e incredibili vittorie, una riguarda Sting, l’altra un problema cardiaco della zia. ma poi, insomma, il camiontaggio – ovvero un camion-sala di montaggio, cose che o le ami o le odi, io le amo. ed è anche una commedia romantica – ovviamente strana e allo stesso tempo molto realistica, nello stile di Gondry (stile che ha sicuramente condiviso con Kaufman, penso a Se mi lasci ti cancello). uno di quei film cult per chiunque stia lavorando alla realizzazione di un audiovisivo.

Jurassic Park (1993) – il giocattolone di Spielberg degli anni ’90. andavi al cinema e vedevi i dinosauri. nessuno li aveva mai visti, c’erano in King Kong del 1933 e ne Il mondo perduto del 1925, ma erano lucertoloni, macro di rettili, non veramente dinosauri (anche se in Il mondo perduto c’erano i brontosauri ecc, animati in stop motion). invece qua c’erano proprio i dinosauri veri. è il classico film d’avventura-commedia anni 80-90, almeno fino a un certo punto. quando diventa notte e inizia a piovere diventa un film horror. tutto porta a due sequenze magistrali: la fuga del t-rex, meravigliosa per regia, atmosfera e sound design, e la caccia dei velociraptor, forse i veri mostri del film, con tanto di citazione di Shining. il resto del film forse è trascurabile, la sceneggiatura non è esattamente un capolavoro e i personaggi sono abbastanza dimenticabili, tranne forse il ciccione che vuole fregare tutti e viene ucciso da un dinosauro insospettabile (una sequenza bellissima, un corto a parte). però è un cinema di incanto, di stupore, di magia: così come quando appare per la prima volta il brachiosauro, il primo dinosauro che vediamo, il primo dinosauro che vedono anche i protagonisti. c’è proprio quella sensazione di meraviglia (che poi diventerà di orrore). tante le letture possibili di questo b-movie fatto con molti soldi e con un regista che sa il fatto suo, secondo me – ma sono solo mi sa – è uno dei film più importanti degli anni ’90. non uno dei migliori, ma uno dei più importanti, e non solo per gli incassi (chi se ne frega) ma proprio perché, come per i clienti del Jurassic Park (che nei film successivi ci saranno) si paga il biglietto e si va in un luogo – il film – per vedere l’impossibile, emozionarsi, avere paura, avere dei dubbi, avere ancora paura, e alla fine tornare a casa. il film è il parco stesso, non a caso il logo del parco e il logo del film sono uguali. nel film ci capita di sentire degli americani dire delle sciocchezze, esattamente come ci potrebbe capitare se andassimo nel parco (se esistesse). Jurassic Park può essere letto in tanti modi, ad esempio come metafora del neoliberismo anni ’90: l’idea che il mercato e la tecnologia possano fare tutto, la natura trasformata in spettacolo da vendere, l’illusione che tecnologia e capitale possano controllare tutto, ma i dinosauri – il t-rex come natura indifferente e sfuggente, i velociraptor come intelligenza imprevista – incarnano il ritorno dell’inafferrabile e non addomesticabile, l’imprevisto che manda tutto a fanculo. ci sta anche una lettura coloniale: l’isola come spazio altro, esotico, in cui l’occidente trapianta i suoi sogni di controllo e sfruttamento (come in King Kong) e i dinosauri diventano gli indigeni ribelli che non accettano di essere resi spettacolo per i turisti.

Picnic ad Hanging Rock (1975) – uno dei miei film preferiti, ogni tanto lo rivedo perché mi piace entrare in quell’atmosfera. ed è questa la magia di questo film: l’atmosfera. certo, c’è una storia, ma è minima, tre ragazze e un insegnante spariscono tra le rocce. non si trovano i corpi, non si capisce cos’è successo. poi ne spunta una, che però non ricorda nulla. a parte le immagini magnifiche, la musica misteriosa, la regia lenta e ipnotica, a renderlo un film unico è proprio l’assenza di spiegazione. si accumulano indizi, stranezze, false piste. perché gli orologi si fermano? non si sa. le ragazze sono state assorbite dalla natura? o forse sono state violentate? perché la superstite ha le mani ferite ma i piedi nudi illesi? e perché l’insegnante è stata vista l’ultima volta senza gonna? e così via, mistero dopo mistero, tutti irrisolti, il film nella parte finale aggiunge ulteriore mistero con due morti – un’altra ragazza e un’altra insegnante – e poi finisce. ci sarebbe molto da dire, perché è un film così aperto che ci si può ragionare molto e ogni volta che lo vedo ho diverse interpretazioni, soprattutto sul ruolo di Miranda, la ragazza che sembra guidare la altre, quasi un ruolo sacrale. per non parlare dei dettagli, ad esempio l’importanza dei piedi nudi (non in senso feticista) e della sessualità (in tanti sensi, ma di sicuro l’esplorazione delle rocce assomiglia all’esplorazione di un corpo). ma l’atmosfera, sospesa, suggestiva ma anche angosciante, è la cosa più importante. di fatto, girato in un altro modo, sarebbe un horror. ma così è venuta fuori un’altra cosa che non assomiglia e nient’altro. ho almeno tre interpretazioni del film, ma ricordo anche che esiste un finale spiegato dall’autrice del romanzo, decisamente bizzarro e deludente.

Un re allo sbando (2016) – il re del belgio si trova a istanbul quando una tempesta solare blocca voli e comunicazioni. proprio in quel momento il belgio si divide, quindi il re, con la sua piccola corte (tre persone) attraversa bulgaria, serbia, montenegro e albania con vari espedienti. di fatto è una commedia road movie, ma anche un mockumentary, visto che tutto è raccontato dalla videocamera di un documentarista inglese che inizialmente doveva filmare una specie di spot della monarchia. è divertente, si sorride in diverse occasioni e la regia è fluida e mai banale. attori funzionali, in particolare quello che fa il re, Peter Van Den Begin. non è una semplice “umanizzazione del re”, o meglio: anche, ma solo a un livello superficiale. vediamo che il re è un uomo qualunque, l’idea di “re” funziona solo se c’è qualcuno che ci crede, nel suo caso i suoi assistenti, tre persone, che lo chiamano “sire” e gli portano la camicia pulita anche quando sono in una barca mezzo marcia in mezzo al mare. ma proprio la surrealità della situazione fa pensare che lui non è re di nulla, che nessuno è re, è solo una messa in scena, un po’ come un attore vestito da re che sale sul palco e dice di essere il re solo perché c’è un pubblico davanti. pensieri forse anche banali, però tradotti nel film in situazioni e idee non così retoriche o prevedibili come dicono molte recensioni. in tema: il film in italia è stato stroncatissimo, in parte perché completamente diverso dal film precedente della coppia di registi Peter Brosens e Jessica Woodworth – La quinta stagione, che era ostico, visionario e super autoriale – in parte perché a molti hanno dato fastidio alcuni clichè. che sì, ci sono, è vero, ma bisognerebbe riflettere sull’idea stessa di clichè. prendiamone uno: vanno in serbia e chi incontrano? un ex cecchino ubriacone, un po’ matto, che beve, ride e ha in mano un fucile. tutta la serbia è così? sicuramente no. però io ho pensato a due posti che conosco abbastanza bene: prealpi venete e interno della sardegna. ogni volta che ci sono stato mi sono ritrovato in un garage a bere grappa con qualcuno che aveva un fucile. il problema sorge quando in un film, facendo andare i miei protagonisti nelle prealpi venete o nell’interno della sardegna, li faccio finire in quella situazione: nello spettatore scatta la sensazione di vedere un clichè. non posso difendermi dicendo “ma io ci sono andato, era così, è capitato a me!”. il problema è che nella rappresentazione non posso affidarmi alla media, o meglio alla mediana. questo a volte porta a fare l’opposto, a personaggi totalmente eccentrici, impossibili, forzatamente originali, percepiti allora come “irrealistici”. quindi cosa fare? essere furbi, trovare una via di mezzo, potevano incontrare un serbo appassionato di birdwatching che ha smesso di bere. un personaggio potenzialmente divertente e non così impossibile. detto ciò, a me i cliché del film non hanno infastidito poi tanto. nell’insieme il tutto funziona e Un re allo sbando è una commedia gradevole sicuramente ben girata. certo, viene da chiederesti cosa vuol dire. cosa resta al pubblico dopo la visione? solo la leggerezza della commedia, o anche qualche pensiero sul potere, l’identità, l’europa dei confini? chissà. curiosità: i registi di questo film sono quasi miei vicini di casa, ma non li conosco.

Orlando (1992) – inizia nel 1600, quando un giovane nobile inglese riceve una sorta di ordine dalla regina: non invecchiare. e lui non invecchia, vive per 400 anni, solo che a un certo punto diventa una donna. magnifico, magnifico, magnifico film di Sally Potter con una divina Tilda Swinton protagonista. uscisse oggi farebbe incetta di premi, e da una parte sarebbe accusato dai soliti rincoglioniti di wokismo, dall’altra parte diventerebbe comprensibilmente un film di riferimento queer (e in parte lo è diventato infatti). ma va detto che non è solo questo. la questione del genere c’è, ma il film è sulla libertà, ad esempio dal tempo e dalle convenzioni sociali. Orlando non invecchia e quindi è libero/a dalla pressione del tempo e della morte. Orlando sperimenta la vita sia da uomo che da donna e scopre come i ruoli sociali siano costruzioni storiche e culturali, non essenze naturali, cercando di non restarne schiacciato/a. ma soprattutto libertà dall’identità, che qua non è una cosa sola, ma un flusso continuo: Orlando attraversa trasformazioni che lo/la rendono un simbolo dell’identità come processo aperto. è una poetica, filosofica e visionaria rappresentazione della libertà di essere e di vivere fuori dalle categorie rigide che la società impone – non solo sul sesso, ma su tempo, classe, ruolo sociale. come ha detto da qualche parte Tilda Swinton, proseguendo la storia Orlando poteva trasformarsi anche in un divano o in un asino, potenzialmente (più o meno ha detto una cosa così). regia magnifica, elegante, bizzarra, imprevedibile. immagini e costumi stupendi, così come le musiche. è uno di quei film in cui la rottura della quarta parete funziona benissimo, direi che è una delle cose migliori del film: Tilda Swinton – bellissima – si rivolge molto spesso agli spettatori. tantissime le sequenze memorabili, tutta la parte sul ghiaccio, il viaggio di Orlando in oriente, la guerra, la sua trasformazione, i suoi lunghissimi sonni. secondo molti il film è decisamente superiore al romanzo di Virginia Woolf da cui è tratto. per certe cose, soprattutto nella parte iniziale, mi ha ricordato La favorita di Lanthimos, mentre per lo stile ogni tanto veniva in mente Greenway, però Sally Potter ha creato un suo sguardo e un suo mondo originale. dopo questo film ci si aspettava un percorso di capolavori uno dopo l’altro, ma non è stato così. però chi se ne frega, chiunque vorrebbe metterci la firma per fare un film così.

Tokyo Godfathers (2003) – uno dei migliori film d’animazione degli anni 2000, del grande Satoshi Kon, che aveva già fatto Perfect blue ma non ancora Paranoia Agent e Paprika. vigilita di Natale (mi pare), tre barboni trovano una bambina molto piccola nella spazzatura e decidono di prendersene cura. pare sia ispirato a un film di John Ford del 1948 con tre cowboy che si occupano di una neonata, conosciuto come In nome di Dio, ma anche Il texano (titolo originale però 3 Godfathers). storia a parte, il film di Satoshi Kon è magnifico per i tre personaggi: una ragazzina scappata di casa, una transgender che vorrebbe essere madre, e un uomo abbastanza alcolizzato che ha mollato la famiglia (o è morta, ci sono due versioni). questo strano trio si muove in una Tokyo buia e fredda, disegnata magnificamente, rappresentata in maniera vivida, con strade, vicoli, luci al neon, neve e atmosfere invernali ricreate con grande cura. le animazioni dei personaggi sono realistiche e stilizzate allo stesso tempo, ma c’è grande attenzione all’espressività, agli occhi, ai micro-movimenti, sorrisi, esitazioni, piccoli dettagli, è tutto molto curato. questo, assieme alla regia, rende il film molto “cinematografico”, nel senso che ci si dimentica che è animazione. la storia poi inizia con crudo realismo venato da atmosfere da commedia, poi diventa un viaggio, infine un dramma con momenti molto tragici e perfino un film d’azione. è senza dubbio uno dei punti più alti dell’animazione dal 2000 in poi.

The invitation (2015) – quanti film iniziano con qualcuno che investe qualcuno/qualcosa, di solito un animale? tanti. di solito ha un valore simbolico, ed è decisamente diventato un clichè. a parte questo, The invitation è uno di quei film che impongono allo spettatore lo sguardo paranoico del protagonista, il quale, invitato a una festa tra vecchi amici, nota tanti piccoli dettagli che rendono l’atmosfera strana e forse pericolosa. ma è davvero così o il protagonista è un po’ troppo nervoso e paranoico? amo i film paranoici dove lo spettatore è confuso ed è obbligato a decidere se la realtà è quella che sembra o è qualcos’altro. in questo senso il film funziona, soprattutto grazie alla regia, e nonostante qualche particolare della sceneggiatura, che a volte rischia di smontare il meccanismo: ad esempio quando aggiunge dialoghi inutili e perde in ambiguità (un personaggio che più volte dice al protagonista “ma no, va tutto bene! non è come pensi tu!” e capiamo immediatamente che non va per niente bene e sì, è come pensa il protagonista). molto meglio quando il protagonista sbrocca ed espone la sua teoria paranoica sulla serata ma viene immediatamente smentito dai fatti. ecco, quest’altalena tra una tranquilla cena forse solo un po’ imbarazzante e una probabile e misteriosa tragedia, funziona. nella parte finale ci sono varie lotte corpo a corpo un po’ ripetitive e vari momenti in cui personaggi che dovrebbero essere morti non lo sono, però, a parte questi difetti, l’ultimo segmento è la perfetta evoluzione di quell’inizio con tutti i sorrisi, le risate, gli abbracci e le battutine tra vecchi amici. ci sono tante possibili letture del film, alcune piuttosto esplicite, come quelle legate al trauma e alla cultura del self-help connessa ad alcune forme di spiritualità, ma la mia lettura è che la borghesia uccide. la casa dove viene invitato il protagonista è una villa lussuosa e raffinata sulle colline di los angeles (forse è hollywood, non lo so), quindi simbolo di privilegio, ma anche di isolamento. gli invitati sono tutti 30-40enni belli e affermati, e la casa è una fortezza, con finestre sbarrate e porta chiusa a chiave, come se il pericolo venisse da fuori: criminalità, povertà, immigrati, chissà. ma il film ribalta questo assioma: la vera barbarie abita nel cuore stesso della civiltà borghese. il pericolo è dentro: sono loro stessi. la cena diventa in questo senso un rito borghese e mortifero, che dietro il lusso e il vino raffinato nasconde una violenza latente, metafora della fragilità delle strutture sociali borghesi: sotto la superficie di cordialità e buone maniere, c’è brutalità, dominio, decomposizione. le lanterne rosse che si vedono alla fine fanno capire che non è un caso isolato ma un fenomeno sistemico. [qualche spoiler] e non è un caso che si tratti di un suicidio di massa: la borghesia, intrappolata nel lusso e nell’illusione della civiltà, diventa il proprio nemico e si autodistrugge con un brindisi.  sì, lo so, si possono leggere quasi tutti i film così, anche Jurassic Park. è quasi un esercizio di stile. ma in questo film questa interpretazione mi sembra funzionare particolarmente.

Quando c’era Marnie (2014) – Anna, una ragazzina problematica, introversa, diffidente e depressa, che non ha conosciuto i genitori e vive con la madre adottiva, viene mandata a respirare aria di mare dai parenti per curare la sua asma. qua si interessa a una villa abbandonata e inizia a frequentare una ragazza straniera, Marnie. meravigliosa opera di Hiromasa Yonebayashi dello Studio Ghibli, già autore di Arietty ma anche animatore di alcuni dei principali film di Miyazaki. livello delle animazioni altissimo, disegni veramente stupendi e solita attenzione maniacale ai dettagli in stile Ghibli, ma soprattuto bella la caratterizzazione della protagonista, che – non per fare il solito confronto inutile ma… – difficilmente vedremmo in un film disney/pixar. la storia d’amicizia tra la protagonista e Marnie è più simile a un innamoramento, diventa una storia omoerotica, cosa che in adolescenza può effettivamente capitare – ma qua diventa ancora più strana se pensiamo a chi è Marnie (non si può dire, spoiler). Anna si sente diversa dagli altri e non può non sentirsi attratta da un altro personaggio così diverso come Marnie. è ovviamente un percorso identitario, di scoperta di sè e delle proprie radici: uno dei problemi, abilmente tenuto sotto traccia per tutto il film, riguarda proprio la madre adottiva. a parte le animazioni sublimi e tutto quello già detto, è molto bella l’atmosfera misteriosa e il ritmo narrativo lento e magnetico, con emozioni stratificate e non semplici. ma insisto sul mistero: è una componente fondamentale che – ehm, faccio di nuovo il confronto – nell’animazione occidentale manca quasi sempre se non sempre, forse perché si immaginano un pubblico di rincoglioniti, e invece qua – come in molti altri film d’animazione giapponese – il mistero è il motore narrativo e per gran parte del film le cose non vengono spiegate.

Sonatine (1993) – uno dei primi grandi film di Kitano. parte come un’intricata e a tratti incomprensibile storia di yakuza, ma sembra tutto un pretesto per l’atto centrale del film, ovvero quando la banda, sentendosi minacciata e dopo aver subito diversi attentati, si nasconde in una baracca di fronte al mare. il cambio di paesaggio – dalla città, gli spazi chiusi, i locali notturni, le strade, al mare – cambia tutto. cambia soprattutto i personaggi. indossanno camicie colorate (tanne Kitano, rigorosamente in camicia bianca), ma soprattutto – ed è uno dei motivi per cui il film è famoso – iniziano a giocare. la prima roulette russa è molto significativa: sono persone che fino a poco prima usavano le pistole per uccidere davvero, poi iniziano a usarle per gioco, addirittura senza proiettili (scena fondamentale perché servirà al famoso finale). in attesa della morte, cos’altro si può fare? lo dice lo stesso personaggio di Kitano quando uno dei suoi uomini, di fronte a uno dei tanti giochi e scherzi, gli fa notare che forse è troppo infantile. “Cos’altro dovrei fare?” dice sorridente. c’è un’atmosfera di sospensione, come se fossero in un limbo dove potrebbero essere i prossimi a morire o i prossimi a uccidere, o entrambe le cose, e allora ritrovano una sorta di innocenza temporanea, una pausa dalla violenza, o meglio una violenza trasformata in gioco bambinesco, con tutta una serie di giochi assurdi e divertenti. alcuni simulano quello che loro fanno normalmente, cioè la guerra: non solo la roulette russa ma anche il surreale combattimento di sumo, ma soprattutto la stupenda sequenza notturna della guerra con i razzi sulla spiaggia. tutta questa parte si ritroverà simile, come concetto, nella sequenza del campeggio nel capolavoro L’estate di Kikujiro del 1999. è interessante come sia presente anche l’arte: uno dei mafiosi sembra portato per la danza e per la coreografia, e dirige con precisione e severità altri due in una piccola messa in scena. viene da chiedersi: ma allora sono persone normali, non solo assassini? se non facessero questo lavoro sarebbero degli artisti? ma anche le scene più poetiche o buffe hanno sotto un’ombra di morte. il film lascia la sensazione che la vita, per quei personaggi, sia un gioco già truccato, senza possibilità di vittoria, fino al finale totalmente pessimista. per Kitano e per il suo personaggio non c’è scampo, non trova più senso in quello che fa, quindi gioca e poi va incontro alla fine. un’altra vita possibile è a pochi passi da lui, ma non la raggiungerà. un pessimismo molto simile al successivo Hana-bi. solito stile di regia del Kitano di quel periodo e non solo, quindi asciutto, fatto di ellissi, parti non spiegate, reazioni emotive non mostrate, abilissimi tagli con grandissime esplosioni di violenza che restano fredde e non spettacolari (l’assurda scena in ascensore), dove la violenza non diventa un “culmine” ma semplicemente un punto quasi banale, parte del flusso della vita.

Better Watch Out (2016) – Mamma ho perso l’aereo + Funny Games, o qualcosa di simile. commedia thriller/horror natalizia, nelle prime scene ha atmosfere alla Scream o da film genere home invasion, poi prende un’altra piega. la situazione è quella di una babysitter che passa la serata in una casa borghese con un ragazzino non così piccolo che infatti è mezzo innamorato di lei, quando iniziano a succedere strane cose. nulla da dire, è un piccolo gioiello: è sia divertente sia inaspettatamente violento, ben scritto e ben diretto. intrattenimento di qualità: non vuol dire niente, è cinema puro – una situazione, una serata, dei personaggi che compiono delle azioni e che affrontano degli ostacoli. è conosciuto anche con i titoli Scary Christmas e Safe Neighborhood (sì, ha ben tre titoli). da consigliare ad amiche babysitter.

PILLOW SHOTS of Apichatpong Weerasethakul (2021) – attenzione, non è un film del grande maestro thailandese, ma un video visto su yotube realizzato dall’utente Just Another GUY with a Camera. io sono un sostenitore del remix nel cinema, cioè di fare cinema con altro cinema (si faceva anche agli inizi, primi ‘900). l’intenzione dell’autore non era questa, ma più un video essay, o una compilation, nello specifico dei pillow shot di Weerasethakul. cosa sono i pillow shot? sono quelle immagini, spesso di oggetti, scene reali, paesaggi o luoghi senza una chiara importanza narrativa, che vengono inserite tra le scene principali di un film. si citano spesso per il cinema di Ozu, che intervallava a volte le scene con immagini apparentemente senza importanza narrativa. va detto che non per forza i pillow shot sono così: a volte, anzi, l’insistenza su un’immagine totalmente scollegata dalla precedente e dalla successiva ha una funzione narrativa, o di ritmo, oppure allegorica o simbolica. questo utente di youtube, non volendo, ha girato un bellissimo cortometraggio con tutte queste inquadrature dei film di Weerasethakul, dall’atmosfera misteriosa, sospesa, random e un po’ onirica, quindi totalmente nello stile del maestro thailandese. alberi, nuvole, cielo scuro, gente che balla, scavatrici, acqua, un corridoio, persone che dormono, cose così: materiale onirico grezzo. viene quasi da pensare a un Koyaanisqatsi ma fatto da Weerasethakul, ma forse è davvero più come fare zapping in un mondo onirico e sintonizzarsi a volte su immagini forti, tipo decine di persone che ballano, a volte semplicemente su una finestra o una nuvola. vedendolo, dopo un po’, la domanda che mi sono fatto (e che dovremmo farci sempre quando guardiamo cinema) è: chi sta guardando? va detto infine che l’espressione pillow shot (ereditata dalla poesia giapponese) si adatta perfettamente al regista thailandese, visto che ha sempre descritto il suo cinema come un cinema del sonno, e quindi, coerentemente, del cuscino.

Stress da vampiro (1988) – diretto da un regista quasi sconosciuto, ma scritto dallo stesso sceneggiatore di Fuori orario di Scorsese, resta un’opera forse dimenticata, ma non da dimenticare, e sicuramente una delle più interessanti performance di Nicolas Cage. è uno dei più originali e bizzarri film sul mito del vampiro. il protagonista è uno yuppie dei cosiddetti stati uniti edonisti degli anni ’80, disturbato e incapace di rapportarsi con le donne, che finisce per convincersi di essere diventato un vampiro. è una commedia grottesca dalle tinte horror, resa possibile dalla performance totalmente sopra le righe di Nicolas Cage: spesso criticato per questo suo stile, qui invece è proprio la sua recitazione estrema a dare vita al film, perché riesce a incutere paura autentica, incarnando un personaggio che appare davvero disturbato. la scena di lui che si aggira per la città e poi in una discoteca con i denti finti da vampiro, con una camminata completamente assurda, è semplicemente indimenticabile. per certi versi ricorda più American Psycho che altri film sui vampiri: anche qui troviamo uno yuppie patetico e alienato, icona tragica di un’epoca, in quel caso inspiegabilmente diventato un idolo per molti giovani maschi di oggi (mentre si trattava di un personaggio triste e squallido). la nevrosi del protagonista è il sintomo di una solitudine metropolitana che sfocia in paranoia schizoide, trasformando il vampirismo in delirio ma anche in metafora di una vita consumata dal vuoto. il personaggio di Cage sembra non avere amici, è solo un lavoratore in una città enorme, a cui viene dato del potere (di cui lui, inevitabilmente, abusa). il film è pieno di scene cult, ce n’è anche una che è diventata un celebre meme (come per American Psycho, altro punto in comune), anche se pochi ne conoscono l’origine. le immagini iniziali dei grattacieli e palazzoni con la luce calda del tramonto fanno pensare a un’atmosfera da “male metropolitano” stile Rosemary’s Baby o, di tutt’altro livello e molto successivo, L’avvocato del diavolo.

Broken Rage (2024) – versione breve: è possibile che Kitano a 78 anni faccia un film geniale e divertente? risposta: sì. versione lunga: richiede diverse premesse. una, la prima, è autobiografica. Kitano lo associo alla mia giovinezza. la mia scoperta del cinema, dopo alcuni classici fondamentalmente americani ed europei (francesi e italiani), ha coinciso poi con la scoperta del cinema giapponese contemporaneo, all’epoca in esplosione anche da noi, in tv e in dvd, principalmente horror (e follie tipo Miike, o mega successi come Battle Royale), ma anche, appunto, Kitano. Sonatine, Hana-bi, Brother, e ovviamente Kikujiro, erano tutti film che appena mi procuravo guardavo decine di volte. in mezzo ci sono un sacco di altri film, alcuni belli, alcuni bellissimi, alcuni esperimenti che vanno presi per quello che sono (cioè bene: penso alla trilogia del suicidio artistico), comunque sempre Kitano. altra premessa: Kitano era un comico, ovvero Beat Takeshi, e così si presenta in questo film. il suo passato televisivo, ma ancor prima nei locali dove faceva un cabaret demenziale, è il retroterra da cui parte questo film. ultima premessa: l’idea del film, cioè una prima parte “seria” e una seconda di tono completamente diverso (ma c’è anche una terza parte, poi lo dico) si era già vista in altri film, tipo Melinda e Melinda di Allen, in un certo senso anche Smoking/No Smoking di Resnais, ma anche altri. ma come la sviluppa Kitano, in poco più di un’ora, è meraviglioso. nella prima mezz’ora vediamo di fatto uno yakuza movie che riassume in poco tempo tutti i film di Kitano di quel tipo, con quel tipo di archetipi, di atmosfere, tutto molto asciutto, secco, ma con quell’ironia sotterranea che già avevamo visto (Brother, ad esempio). con la successiva mezz’ora, cioè la seconda parte, la storia ricomincia ma si va in una realtà parallela dove tutto quello che può andar male va male, o comunque “va strano”. questa parte è comica, assurda e demenziale, ma paradossalmente c’è molta più tensione qua che nella prima, perché all’inizio lui è il solito sicario perfetto di poche parole che non sbaglia mai (per quanto un po’ anziano, e su questa cosa Kitano ci gioca), mentre nella seconda percepiamo che tutto quello che rivediamo succedere potrebbe non funzionare. tira fuori la pistola, ma è al contrario. si siede ma la sedia si rompe. cade, sbatte, spara alla persona sbagliata. ma in qualche modo va avanti, perché la storia resta più o meno quella, però la tensione è data proprio dal mondo improvvisamente assurdo e ostile in cui si trova il protagonista e quindi noi spettatori ci chiediamo: come ce la farà? dico la verità, pur amando Kitano, che come ho detto è uno degli idoli della mia giovinezza, ero preparato a un’evenienza: dover dire che a 78 anni era un po’ bollito e che le gag non facevano ridere. e invece sono contento di non doverlo fare, perché le gag fanno ridere, c’è una freschezza assurda per un regista che sembrava aver già detto tutto sopratutto in questo genere – genere che prende e lo ribalta, ci gioca, lo smonta, lo destruttura, ci ride sopra e fa ridere a chi lo guarda. ci sono momenti totalmente assurdi, come il gioco delle sedie, e moltissime altre gag che a una prima visione possono anche sfuggire, oltre – questa è una mia ipotesi, non l’ho letto da nessuna parte – ad alcune improvvisazioni. per non parlare poi del fatto che il film ogni tanto sia interrotto dai commenti su una specie di forum dove gli spettatori lo criticano. il terzo atto è quello definitivo, dura pochi secondi, ma è un finale perfetto per un film di questo tipo, così concettuale e così cazzone allo stesso tempo, insomma difficile non amarlo. è sicuramente un film autobiografico, nel senso che ci sono le varie anime di Kitano, quello “serio” e asciutto dei film violenti, e quello surreale e assurdo, non solo della prima parte del suo percorso (quando era un comico) ma anche molto successivo in realtà: per come sono girate alcune gag – parlo proprio di messa in scena – a me hanno ricordato un film che potrebbe sembrare lontanissimo da questo e invece no, il mai abbastanza lodato Kikujiro.

Terror Firmer (1998) – let’s make some art! questo è lo slogan del film, secondo alcuni il capolavoro della Troma (per me no). sicuramente è un folle, delirante ed eccessivo elogio del cinema indipendente, costato “solo” 500mila dollari, e non è tanto considerando che è lungo, ci sono centinaia di attori/comparse, effetti, trucchi, esplosioni, scene in esterni, ma anche comparsate e canzoni (Ron Jeremy, Lemmy dei Motorhead, ma anche Parker/Stone di South Park, e anche altri che non ricordo). diciamo che è l’Effetto notte, o l’8 e mezzo, di Lloyd Kaufman, visto che la storia è quella della realizzazione, a dir poco problematica, di un film, il sequel di The Toxic Avenger, il film simbolo della Troma. il regista, interpretato dallo stesso Kaufman, è completamente cieco, come quello di Woody Allen qualche anno dopo in Hollywood Ending. sul set c’è una donna che uccide i membri della troupe, quindi il film è tanti generi: horror splatter, gore, meta-cinema, commedia satirica, comico trash-demenziale – diciamo soprattutto quest’ultimo. succede di tutto: feti strappati dalla pancia di una donna incinta, cervelli cucinati in una padella con la cocaina, persone che esplodono, evirazioni, litri e litri di vomito e sangue, saliva, piscio, ovviamente anche molta merda e nudità di ogni genere. a volte si ride, a volte si è disturbati e anche un po’ annoiati da certe ripetizioni. ma il film è talmente folle, con un’energia punk senza freni, da funzionare davvero come inno alla libertà creativa nel cinema indipendente. certo, a volte viene da pensare: tutto questo sforzo (e questi soldi) per fare questa roba? però, perché no? da vedere assolutamente nella versione lunga o in quella più lunga ancora, mentre quella corta (98 min mi pare) è da evitare perché stupidamente censurata. ho parlato di Effetto notte, ma forse il film a cui si può paragonare è Cecil B. Demented di John Waters, di due anni successivo, anche se Terror Firmer è la versione più caotica, splatter, punk e demenziale, dove il cattivo gusto è sì un atto politico e una dichiarazione creativa, ma anche un modo di spingere l’assurdo verso i limiti più estremi. curiosità: alla fine, negli assurdi titoli di coda (sì, sono bizzarri anche quelli), c’è un ringraziamento alla polizia di new york, ma in realtà è ironico, perché a quanto pare la troupe è stata ostacolata dagli sbirri durante le riprese (sbirri che non fanno bella figura nemmeno nel film). è un film che riunisce varie linee di un certo tipo di comicità americana, che va da Mel Brooks, Zucker/Abrahams/Zucker, South Park e una spolverata di John Waters, tutto però in chiave molto più trash e che alla fine è 100% Troma.

Do Not Expect Too Much from the End of the World (2023) – una commedia, questa del rumeno Radu Jude, ma anche un film potente, che sperimenta, pieno di cose. è la giornata di lavoro di un donna, Angela (la bravissima Ilinca Manolache), per metà del tempo in macchina nel traffico di Bucarest. raccoglie interviste a lavoratori per un video promozionale sulla sicurezza sul lavoro. questa parte è in b/n, ma ogni tanto Angela si filma con un filtro di tiktok, a colori, in cui interpreta un maschio misogino, razzista e molto volgare. come se non bastasse, il tutto è intramezzato dalle scene di un vero film rumeno del 1981 su una tassista, e queste scene si intrecciano in qualche modo con la giornata di Angela e con la storia della romania. molto bello il contrasto tra il biano e nero contrastato e bruciatissimo di Angela e il colore pastoso del film della tassista del 1981. ci sono anche parti documentaristiche e tanti riferimenti anche al cinema. c’è perfino il mitologico regista tedesco Uwe Boll, nei panni di sè stesso, che qua vediamo girare uno strano film di mostri – e anche lui finisce nel tiktok di Angela. con bizzarra leggerezza il film parla di romania, ma anche di sfruttamento dei lavoratori, del cinismo delle aziende, di geopolitica, di razzismo, di un sacco di cose, ed è pieno anche di citazioni, barzellette e canzoni. l’ultima parte è un piano sequenza di circa 35 minuti che di fatto costituisce un corto a sè, anche se chiude genialmente tutti i fili del film, ed è bello e amaro. un’inquadratura fissa su una famiglia che vuole semplicemente 1000 euro – devono girare lo spot sulla sicurezza sul lavoro – con l’uomo obbligato a edulcorare il suo incidente perché l’azienda vuole così (ma si arriverà a una soluzione assurda). nonostante tutta l’amarezza di questo mondo, il film è anche piuttosto divertente. una visione non basta, film da rivedere ogni tanto.

Super (2010) – quindici anni fa in un anno sono usciti tre film simili: questo, il più famoso Kick-Ass e Defendor (secondo alcuni il migliore), tutti appartenenti al genere pop “gente strana che diventa un super eroe dei fumetti anche senza poteri”. dopotutto anche batman e ironman sono così, solo che hanno un sacco di soldi e sono mainstream. questi invece sono tendenzialmente degli sfigati qualunque, nemmeno troppo intelligenti. nel caso di Super di James Gunn è così, il protagonista è un loser, mentalmente non del tutto stabile, che si traveste da super eroe per salvare la sua ragazza tossicodipendente. niente raggi strani o acrobazie: prende la gente a colpi di chiave inglese in testa. a un certo punto si unisce una ragazza, molto più schizzata di lui. sarà che è di Gunn, oggi ricordato come regista di Superman e soprattutto dei Guardiani della galassia, ma in effetti è anche il co-regista e co-sceneggiatore di Tromeo and Juliet, ma Super sembra un film della Troma in versione adulta. il protagonista è un po’ un coglione per il quale è difficile simpatizzare, ma questa commistione tra il fumettistico, il cinema indie e lo splatter ogni tanto funziona. se devo scegliere, tra questo e un film della Marvel scelgo questo. costa meno, in qualche modo rende. divertentino.

Coffee and Cigarettes (2003) – sono 11 cortometraggi che hanno come tema persone che si incontrano in luoghi pubblici, bevono caffè e fumano e sigarette. girato nell’arco di molti anni, non ricordo quanti, credo da fine anni ’80 fino ai primi del 2000, è un film decisamente noioso. l’idea era splendida, ma il problema è che quasi nessuno dei corti è interessante e dopo un po’ si inizia a sbadigliare. probabilmente si è più divertito Jarmusch a farlo di quanto si diverte lo spettatore a guardarlo. ripeto: l’idea c’era, il potenziale è innegabile, ma, dopo pochi minuti, di vedere queste persone che chiacchierano a caso mentre bevono caffè, non te ne frega niente, nonostante lo splendido bianco e nero e le belle canzoni. resta un grande inno anti-salutista, e sicuramente un tentativo da apprezzare. io sono contro il concetto di “film non riuscito”: quando si sperimenta può capitare, l’importante è provarci. accettabile il capitolo con GZA e RZA del wu-tang clan (che io amo) e Bill Murray (che io non amo), ma proprio accettabile, non molto di più. sempre accettabile anche quello con la grande Cate Blanchett. unico davvero bello direi il capitolo “Cousins” con Alfred Molina e Steve Coogan: semplice ma molto divertente, scritto bene, girato bene e recitato benissimo. per il resto, è chiaro che il Jarmusch grande è altrove, ma resta un esperimento originale e quindi da apprezzare.

Stranger than paradise (1984) – magnifico secondo film di Jim Jarmusch, un cult del cinema indie, per alcuni “sopravvalutato”, e io non sono d’accordo. minimalismo, film diviso in tre parti, tante piccole vignette intervallate dallo schermo nero – la prima quasi un kammerspiel indie, con un bianco e nero clamoroso, poi dalla seconda in poi diventa un road movie, e il terzo atto “paradise”, in Florida, è stupendo. io come influenze ci vedo Godard (sopratutto quello di Bande à part), Cassavettes, Ozu, Bresson e Wenders, e probabilmente molte altre cose che semplicemente non conosco. ma è soprattutto Jarmusch, in nuce, ma sicuramente Jarmusch, che ovviamente darà il suo meglio più avanti (Dead Man, Ghost Dog, e molto dopo Solo gli amanti sopravvivono – mio cult). inizialmente era un cortometraggio, poi allungato. è un film fatto con pochi soldi e poche ambientazioni, di fatto sono tre persone che fumano, indossano cappelli, dicono cose banali e viaggiano in posti abbastanza tristi, ma ha una purezza e una grazia che colpiscono. non accade niente di che, ma in qualche modo tutto conta. pur spostandosi, da New York a Cleveland e poi alla Florida, sembrano sempre nello stesso posto, come nota anche uno dei tre. decisamente perfetti i tre protagonisti, nessuno era un attore, erano tre musicisti: John Lurie, jazzista, Richard Edson, all’epoca batterista dei Sonic Youth, ma soprattutto Eszter Balint, all’epoca giovanissima musicista che qua svetta su tutti gli altri. per chi dice “sopravvalutato”, ribadisco il mio disaccordo, e aggiungo che Kurosawa, proprio lui, Akira, l’aveva indicato tra i suoi film preferiti di sempre (dello stesso anno aveva messo anche Paris, Texas). dai, ora venitemi a dire che Kurosawa non ne capiva di cinema.

Mademoiselle (2016) – thriller/dramma romantico-erotico, ma anche un po’ heist movie, film di truffe, diviso in tre parti, dove ognuna delle parti diciamo che offre un punto di vista diverso. non si può dire di più perché è un film con diversi forti colpi di scena. inizia con una giovane coreana che nella corea occupata dal giappone va a fare la dama di compagnia da una riccona, ma in realtà la vuole truffare. c’è tutta l’eleganza e la raffinatezza di Park Chan-wook ma anche la sua ironia, la sua audacia, la sua perversa poesia. mi piacerebbe parlare del finale, ma anche quello mi sa che non si può dire. dietro l’apparenza di un thriller un po’ erotico fin troppo complesso, c’è un film che parla di rapporti di potere, di colonialismo, di patriarcato e di liberazione. la scena della distruzione dei libri dello zio stronzo è un gesto di decolonizzazione culturale e di cancellazione dell’immaginario oppressivo, come a dire: io dovevo leggerti queste storie ma adesso fanculo, io voglio viverle, queste storie. un difetto del film, come anche di altri di Park Chan-wook, è che a un certo punto spiega tutto, in maniera fin troppo dettagliata. mostra tutto, è andata così, quindi questa scena voleva dire questo, quest’altra invece è andata così, e via dicendo, tutti i vari incastri, mentre forse tagliare e lasciare certe parti anche inspiegate sarebbe stato più interessante. idem per il finale, anzi i finali, troppo lunghi e complicati. però chi se ne frega, è un film magnifico. magnifica la messa in scena, i dettagli, tutto. oltretutto – penso si possa dire, anche se è un mezzo spoiler – ha delle scene lesbo degne de La vita di Adele, anche se per questo film non credo se ne sia parlato tanto, eppure siamo in quella zona. a me affascina anche la totale diversità culturale: questo film sarebbe impossibile in italia, totalmente impossibile, nessuno lo vorrebbe fare. attori/attrici bravi tutti, con menzione d’onore per la stupenda e bravissima Kim Min-hee, che ha fatto tipo 48 film con Hong Sang-soo e anche qua è eccellente. io di Park Chan-wook amo particolarmente film secondo alcuni secondari – diciamo quelli fuori dalla trilogia della vendetta – come Stoker e I’m a Cyborg, But That’s OK. curiosità: il titolo originale di questo film è Agassi. non c’entra niente il tennista, ma è come la protagonista chiama la sua padrona, ovvero “signorina” in coreano.

Anora (2024) – una spogliarellista di new york diventa la ragazza a pagamento di un giovane russo figlio di un oligarca, i due si sposano e lei pensa di aver fatto il colpaccio, ma la famiglia di lui prevedibilmente si oppone. dunque: ha vinto sei oscar ma soprattutto la palma d’oro a cannes, oltre a entusiasmare il 100% della critica o quasi. certo, chi se ne frega dei premi, ma è per dire che in effetti avevo delle aspettative e invece a me non ha convinto molto – e ora chi ha voglia, in poche righe, di spiegare il perché? è di Sean Baker, e quindi ha quello stile lì, con un’aggiunta alla fratelli Safdie (Diamanti grezzi ha avuto un impatto incredibile su un certo tipo di cinema statunitense), con tutta quella frenesia/eccitazione continua, e degli sgherri che sembrano venire da un film dei Coen. però il film è 100% Sean Baker, musica pop brutta (ormai un tratto caratteristico del cinema cosiddetto “indie” e d’autore, ci sono i Take That, le Tatu, ecc.), gente che si parla sopra, urla, frenesia, scopate, e via così. la prima parte è quasi insopportabile, i due protagonisti sono uno peggio dell’altro: lei ossessionata dai soldi e pronta a tutto, lui un coglioncello ricco che pensa solo a scopare, fare festa e giocare ai videogiochi. quando stanno insieme non fanno mai nulla, a parte appunto scopare. ovviamente, siccome la sceneggiatura è molto furba (ricordo che questo film ha vinto una quintalata di oscar) i due personaggi sono giustificati per la loro insopportabilità: qualcuno ha addirittura parlato di lotta di classe, perché lei vuole fare la scalata sposando lui (non era più divertente se gli fotteva i soldi e scappava? adesso la lotta di classe si fa sposando un ricco?), mentre lui è sicuramente un bamboccio idiota, ma va capito, è colpa della famiglia che è cattiva, è cresciuto così! insomma, paraculate di sceneggiatura. il film però prende il volo quando appare la piccola banda degli armeni, gli sgherri dell’oligarca, ed è una parte da commedia, perfino con scene slapstick da cinema muto. la parte centrale è sul sogno di Anora – sposarsi il riccone – che traballa, e sul rapporto tra lei e gli armeni, in particolare uno, un personaggio apparentemente secondario e che invece si può quasi dire che è il vero protagonista del film (è il bravissimo attore russo Jurij Borisov). poi c’è la fine del sogno, l’amarissima terza parte, e qua il protagonista vero diventa sempre di più Jurij Borisov. di fatto tutta la prima parte sembra un lungo prologo per arrivare al rapporto tra lei e gli armeni e con uno in particolare. a me sembra che festival e oscar adorano poter dire: “Abbiamo premiato qualcosa di sporco e vero, è cinema popolare!”, ma in una confezione narrativa digeribile. un cinema abbastanza acceso e pop da non annoiare, ma con abbastanza “profondità” da far sentire chi lo premia o lo apprezza di aver sostenuto qualcosa di importante – anche se poi non si sa bene cosa. film politico, ah ma sicuramente, per me lo sono tutti. boh, non lo so. magari lo rivedrò. il mio preferito di Sean Baker resta Red Rocket.

L’urlo (1968) – [consigliato da RB] il Tinto Brass dei primi film era davvero divertente e interessante. peccato che a un certo punto si sia fossilizzato sui culi, ma sono scelte, non mettiamoci a fargli la morale per la sua passione per il culo femminile, ci mancherebbe (pare che avesse detto che l’unica rivoluzione possibile era quella sessuale). a proposito di questo film molto surreale e sperimentale spesso troverete l’aggettivo “anarchico”. di solito, per altri film, non è mai vero ed è una parola usata a caso, ma in questo caso ci sta. sia, in parte, per i contenuti (contro la borghesia, contro le istituzioni, contro l’esercito, contro qualunque autorità) ma soprattutto nella forma. è anarchico nel senso di caos, una parola che gli anarchici si sono persi per strada, ribadendo sempre, nell’ultimo secolo ma anche prima, che anarchia non è caos, anzi è ordine, organizzazione, ecc. invece caos è una parola che andrebbe recuperata, soprattutto dagli anarchici, che hanno smesso perché “caos” e “anarchia” sono parole che alla gente facevano paura, ma secondo me bisognerebbe tornare a fare gioiosamente paura – vabbè, altro discorso. ma tornando al film: è caotico, programmaticamente ribelle a ogni regola cinematografica, eccentrico, è uno di quei primi film di Brass dove c’era ancora un certo equilibrio tra libertario e libertino. per certi versi ricorda anche un film dello stesso anno, con uno spirito completamente diverso, eppure in qualche modo stilisticamente simile, ovvero Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene. ma alla fine era un po’ lo stile di certi sperimentalismi di quel periodo, figli e nipoti di Godard e altri rivoluzionari. ma in questo film l’aspetto che ho apprezzato di più è proprio la spensieratezza, il divertimento, una sensazione di libertà, anche e soprattutto nelle sue parti più cupe e pessimiste (“questo è un mondo cattivo” canta la canzone), come le varie scene con inquietanti rituali con tanto di veri animali uccisi in stile Jodorowski. di fatto è un road-movie, ma soprattutto è una commedia, per quanto sperimentale, politica, assurda e trasgressiva. ottimo Gigi Proietti, che in quel periodo era molto efficace, molto prima di diventare il Grande Maestro e divenire quindi insopportabile. il suo personaggio è la cosa che mi è piaciuta di più del film, con i suoi monologhi assurdi (quasi sempre fuori sincrono, fatti al doppiaggio), il ghigno perenne sul volto, il modo scanzonato ma anche diabolico di muoversi, da trickster anarchico, le sue varie burle, trasformazioni, cambi d’abito. per far capire l’unicità di questo film basti riportare due battute memorabili: “Mmmm! Che odore di smegma!” e “Chi è un buon guardiano? un guardiano morto. chi è un buon direttore? un direttore morto”. ovviamente i tanti nudi sono sbilanciati: direi 95% femminili e 5% maschili. anche in scene completamente alla pari, come una scena di ballo, le donne sono nude e gli uomini vestiti. ma anche nella bella scena dell’attacco al carcere-manicomio, quando vengono liberati tutti i detenuti, i maschi hanno la divisa da carcerati e le donne sono inspiegabilmente nude. non è manco una critica eh, ma più una constatazione storica. comunque, sono sicuro che alcuni oggi lo troverebbero datato, e invece nel suo andare contro ogni convenzione in modo così divertente e folle resta un film fresco, sicuramente figlio di quel periodo, ma ad avercene.

Wristcutters – Una storia d’amore (2006) – titolo nella categoria da me amatissima dei film minori e completamente dimenticati, questo del croato Goran Dukić, che in sostanza ha fatto questo e pochissimo altro. l’idea di base è che un tizio si suicida e finisce in un aldilà che è praticamente come questo mondo, ma un po’ più sfigato e abbandonato, dove ci sono solo altre persone che si sono tolte la vita. è una commedia surreale e romantica dall’atmosfera molto indie. perché lui, venendo a sapere che la sua ex si è suicidata, tenta in tutti i modi di trovarla – e qua il film diventa un road movie. a parte il simpatico personaggio di Eugene, evidente omaggio a Eugene Hütz dei Gogol Bordello (ci sono anche le loro canzoni), si unisce al viaggio in questo strano aldilà desertico una ragazza che sostiene di essere lì per sbaglio, interpretata da Shannyn Sossamon, mia cotta giovanile dai tempi de Le regole dell’attrazione, e quando c’è lei il film si illumina. poi, sarà che c’è anche Tom Waits (sia come attore, sia come canzoni), ma c’è un’atmosfera alla Jarmusch in un certo senso, anche se di fatto è una semplice commedia romantica con i suicidi. film piccolo – anche come budget, è costato meno di un milione di dollari – ma da non dimenticare.

Incontri molto… ravvicinati del quarto tipo (1978) – titolo originale credo semplicemente Incontri ravvicinati del quarto tipo, quello di Spielberg era uscito solo un anno prima. io ho una passione inspiegabile per questi z-movies italiani (ma non solo) che riprendono i titoli di film di successo. questo di Mario Gariazzo e Gianfranco Baldanello è considerato tra i più brutti in assoluto, e in effetti siamo in zona trash impossibile da rivalutare, anche se secondo me esiste di peggio. perché l’ho guardato? perché si parla di alieni, quindi ero curioso. nello stesso anno Gariazzo aveva girato un altro film a tema ufo, Occhi dalle stelle, più serio di questo che invece non ha nessuna ambizione, il tono è spensierato, goliardico, senza pretese. le scene erotiche sono poche e molto soft, in realtà l’arrivo dei finti alieni porta una sorta di liberazione sessuale tra le due donne, e infatti il primo vero rapporto sessuale (sempre soft) è un rapporto lesbo. ci sarebbero un paio di cose da dire, ma ho già perso abbastanza tempo a guardare questo film – con tutte le cose belle che si possono fare, o con tutti gli altri film che si possono guardare – tempo che non avrò mai più indietro, e quindi basta così.

The woman who left (2016) – il revenge movie secondo Lav Diaz: questa è una definizione che si potrebbe mettere sulla copertina del dvd, e magari ce l’hanno messa. filippine, una donna esce dopo 30 anni di prigione perché si scopre che era innocente. non ha mai più visto la famiglia. va a cercare la figlia e il figlio, il marito è morto. ma poi va a cercare anche un’altra persona, un criminale riccone, suo ex amante, colui che l’ha incastrata e le ha fatto passare più di metà della vita in carcere. lei si muove come un fantasma, non vuole che nessuno sappia che è libera, a volte si presenta con un nome, a volte con un altro, e la notte gira travestita in modo maschile. fa amicizia con diversi emarginati, in particolare con un ragazzo transgender e un poveraccio venditore ambulante gobbo. ma a un certo punto compra una pistola: si vuole vendicare. non so che dire, è un film magnifico, gigantesco, con un bianco e nero digitale straordinario, contrastato, a volte con i bianchi bruciati e i neri nerissimi (le molte scene notturne sono fondamentali). sembra quasi che Diaz sfrutti alcuni possibili errori come scelte artistiche e narrative. penso alla grande scena in cui la protagonista soccorre il transgender epilettico e ad essere a fuoco è lo sfondo, mentre loro due appaiono quasi come un’unica figura unica sfocata e oscura. ma ci sarebbero tanti esempi. è anche un film politico: si parla della storia delle filippine (è ambientato nel 1997), del divario tra i ricchi e potenti e tutti gli altri e di molto altro, ma decisamente non in modo didascalico. giustamente è diventata famosa la scena in cui la donna e il trans cantano pezzi dei musical americani – è davvero magica. la protagonista è fantastica, ma l’attore che fa il giovane trans, John Lloyd Cruz, è meraviglioso. ha fatto poco cinema (anche un altro film con Diaz) ed è soprattutto un personaggio televisivo, tra programmi e telenovele, ma il suo personaggio a un certo punto si prende tutto il film. The woman who left è considerato il film normale di Diaz, l’entry level diciamo, non solo per lo stile leggermente diverso – sequenze più brevi, più stacchi – ma anche perché quando si parla del suo cinema è obbligatorio fare riferimento alla durata dei film, dato che ha sempre fatto film da sei, otto ma anche dodici ore, e questo invece dura solo 3 ore e 50, poco meno di quattro insomma. a me questo aspetto interessa relativamente. a parte che non toglierei nemmeno un minuto dal film, ma pure fosse stato necessario aggiungerne un’ora, chi se ne frega. come ha detto lui stesso in un’intervista, a un pittore che fa un quadro nessuno chiede “quanto è grande? è un quadro piccolo o un quadro grande?”. il digitale rende possibile fare film da 15 secondi o 15 ore ed è praticamente uguale, poi certo c’è il discorso del pubblico, e infatti i film di Diaz sono poco visti, se non dai giornalisti ai festival (che spesso si addormentano o escono fuori a chiacchierare e fumare). però questo per me è un film che poteva andare in sala (ed è andato, perché ha vinto a Venezia, ma in poche sale) e, presentato nel modo giusto, piacere e coinvolgere il pubblico. perché è un film popolare, nel senso che parla del popolo, di gente qualunque, con personaggi che coinvolgono e problemi che tutti possono capire. insomma, definirlo un film da cinefili, da cineforum, da festival, da intellettuali perfino, è proprio una stronzata.

Laputa – Castello nel cielo (1986) – è stata la mia porta d’accesso allo studio ghibli, io e mia sorella (un bel po’ più piccola di me) avevamo un cd (non un dvd) con questo film e con quello precedente, Nausica, e ce li guardavamo molto spesso. va detto che non è stata la porta d’accesso solo per noi, visto che è il primo film ufficiale dello studio ghibli. in un altro cd avevamo l’incredibile e straziante Una tomba per le lucciole (solo dopo arriveranno tra le nostre mani altri due capolavori come I sospiri del mio cuore e Pioggia di ricordi – questo molto dopo). Akira di Otomo, che non c’entra niente con lo studio ghibli ma mi è venuto in mente per la qualità delle animazioni, uscì solo due anni dopo. il successivo che vedemmo di Miyazaki fu il suo capolavoro definitivo, Princess Mononoke, e poi pian piano scoprimmo tutti gli altri, Totoro, Kiki, ovviamente poi arrivò La città incantata, e così via. tornando a Laputa, la ricchezza e la precisione delle animazioni, le scene d’azione, era tutto sconvolgente. i due personaggi così giovani ma intelligenti, coraggiosi, determinati, attivi. i pirati che sembrano i cattivi e invece diventano i complici e sono simpatici. i minatori. i robot amici degli animali. ma poi i messaggi del film: esercito merda, governo merda, chi vuole il potere è un coglione e va fermato, tutte cose belle. ma anche il ritmo del film, oggi forse considerato insolito, è lungo, si prende tutto il suo tempo, per circa 40 minuti non spiega nulla della trama, bisogna solo seguirlo. ma poi ripeto per la decima volta: le animazioni, che qualità assurda. l’isola nel cielo viene dal Gulliver di Swift, ma poi si vedrà anche in un’altra grande opera anime, One Piece.

Koyaanisqatsi (1982) – nel 1982 Godfrey Reggio mostra a tutti che si può fare anche un altro tipo di cinema. è narrativo? è un documentario? è un film? e cosa vuol dire il titolo? ispirato e coraggioso, anche nella scelta di un titolo così difficile da scrivere e ricordare, resta una pietra miliare sopratutto considerato che è del 1982 (ma è stato fatto a partire dal 1975 mi pare), e ancora oggi, a noi che siamo abituati a tutte le immagini possibili e possiamo fare noi stessi un timelapse delle nuvole anche con il telefonetto, il film sorprende ancora. il co-regista assoluto, più che il direttore della fotografia Ron Fricke che poi farà film simili come Baraka e Samsara, è decisamente Philip Glass. senza le sue musiche Koyaanisqatsi non sarebbe Koyaanisqatsi. il discorso del film a me interessa fino a un certo punto (natura/esseri umani/industrializzazione), anzi mi piace considerarla un’opera aperta, saltare la lettura più scontata – quella fedele alle intenzioni del regista – e invece trovarne altre magari in singole sequenze, in piccoli dettagli, come l’uomo che gioca ai videogiochi con un bambino in braccio, la città vista come organo vivente, e sicuramente la potentissima immagine finale del razzo che esplode e dei detriti che cadono giù, che messa lì, montata in quel modo (sono immagini di più razzi in realtà), con quelle musiche, è tra le scene più belle della storia del cinema. c’è il rischio di appiattirlo su un’unica lettura – anche perché il film è strutturato in modo molto semplice – cioè quella ecologista e anti-industriale, e secondo me è un errore, più che altro uno spreco: sarebbe bello che i nuovi spettatori del film offrissero nuove assurde interpretazioni. cioè pensare il film più come strumento che come “messaggio”. curiosamente, ci sono strane connessioni con due film di Nolan, Inception e Interstellar. comunque fa parte di una trilogia, ma gli altri due non li ho visti, conosco solo le musiche di Glass, bellissime.

Little Sister (2015) – presentato come un Kore’eda minore, e rispetto ad altri suoi film forse lo è, ma è comunque un Kore’eda interessante, un film sperimentale mascherato da film normalone. tre sorelle vivono insieme nella vecchia casa di famiglia. quando muore il padre che le ha abbandonate 15 anni prima (ma poi sono state abbandonate anche dalla madre), loro accolgono la figlia che lui ha fatto con un’altra donna, la loro sorellastra, o meglio, la loro “sorellina” (anche se il titolo originale è “Umimachi Diary”). e poi cosa succede? pochissimo. le quattro ragazze stanno bene insieme, si punzecchiano, sorridono, cucinano, mangiano, c’è chi va a scuola, chi a lavoro, insieme fanno il liquore di prugne, cose così. questo per due ore. ogni tanto c’è qualche problemino, ma si risolve nel giro di due minuti. sembra uno di quegli anime cozy super rilassanti e pieni di good vibes, e infatti ho scoperto dopo che è tratto da un manga. quindi perché sperimentale? perchè qua Kore’eda, con una regia semplice, classica e placida, rinuncia completamente a tutte quelle cosette da manuale di scrittura per il cinema: conflitto, tensione, dramma, colpi di scena. niente di tutto questo. il film scorre invece come un fiume tranquillo, fatto di gesti quotidiani, di sorrisi, di stagioni che cambiano, di riti familiari che si tramandano e si reinventano, di gente che sta bene insieme. Kore’eda sembra che non voglia raccontare una storia, ma mostrare un modo di stare al mondo, di abitare le relazioni, il tempo, i luoghi. è come se dicesse: guardate che la vita è fatta di questo – non solo dei grandi eventi, ma soprattutto dei piccoli momenti condivisi. di tenerezza, affetto, serenità. il gran finale del film, ad esempio, quello che nei manuali dev’essere sempre intenso, esplosivo e indimenticabile, sono le quattro sorelle che chiacchierano e passeggiano sulla spiaggia. ma in questa leggerezza e in questi buoni sentimenti (nel film tutti i personaggi sono gentili con tutti) ci sono diversi aspetti fondamentali. in primis il discorso che il regista giapponese sta portando avanti in tutta la sua filmografia, quello sulle parentele strane, per sintetizzarlo: quindi le varie possibili famiglie e i legami che si scelgono. ma poi la cura reciproca. il piccolo universo delle quattro sorelle è fatto di cura reciproca, e l’idea che la relazione si costruisca con tanti gesti quotidiani, preparare un certo piatto, cedere la vasca da bagno, aggiustare un vestito, ascoltare, fare una passeggiata insieme. non ci sono strani ed enigmatici gesti con valore simbolico, ma proprio cose semplici, ordinarie, ripetute per tutto il film. il cibo ha un’importanza fondamentale. come in certi anime, sembra che i giapponesi mangino in continuazione e che si esaltino con il cibo. il piatto speciale preparato dalla vecchia nel suo locale che rimanda a tanti ricordi, il toast del padre delle ragazze, l’unica ricetta che faceva la madre, l’altra ricetta che una delle sorelle di solito fa solo per sè ma che prepara per la più piccola, e poi il liquore di prugne che si fa tutte insieme da sempre. c’è l’idea che la famiglia, la parentela, la relazione, non siano qualcosa di dato, ma qualcosa che si costruisce, con pazienza e tenerezza, anche tra persone che non si sono scelte o che invece si scelgono, come di fatto accade qua. in questo è coerente con i suoi film precedenti, solo che è privato di tutte quelle parti spinose, di svolte drammatiche, di tentativi (narrativi) di “risolvere” qualcosa. sotterranea c’è anche la morte: il film si apre e si chiude con un funerale e con le sorelle vestite di nero, e in mezzo ce n’è anche un altro. ma, e qua sta la radicalità del film, anche la morte non sembra essere un grande problema. di un personaggio che muore viene detto con il sorriso “ha vissuto una vita felice”. le ragazze poi sulla spiaggia dicono che anche loro diventeranno vecchie, e una commenta “beh, sarà divertente! no?”. per me, che quando mi vedo allo specchio mi immagino come un cadavere in decomposizione, è un approccio al tema sicuramente interessante. ultima cosa: nei film io amo vedere la gente dormire.

Ritratto della giovane in fiamme (2019) – situazione bella: credo metà ‘700, una pittrice viene inviata in un luogo sperduto sul mare per ritrarre di nascosto una giovane riccastra che non si vuole far ritrarre. lentamente le due si innamorano. buona parte del film è fatto con loro due e la servetta in una grande casa con candele e camini vari. non si vedono mai uomini, solo uno (forse due) alla fine, velocemente, oltretutto utilizzati in modo simbolico (è un film pieno di simbolismi). secondo me è interessante perché la regia va di pari passo con la storia. nel senso che sembra uno di quei film in costume elegantissimi, super classici, con la “Bella Fotografia”, dove tutto è trattenuto, ma ogni tanto c’è qualche cenno all’andare oltre, e questo riflette la storia d’amore delle due protagoniste. quando finalmente si va oltre (dopo credo un’ora e mezza di sguardi si baciano) anche la regia si permette di lasciarsi andare, come nella scena chiave in cui a una delle due prende fuoco il vestito sulla spiaggia. la passione trattenuta tra le due – ci sarà anche una conversazione dove cercano di capire dov’è iniziata, e si scopre che è iniziata molto prima di quanto viene mostrato nel film – ribolle e infine esplode, e allora bevono vino, si spogliano, fanno l’amore, si drogano. il ribollire, anzi il crepitio della passione trattenuta, più che dalle numerose candele, è rappresentato anche dai vari caminetti, un fuocherello sempre acceso, le scintille, il crepitare, lo scoppiettare, un fuoco che alla fine divampa. ma anche l’oceano, sempre in movimento di fronte a loro, sembra rimandare ai loro moti interiori. spiegato così può sembrare un simbolismo facilone e didascalico, ma non è così: Céline Sciamma è una regista intelligente e raffinata e alla fine il tutto funziona. una cosa che me l’avrebbe fatto amare mezzo punto in più sarebbe stata una sceneggiatura meno perfetta: si vede che Sciamma è una sceneggiatrice, perché non c’è niente fuori posto, è un ingranaggio che funziona alla perfezione, nessun deragliamento, nessun gesto fuori posto, nessun buco – ma a me tutto questo molto spesso non piace, e invece trovo interessante il gesto bizzarro, una parte inspiegabile, un ritmo sbilenco, dissonanze: ecco, può apparire troppo perfettino. e poi a tratti, soprattutto nella prima parte, sembra una soap opera d’autore: lunghi silenzi tra una frase e l’altra, con una che dice una cosa, l’altra che resta a fissarla per 10 secondi, risponde, la prima a sua volta resta in silenzio e poi dice una parola, oppure emozioni prolungate come nelle telenovele, quando un personaggio esce fuori scena e noi vediamo l’altro che fissa un punto a caso con la faccia triste/contrariata/preoccupata/ecc. – c’è un po’ questa roba, ma in versione festival di cannes. ma chiarisco: non è un difetto, a me piace l’idea di una soap opera d’autore. alla fine, per ridurla ai minimi termini, è una bella rappresentazione di un amore impossibile: lei deve sposare un uomo, ma in un certo senso è anche un amore eterno, come fa capire il finale, che per una volta non anticipo (non perché sia così clamoroso – anche se è bello). funzionali le due protagoniste, soprattutto la bionda. nel mio caso credo sia un film forse destinato a crescere con più visioni.

Oasis (2002) – primi anni 2000, ci guardavamo tutto il cinema “orientale”, cioè quel 5% che arrivava in italia grazie alle partecipazioni o vittorie ai festival, grazie ai dvd e a fuori orario di ghezzi. questo lo vidi con un dvd, andavano forte i giapponesi e poco i cinesi, ma spuntavano fuori anche i coreani (Kim Ki-duk si vedeva anche al cinema). era un periodo meraviglioso per essere un giovane cinefilo, ma bando alla nostalgia: l’ho rivisto ieri sera. questo film del coreano Lee Chang-dong – che poi farà i più noti Poetry e soprattutto Burning – è crudo, romantico e pessimista. due emarginati da tutti, lui povero e un po’ strano, lei gravemente disabile, entrambi sfruttati dai parenti, si innamorano. in realtà tutto parte con un quasi stupro di lui su di lei, ma dopo questo primo strano contatto inizia una storia d’amore rappresentata con una purezza e una vitalità sublime. il film è anche eccessivo: Lee Chang-dong non si risparmia – scene tipo loro due che ballano in mezzo alle macchine in coda o loro due al karaoke possono risultare un po’ troppo, ma io capisco l’intenzione, che è quella di esprimere una smisurata voglia di vivere e di amare. per fare una citazione inaspettata: “un’idea esagerata di libertà”. il fratello di lui, un vero stronzo, all’inizio gli dice che si deve adeguare alla società, che è importante cosa gli altri pensano di lui. ma lui fa esattamente l’opposto: se ne fotte di tutto, viene ingiustamente accusato di stupro ma non dice nulla, pensa solo a lei, ed è solo di lei che gli importa: della società non gliene importa nulla, anche perché alla società non importa nulla di lui. la scena di sesso può mettere a disagio qualcuno, immagino, ma io l’ho trovata bella, semplice e naturale, anche grazie alle capacità dell’attrice Moon So-ri, sorprendente quando passa dalla disabilità ai momenti visionari in cui non è disabile (che non è solo, banalmente, come vorrebbe essere lei, ma anche come lei percepisce lo sguardo di lui: è l’unico a non fare mai, dall’inizio alla fine, nessun riferimento alla sua disabilità). attrice veramente coraggiosa e talentuosa, considerando anche che era solo al secondo film, ma aveva fatto diversi cortometraggi e soprattutto teatro. va detto, bravissimo anche Sol Kyung-gu, che non riesci a immaginartelo diverso da com’è in questo film. tornando al film: il titolo. come spesso capita, la chiave di tutto è nel titolo e nella prima immagine del film, dove vediamo una tela che rappresenta un’oasi nel deserto, adombrata dai rami di un albero mossi dal vento fuori dalla finestra. è appesa sul muro di fronte al letto di lei. quest’immagine è la chiave di tutto il film. l’oasi è quella dimensione unica e solitaria che costruiscono i due: una possibile vita diversa, una vita d’amore, non una vita da disabile emarginata e sfruttata. è un’oasi di vita in quel deserto che è la società di merda. i rami dell’albero rappresentano la minaccia incombente della realtà fuori dalla dimensione dell’amore, e infatti lei chiede più volte a lui di farli sparire con la magia (coerentemente, questa immagine genera anche un sogno di lui, poi messo in scena nel momento più visionario del film). ecco perché il finale, che può apparire anche eccessivo, ha un suo magnifico senso: lui, scappato dagli sbirri, sale sull’albero in piena notte e sega i rami dell’albero. lei è sul letto e vede sparire l’ombra dall’oasi. per tutti è il gesto di un folle, ma lei capisce, è un gesto che riguarda solo loro due, e dopotutto nessun altro sa della loro storia d’amore, perché nessuno riesce nemmeno a concepirla. viene solo sfiorata, come possibilità, dal fratello minore di lui, unico personaggio vagamente positivo, quando chiede “ma avete chiesto a lei com’è andata?” dopo il presunto stupro. viene preso a male parole. ma quella domanda è essenziale, perché sottolinea che lei, per tutti gli altri, non ha voce. perché dovremmo chiederglielo? è per forza uno stupro, cos’altro potrebbe essere? anche qua, il personaggio interpretato da Sol Kyung-gu, se ne fotte della società e di dare spiegazioni: è importante che capisca lei, se gli altri non capiscono pazienza, e infatti dopo aver segato i rami va felicemente in prigione senza troppi problemi. il pessimismo del film viene in parte mitigato proprio dall’idea che i due riescano ad amarsi nonostante la società, come fa intendere la lettera che lui scrive a lei dalla prigione, molto spensierata e romantica, e che allude a un futuro insieme (ci riusciranno? improbabile). quindi, nonostante tutto, è un film sicuramente pessimista (la società è malata, sono tutti stronzi), romanticissimo (storia d’amore pura tra due solitudini) e che non ha paura di premere sull’acceleratore, con momenti lirici che altrove potrebbero risultare patetici o cringe ma che qua, miracolosamente, si tengono in equilibrio. a me l’unica scena che ha veramente messo a disagio è quella della cena con i parenti. viene voglia di andar via, ma il protagonista non lo fa, allora lo vorresti fare tu come spettatore. anche quando lei, dopo il presunto stupro (in realtà rapporto totalmente consensuale, anzi voluto da lei), viene interrogata dalla polizia ma è talmente agitata che non riesce a parlare e a dire la verità, si può provare una frustrazione eccessiva, ma sinceramente io ero nel mood del protagonista: chi se ne frega di cosa dicono sbirri e parenti, l’importante è quello che sappiamo noi due, e cioè che ci amiamo. ingiusto anche ridurlo a un film “sulla disabilità”, per quanto ovviamente quest’elemento sia importante, mentre concentrerei maggiormente lo sguardo forse sull’aspetto “solitudine, emarginazione, società che non ha spazio per i diversi”. nota finale: io spesso sostengo la tutto sommato relativa importanza degli attori nel cinema, ma ammetto che questo film sarebbe stato impossibile senza le capacità dei due protagonisti.

Divorzio all’italiana (1961) – incredibile pensare che film si facevano in italia a inizio anni ’60. questo di Germi è uno di quei film impossibili, nel senso che è il risultato di elementi apparentemente inconciliabili, e invece funziona. una situazione molto drammatica (un uomo che vuole uccidere la moglie) e un rischiosissimo personaggio in teoria negativo che qua però è simpatico (Mastroianni) inseriti in una cornice da commedia satirica. ci sono riferimenti al delitto d’onore, che all’epoca c’era ancora, ovviamente al divorzio, che all’epoca non c’era ancora, al maschilismo, alla mafia, alla chiesa, ai partiti, anche al cinema stesso, e ovviamente alla sicilia di quel periodo e più in generale a una certa morale presente in italia e in particolare nel meridione. altro elemento bizzarro di questo film: la forma. una commedia satirica e amara e per certi versi tragica è messa in scena con un’eleganza assoluta, scenografie e costumi curatissimi, bianco e nero meraviglioso, regia raffinata e mai banale, a volte divertente, a volte elegante o perfino sperimentale. su tutto svetta indubbiamente Mastroianni: il suo barone Fefè è uno dei personaggi indimenticabili della storia del cinema italiano, in scena dalla prima all’ultima inquadratura. il rischio che Fefè risulti simpatico c’è, ma è calcolato e il film gioca proprio su questa linea sottile – si può dire che sfrutta questo rischio per mettere lo spettatore davanti a un dilemma morale e smascherare i valori distorti di una società che giustifica la violenza nel nome dell’onore, del decoro e della tradizione (violenza non solo maschile contro le donne, vediamo anche il contrario, ma chiaramente quella sistemica è quella maschile). in quale commedia ci può essere una scena in cui lui ha appena ucciso la moglie, poi vediamo un’inquadratura della tomba della poveretta con una sua foto sorridente e la pioggia che la bagna, con la voce di lui che dice “poverina, volevi solo essere amata” (o qualcosa di simile)? è una scena amarissima, ma in qualche modo fa anche ridere, pur senza alcun cinismo. è un film cattivo perché è amaro, ma non è cattivo con i personaggi, c’è una strana, assurda tenerezza verso tutti. questa sensazione di tragedia divertente, paradossale e amara, che prova simpatia per tutti i personaggi senza rinunciare a denunciare moralismi e storture della società, si ritroverà sicuramente in altri esempi di “commedia all’italiana” (espressione che se non erro nasce con questo film), ma anche in film di decenni successivi, come nel cinema indipendente americano di fine anni ’80 primi ’90 (tipo i Coen, ma non solo). è giustamente famosa la sceneggiatura, non solo per la costruzione della storia, ma anche per i monologhi e la voce fuori campo di Mastroianni – molto divertente soprattutto quando diventa ossessivo-paranoico – o le arringhe (alcune immaginarie) dell’avvocato ascoltate da un carabiniere in estasi. per tornare al discorso iniziale: l’anno dopo uscirà il capolavoro Il sorpasso, molto diverso, ma altro caso di amarissima tragedia/commedia.

Je, tu, il, elle (1974) – primo film lungo di Chantal Akerman, scritto, diretto e interpretato (per metà del tempo nuda) a soli 24 anni. bianco e nero stilizzato, c’è l’ispirazione del cinema sperimentale americano, ma anche – inevitabilmente – la nouvelle vague. sono 86 minuti tutti con la protagonista, la stessa regista, prima in versione agorafobica chiusa in una stanza per un mese a scrivere una lettera, spogliarsi e mangiare zucchero, poi, nella parte centrale – molto bella – conosce un camionista e gira sulle strade e nei bar con lui (c’è anche un veloce rapporto sessuale), infine si presenta a casa di una ragazza, parlano pochissimo e fanno l’amore. quest’ultima scena è diventata celebre perché forse è la prima scena di sesso lesbico esplicita in un film che credo sia andato nelle sale, e soprattutto è molto lunga e molto bella – chissà se Kechiche si è ispirato a questo film per le famose (per alcuni famigerate) scese di sesso in “La vita di Adele”, comunque più pornografiche, va detto. parto da quest’ultima parte: c’è chi dice che è il classico film sperimentale un po’ pornografico ma senza erotismo, dove lo sguardo è freddo, distaccato, il corpo nudo non è erotico ma è tipo “uno spazio narrativo”. io non sono d’accordo. non so quali fossero le intenzioni di Akerman ma l’ultima lunga scena delle due ragazze a letto è molto erotica, passionale e allo stesso tempo ha uno sguardo candido: sembrano quasi due bambine che giocano e si esplorano a vicenda (e non a caso, forse, appena finisce partono i titoli di coda con una filastrocca per bambini). il film è a tratti triste e un po’ disturbante, come tutta la prima parte di lei da sola in una stanza (la parte “Je” del titolo). curiosamente io ho trovato particolarmente disturbante che mangiasse tanto zucchero. il monologo del camionista è molto bello, così come certe scene nei bar. qualcuno direbbe “film interessante ma acerbo”, ma, a parte che a me piace la frutta acerba, così come le canzoni e le poesie giovanili, se si pensa che solo un anno dopo, a 25 anni, Akerman realizzerà il suo capolavoro Jeanne Dielman, in effetti viene da pensare che sia così. ma resta un’opera prima potente e coraggiosa, dove la protagonista si muove nel mondo un po’ a caso, alla ricerca dell’altro (“Il”) o dell’altra (“Elle”) ma alla fine probabilmente restando sola.

La tana del serpente bianco (1988) – horror del mitico Ken Russel, tanto bizzarro quanto mediocre. di sicuro si troverà online qualcuno che lo definisce un capolavoro o quantomeno un cult movie, ma per me è un film totalmente trascurabile, diciamo pure bruttino. paganesimo, serpenti giganti, vampirismo, campagna inglese, teoricamente anche buoni ingredienti, ma sceneggiatura e regia – sembra incredibile dirlo parlando di Russel – sono al minimo sindacale e forse anche sotto il minimo. anche gli effetti speciali, ecco, diciamo che non aiutano. belle le scene visionarie, lì viene fuori il vero Russel diciamo, con colori acidi, suore, gesù, sangue, violenza, serpenti, ma il resto è da telefilm brutto. non male la sacerdotessa serpente, ma proprio per cercare di vederci qualcosa di buono, e tutto sommato anche Hugh Grant che probabilmente nemmeno si ricorda di aver fatto questo film e che fa il suo solito personaggio del brillante e affascinante borghese, in questo caso addirittura un nobile.

Departures (2008) – giappone, un violoncellista smette di suonare, torna nella casa di famiglia del suo paesello e trova lavoro come tanatoesteta. è un tipo delicatino, ma il primo lavoro è occuparsi di una vecchia in decomposizione da due settimane. siamo in zona film completamente dimenticati, anche se va detto che questo film ha vinto l’oscar come miglior film straniero. il regista, Yōjirō Takita, ha un percorso artistico stranissimo: per molti anni ha fatto soft-porno, una serie lunghissima, poi una commedia arrivata anche in Europa, poi questo che vince l’oscar, poi ha fatto il film su Sampei, e praticamente è scomparso di nuovo. carriera altrettanto curiosa quella dell’attore protagonista, Masahiro Motoki, che in tutta la vita ha fatto solo 8 film, spesso l’uno a molti anni di distanza dall’altro, pur lavorando con due dei maestri più matti del giappone: Takashi Miike e Shin’ya Tsukamoto. non so, probabilmente di lavoro fa altro. però, lo dico subito, proprio lui è uno dei due punti deboli del film. totalmente inadatto, spesso fastidioso, un viso espressivo solo quando fa insopportabili smorfie. non so se è colpa sua o per come è stato diretto (giudicare gli attori nel cinema non è mai facile), ma insomma non funziona. con un altro attore forse il film sarebbe stato diverso? forse. ma anche con un altro regista, infatti la regia è l’altro grosso punto debole. la storia è anche bella, si parla di morte in un modo originale, a volte divertente, a volte molto delicato e anche profondo. si parla di morte dal punto di vista dei vivi, nel senso che questo non è un film sul morire, è un film su chi resta, i parenti, gli amici, tutti quelli che lavorano con la morte, come pompe funebri e appunto tanatoesteti. molto belle alcune scene a metà tra la coreografia, il rituale e lo spettacolo di illusionismo dove vengono preparati i corpi dei morti, vestiti, puliti, truccati, con gesti molto eleganti. però la regia ha reso un film potenzialmente molto interessante in un film a volte cringe, spesso strappalacrime fino al fastidio (infatti ha vinto l’oscar, ricordiamo). ogni tanto, nelle parti migliori, sembra un anime, forse anche per la presenza delle musiche di Joe Hisaishi. però niente, la regia l’ha rovinato. secondo me era un film meraviglioso diretto da Kaurismaki. personaggio e attore migliore del film: l’impresario funebre, il vecchio Tsutomu Yamazaki, nome storico del cinema giapponese (diversi film con Kurosawa, ma in filmografia ha ovviamente anche un film con Miike).

La morte del signor Lazarescu (2005) – straziante dramma rumeno del regista Cristi Puiu, semplice e brutale, girato da Puiu con uno stile quasi documentaristico – oppure, è così che lo vedo io, uno dei più terrificanti horror dei primi anni 2000. in 153 minuti viene mostrata la solitudine, la vecchiaia, la malattia, il disfacimento del corpo e della mente, fino alla morte, anticipata nel titolo: queste sono le cose che fanno davvero paura. come in molti horror, c’è un mostro invisibile e indecifrabile – la malattia – e per tutto il film speri che il protagonista si salvi, ma sappiamo già che sarà impossibile. non è un dramma sulla morte, ma sul morire, che è molto peggio della morte. io l’ho vissuto davvero come un horror a tratti insostenibile. il povero signor Lazarescu, un disgraziato qualunque di bucarest, non particolarmente simpatico, col vizio del bere e con l’amore per i gatti, si sente male. dopo una prima meravigliosa parte girata interamente in due stanze del suo appartamento – lezione di regia di Puiu – parte il viaggio in ambulanza da un ospedale all’altro, tra medici stronzi, autoritari, cinici e arroganti, infermiere stronze o indifferenti, tutte cose che, ahimè, ho vissuto pure io praticamente tutte le volte che sono stato al pronto soccorso (in italia, non in romania). durante la notte le diagnosi del signor Lazarescu si accumulano, la situazione peggiora, ma viene sempre rimbalzato altrove: è un povero sfigato che non suscita simpatia a nessuno, tranne, forse, alla paramedica dell’ambulanza che è la prima ad averlo visitato in casa sua e poi ad averlo accompagnato nei vari ospedali. si capisce, ma dopotutto lo sappiamo fin dal titolo, che per lui non c’è speranza. si piscia addosso, si caga addosso, inizia a essere confuso, smette di parlare, è solo, impaurito, lentamente scompare e forse a nessuno dispiacerà. terribile. a parte l’aspetto horror sulla malattia e il morire, volendo è anche un film sul rapporto tra l’individuo e l’ospedale come istituzione, ma è sicuramente anche un film sulla vecchiaia, perché se il signor Lazarescu fosse stato un 16enne astemio è sicuro che sarebbe andata diversamente. lui viene considerato un morto già in vita – uno che può morire ed essere dimenticato e a nessuno importa. l’ultima volta che lo vediamo è in una stanza asettica dell’ospedale, completamente nudo e con la testa rasata, senza nessuno che lo conosca vicino a lui. nella categoria “film ambientati in una notte” è tra i migliori mai visti.

Blade Runner (1982) – intanto preciso la versione: la final cut, ovviamente. anzi, non è così ovvio. io sono tra i pochi matti che sostengono a) che il finale della final cut è il migliore, ma b) che anche il finale imposto dai produttori, quello che è andato al cinema, ha un suo fascino, anche se non ha senso con la storia del film. cosa dire di Blade Runner? intanto bisogna trattarlo come un film normale, perché è diventato talmente cult – dopo l’insuccesso iniziale – che è considerato più quello della citazione, della scena mitica, quasi fosse una parodia o un remake di se stesso. questo forse soprattutto in noi anziani che ce lo siamo sparati decine e decine di volte per tutta la vita e ce lo siamo sentiti citare a tradimento fin troppe volte, probabilmente chi è nato molto dopo – beati – non ha questo problema. però rivedendolo, al momento delle lacrime nella pioggia o del dio della biomeccanica, ho provato la sensazione che non stessi guardando il film, ma un meme o un best of delle scene su youtube. se ci si dimentica dell’aura di super cult capolavoro intoccabile, Blade Runner resta un grande noir fantascientifico cyberpunk con una confezione geniale. c’è chi dice che è solo confezione e che alla fine anche parlare di film filosofico è esagerato, e in parte, per certi versi, hanno anche ragione. la questione filosofica, che viene dal romanzo di Dick, in fondo è piuttosto semplice e non è così approfondita quanto si penserebbe. insomma non è paragonabile a film come 2001 o Solaris e Stalker di Tarkovskij (non ha quella densità metafisica), ma anche, a suo modo, perfino Metropolis di Lang. però il cinema per me è anche confezione, la filosofia vera di Blade Runner è una filosofia visiva: colori, pioggia, luci, neon, vestiti, fumo, tutti questi dettagli che compongono l’estetica di Blade Runner – e che influenzeranno quasi tutti i film successivi, di fantascienza ma non solo – sono proprio l’essenza del film. gli interni inspiegabilmente bui (è un film veramente oscuro), le grandi pubblicità simil-orientali, tutte queste cose che l’hanno reso celebre non sono “una buona confezione” per un film che non dice niente, ma sono proprio il film. e poi non è neanche vero che non dice niente, è solo un po’ superficiale, ma forse siamo noi che oggi siamo spettatori troppo sgamati – bisogna ricordarsi che è un film del 1982 tratto da un romanzo del 1968. parentesi su questo: la storia di Dick è molto più bizzarra, se l’avessero seguita al 100% sarebbe venuto fuori un film alla Terry Gilliam. sulla profondità: opere derivate da Blade Runner, come la serie Battlestar Galactica (parlo del remake anni 2000) vanno molto più in profondità sulla questione umano/replicante, ma non sarebbero esistite senza il film di Scott. insomma: per me resta un film grandioso, un miracolo dove le varie componenti (musiche di Vangelis, fotografia, scenografie, regia di Scott raffinata, estetica in generale) si combinano alla perfezione e tutto funziona. sull’impatto dell’estetica di questo film ho citato i film successivi, ma in realtà la realtà stessa a volte ci sembra influenzata da Blade Runner: quando vediamo una grande metropoli orientale, che ne so, Hong Kong, Mumbai, di notte, magari con la pioggia e i neon e la gente che mangia street food, probabilmente penseremo “sembra Blade Runner” (questo ovviamente anche perché era ispirato a quelle realtà, ma è sempre affascinante il corto circuito per cui la realtà sembra una copia dell’arte). ho aperto parlando del finale, chiudo parlando del finale: [forse spoiler?] per me loro due che se ne andavano via felici tra gli alberi di Shining, con la voce narrante che diceva che alla fine va tutto bene, era comunque un bel finale, e dimostra che non esiste un’unica soluzione creativa ma che anche cose accidentali – come un’imposizione della produzione – possono generare varianti interessanti. però è vero che il film così non ha un cazzo di senso, quindi il finale della final cut è perfetto, soprattutto perché, prima di aver visto il famoso e in parte minaccioso origami dell’unicorno (che come immagine quasi-finale ricorda la trottola di Inception), abbiamo visto la visione/sogno a occhi aperti di Harrison Ford di un unicorno, momento stranissimo nel film che assume un senso solo con il finale. c’è poi da dire che, dopo averlo visto mille volte, si diventa paranoici e si inizia a pensare in quale momento [ancora spoiler] il personaggio di Ford capisce la verità, o perlomeno ha dei dubbi, e secondo me avviene molto prima, quasi all’inizio. scena da decifrare e su cui si potrebbe parlare molto: il quasi stupro, quando lui sbatte lei contro il muro e le dice cosa dire: la tratta così perché lui è un umano e lei è solo un “lavoro in pelle”, quindi una macchina inferiore ma in realtà forse superiore agli umani e per questo da tenere a bada, oppure sa già – ehm, capito cosa – e si comporta comunque così? io avrei enfatizzato di più il razzismo verso i lavori in pelle, un po’ come quello verso i cylon in Battlestar Galactica, che appare assurdo proprio perché gli umani e i replicanti sono identici. tra l’altro, e ora chiudo, il film si può leggere anche in chiave anti-capitalista, dove la Tyrell è il capitalismo, i replicanti sono il nuovo sottoproletariato post-biologico, e la loro breve vita è il simbolo di una condizione precaria, sfruttata e sostituibile. ma loro si ribellano: non vogliono lavorare, vogliono vivere. proprio la semplicità e per certi versi l’ambiguità della storia quindi non è un difetto, perché apre il film a più letture (ad esempio è possibile anche un’interpretazione religiosa, ma ora basta ciao).

Beyond the Black Rainbow (2010) – [consigliato da WB] potenzialmente intrigante retro-fantascienza/horror molto psichedelica e sperimentale, che si ispira proprio al cinema sperimentale soprattutto anni ’70 (ma con suoni e musiche anni ’80) e sfocia quasi nella videoarte, tra cromatismi, filtri, effetti artigianali, grande impegno scenografico e storia semplice – anche se in parte incomprensibile – ma dilatata all’inverosimile. dire di cosa parla è quasi inutile, la parte che resta più impressa è l’esperienza visiva e sensoriale – è un film dove la forma prevale. il cattivo sembra venire dal cinema di genere italiano anni ’70 (così come molte altre scelte estetiche del film), ed è effettivamente inquietante e perturbante. ne apprezzo sicuramente l’ambizione e il tentativo di fare qualcosa di diverso, ma devo dire che è un film estremamente noioso. non lo dico praticamente mai di nessun film, l’ultima volta forse è stata 10 anni fa con un film marvel, ma è una visione quasi estenuante, dura meno di due ore ma sembra un film di Lav Diaz (ma magari!). un po’ buffo il finale, soprattutto la morte del cattivo, forse volutamente ridicola, o forse no. il regista, Panos Cosmatos, un po’ di anni dopo girerà Mandy, quello con Nicholas Cage, che non ho visto ma credo sia più interessante e sopportabile di questo. vedo che molti lo esaltano come un cult assoluto per le immagini bellissime, ma io sinceramente non concepisco il cinema come una collezione di belle immagini. quindi felice che ci sia chi esplora altre forme di fare cinema, ma io ho davvero faticato a finirlo (comunque meglio dei peggiori marvel, questo sia chiaro).

All We Imagine As Light (2024) – ah, per me bellissimo questo film della regista indiana Payal Kapadiya. sottolineo “regista” e “indiana” perché, diciamo la verità, non capita spesso di vedere cinema realizzato da donne indiane, oltretutto sotto i 40 anni, anche se in realtà ce ne sono varie. questo film dimostra ancora una volta che la storia conta fino a un certo punto, perché in questo film è davvero esile, si può dire che quasi non succede niente. si entra in una situazione, in un mondo, cioè nella vita di tre donne che lavorano in un ospedale. a una è scomparso il marito (non nel senso di morto, non si fa proprio più sentire), una ha una storia d’amore apparentemente impossibile, un’altra perde la casa e deve trasferirsi. il tutto a mumbai, perennemente notturna e piovosa, molto blu, fatta di migliaia di persone per strada e treni. ci sono immagini stupende, l’atmosfera generale rimane addosso allo spettatore e di una “storia” te ne freghi proprio, quello che conta è lo sguardo della regista. c’è una delle più riuscite e semplici scene di sesso viste recentemente. come sappiamo sono scene quasi sempre o brutte o cringe, questa invece è proprio bella, ben girata, e con una scelta musicale raffinata (il chitarrista haitiano Frantz Casseus). oltre alle scontate influenze del grande cinema indiano – anche se in India il film è stato accusato di essere troppo europeo – io ho trovato anche un po’ di cose alla Wong Kar-wai, che però io vedo praticamente ovunque, anche e soprattutto quando chiudo gli occhi, quindi chissà. però secondo me ci sta: a parte le atmosfere metropolitane notturne, anche i vari amori impossibili – quasi tutti i film di Wong Kar-wai sono sull’amore impossibile – fanno pensare a quel cinema (l’assenza del marito della protagonista, il suo rifiuto verso il dottore poeta, la relazione tra la collega e un giovane musulmano, e così via). c’è una scena veramente molto bella: quella del recupero di un uomo dal mare, salvato dall’infermiera, che poi si trasforma nel marito. il titolo originale (All We Imagine As Light) è misterioso, non so a cosa alluda, quindi i titolisti italiani hanno risolto titolando il film “Amore a Mumbai”, un po’ in stile “Se mi lasci ti cancello”, però devo dire che alla fine ci può stare.

Brain Damage (1988) – simbiosi, droghe, sessualità disturbante, body horror, mostri. ci sono tutti gli ingredienti dei film di Frank Henenlotter, da Basket Case in poi. questo è uno di quei tipici film anni ’80 con mostricciatoli, sangue, scene assurde e un po’ di ironia. però, dietro l’apparente semplicità e un intrattenimento weird, è anche un potente film sulla tossicodipendenza. perché la situazione è questa: il protagonista entra in simbiosi con una specie di grosso verme parlante – che ricorda a volte un pene, a volte Mr. Hankey, lo stronzo natalizio di South Park – che si nutre di cervelli. in questa simbiosi, in realtà a tratti più sbilanciata in una forma di parassitismo, l’ospite umano ha in cambio delle iniezioni nel cervello di una sostanza allucinogena. quando arriva la botta (si vede proprio un ago uscire dal vermone) il protagonista vede il mondo più colorato, sembra che i suoi recettori del piacere vadano a 1000, sente di più le cose, in pratica è completamente sballato. ovviamente la situazione degenera. ma che si parli di droga è evidente: significativa la scena in cui il protagonista tenta di interrompere la simbiosi e ha una forte crisi di astinenza che allude chiaramente a quella da eroina (anche se la droga sembra più uno psichedelico). è un film che ha nel suo eccesso il suo punto di forza. ad esempio il vermone in sè poteva essere ridicolo, e invece miracolosamente funziona. oppure, la celebre scena del pompino poteva risultare totalmente trash, e invece è bella ed estrema (mi viene in mente un altro caso simile, la scena del pompino di Killer Joe di Friedkin). il personaggio del vermone poi non è un semplice mostricciatolo: ha un suo carattere, ed è anche convincente in quanto droga che ti ammalia, si presenta come amica, come necessaria, e poi ti prende completamente sotto il suo controllo. forse la mia scena preferita però è la prima scena psichedelica, quando il protagonista entra in uno sfasciacarrozze e si esalta vedendo le carcasse delle auto coloratissime e brillanti e inizia a correre tra le lamiere totalmente euforico. a parte il discorso sulla tossicodipendenza, nel film è centrale anche il sesso. come già detto, il vermone è un simbolo fallico, ma forma a parte, è anche seduttivo, il rapporto simbiotico tra i due è anche un rapporto sessuale. quando il protagonista si fa penetrare dall”ago” sembra avere forti orgasmi. l’interazione tra i due è una forma di rapporto sessuale simbolico. dopotutto, se una sostanza che dà molto piacere avesse un corpo, non si instaurerebbe inevitalmente un rapporto di quel tipo? il protagonista, dopo le botte estreme di piacere, si sente quasi sempre colpevole o spaventato, e in più, da quando incontra il vermone, mostra totale disinteresse per la sua fidanzata ma anche per altre ragazze: forse è un omosessuale latente? va detto anche che nel 1988 si parlava tantissimo di AIDS, quindi l’idea del sesso (e forse dell’omosessualità) come qualcosa di pericoloso era presente in molti film del periodo. insomma un film matto e delizioso, di quelli che si facevano in quel periodo, con budget bassi, effetti speciali, sangue e idee weird.

I soliti sospetti (1995) – quando ero ragazzino questo era uno di quei film che si guardavano decine di volte, cult istantaneo. forse oggi è meno considerato, e il regista Bryan Singer non ha mai più fatto niente di interessante, ma questo cupo thriller neo-noir all’epoca fu fulminante, molto più del più famoso Seven, per dire (che è dello stesso anno). una storia intricatissima di criminali, un grande misterioso personaggio che non si vede mai, Kaiser Soze, e un finale che non si può dire ma che dà un senso al tutto. è un cinema sull’inganno del cinema, si può dire che è un film sul cinema, ma anche sulla parola come strumento di manipolazione e sull’invisibilità del potere reale. per tre quarti del film assistiamo a un noir ben fatto, ma niente di più. luci basse, dialoghi cinici, con le battute da criminali machi (anche se… lo dico dopo), ma poi il tutto assume un altro significato e viene voglia di rivedere il film dall’inizio. ecco, a differenza di molte opere basate su un forte colpo di scena, questa è una di quelle che non solo puoi riguardare, ma anzi forse te la godi di più alla seconda, terza o quarta visione. è possibile anche una lettura omoerotica del film: il personaggio di Spacey adora in maniera ossessiva Keaton, non ci sono mai donne e l’unica che appare non è sicuramente l’oggetto del desiderio di nessuno, il cameratismo criminale di questo gruppo di uomini sembra avere spesso una strana – e non so quanto voluta – tensione sessuale, si veda ad esempio la relazione tra Baldwin e Benicio Del Toro. nulla viene detto, nulla è esplicito, ma molte scene hanno quel sapore. va detto che forse è meno straordinario di come lo percepivamo all’epoca – ma è perché ci sembrava veramente tipo il film più bello del mondo – ma resta un grande film, uno di quelli basati sulla sceneggiatura e sugli attori. è anche uno di quei film che hanno consacrato Spacey alla figura del personaggio un po’ inquietante e un po’ squallido, ed era decisamente efficace. se vi state chiedendo che fine ha fatto Spacey dopo la questione delle molestie sessuali: beh, totalmente a sorpresa nel 2022 è apparso in un film diretto e interpretato da Franco Nero.

Apocalypse Domani (1980) – film che sfrutta il successo di ben due film, Apocalypse Now e Cannibal Holocaust (infatti l’altro titolo è Cannibal Apocalypse), ed è un remix di entrambi. inizia con la guerra del Vietnam, poi ci sono i soldati che tornano a casa e sono diventati dei pericolosi cannibali. siamo anche in zona Rambo, in un certo senso, che però è successivo. è famoso perché è un esempio di vetsploitation, cioè i film di genere ispirati alla guerra del Vietnam. quindi parte come un film di guerra, poi diventa un thriller/horror/cannibale. non ho idea del perché ma è stato rivalutato e pare sia considerato un cult da molti. boh, non è niente di più, anzi forse meno, rispetto a film di Fulci, Bava, Lenzi, Deodato di qualche anno prima o dopo, giusto per fare dei nomi. è un film mediocre, lo dico subito. l’idea dei soldati traumatizzati dalla guerra visti come malati cannibali era potenzialmente interessante, ma il film, anche come regia, è al livello dei telefilm di quel periodo. fatto divertente: il protagonista John Saxon pensava fosse un film serio e che il virus cannibale da portare a casa dalla guerra fosse una bella metafora, non aveva capito che il film era davvero così. quindi pare che ci restò malissimo e tentò di scappare dalla produzione, ma alla fine è rimasto. c’è anche Giovanni Lombardo Radice, attore molto presente nei film di genere. da qualche parte c’è scritto che è uno dei film preferiti di Tarantino, anche se non trovo una fonte precisa, e comunque a Tarantino piace tanta merda. di sicuro il regista, il mitico Antonio Margheriti, ha fatto di meglio. in tema di soldati cannibali invece consiglio un vero cult, un bellissimo, sottovalutato e credo dimenticato film del 1999 di Antonia Bird, “L’Insaziabile”, veramente una perla.

Apocalypse Now (1979) – altro classico nella lista del gruppo cinema del collettivo e quindi l’ho rivisto per l’ennesima volta, nella versione redux, quella considerata troppo lunga perfino da Coppola, che io invece trovo bella, più dilatata, rarefatta, con accellerate deliranti, come certe droghe che per un po’ ti lasciano tranquillo, magari anche rilassato, ma in uno strano stato di inquietudine perché sai che ogni tanto arrivano allucinazioni e tachicardia. Apocalypse Now dopotutto è questo: la guerra come bad trip, una discesa nella parte oscura del nostro mondo interiore, vita e morte allo stesso tempo. di certe scene ci si chiede ancora oggi com’è stato possibile farle, ci sono intere sequenze impossibili, tra le più belle e assurde viste al cinema. soprattutto in questa versione restaurata si nota l’importanza della fotografia di Storaro, che secondo me fa metà film. mi verrebbe da fare la lista delle mie sequenze preferite ma praticamente descriverei quasi tutto il film. se dovessi dirne una forse farei una scelta perfino banale, ovvero quella celeberrima del surf tra il napalm e le bombe. tutta quella parte è folle. film riuscito anche perché è spettacolare ma non spettacolarizza la guerra, non la rende qualcosa di cool, e il rischio c’era. è un cinema selvaggio, come Aguirre, e dopotutto anche lì c’era la discesa di un fiume. come recensione valga questo: una volta dicevo che, pur avendone visto penso un milione, a me nessun film ha cambiato la vita, e un mio caro amico ha detto “a me uno invece sì: quando ho visto Apocalypse Now ho deciso di diventare un chirurgo” – ed è diventato un chirurgo.

L’umanoide (1979) – una delle versioni italiane di Star Wars, o come lo chiamavamo prima, Guerre Stellari, con la regia di Aldo Lado. il plagio più evidente è nella figura di Lord Graal, identico a Darth Vader. vari riferimenti, oltre che a Star Wars, ad altri classici della fantascienza, ma anche a Frankenstein, però la storia è diversa. la figura degli Jedi è rappresentata da un bambino tibetano (sì, davvero) molto gentile, in parte un po’ inquietante, con grandi poteri mistici. ci sono i laser, le navicelle, c’è il droide, qua un perturbante cane con un’antenna al posto della coda, che ricorda certi giocattoli anni ’80 ma che possiamo considerare un precursore dei cani robot della boston dynamics. non solo: anche l’idea di un esercito di umanoidi ricorda e anticipa l’esercito di cloni di Star Wars episodio II. molte scene sono totalmente da b-movie, questo è chiaro, anche se altre invece no, anche per quanto riguarda gli effetti speciali (curati anche da Antonio Margheriti), a volte più che decenti, a volte decisamente cringe. la parte più bella sono le scene in esterni, bei paesaggi, belle architetture. c’è anche Richard Kiel, cioè lo Squalo dei film di 007, e la colonna sonora è inaspettatamente di Morricone. da molti è considerata brutta, invece a me è piaciuta. l’ho guardato pensando di essere in un universo in cui questo è Star Wars l’originale, e quello di Lucas è una copia. memorabile il finale, in cui in pochi istanti cambia la luce 54 volte, come se tutti i personaggi fossero in posti diversi, uno sotto la luce del tardo mattino, uno col tramonto, uno al crepuscolo, e così via: ogni inquadratura è un momento diverso. sono quegli errori che in realtà rendono belle e sperimentali certe scene. comunque l’anno prima c’era già stata un’altra copia di Star Wars, ovvero Starcrash – Scontri stellari oltre la terza dimensione. ma ci sarebbe anche Dünyayı Kurtaran Adam, di qualche anno dopo, considerato “lo Star Wars turco”, in realtà remix di decine di film.

Un’occasione da Dio (2015) – è considerato un film super minore, anche perché – come allude anche il titolo italiano – ricorda molto Una settimana da Dio (va detto che entrambi i titoli sono invenzioni italiane), anche se l’autore Terry Jones – sì, quello dei Monty Python – pare l’avesse concepito molto prima, negli anni ’90. insomma: ci sono questi alieni potentissimi che vogliono distruggere la Terra, ma si dicono “no, prima diamo una possibilità agli umani, diamo il potere assoluto a uno di loro a caso e vediamo se si comporta bene”. l’umano che riceve questo potere incredibile, cioè di poter fare qualsiasi cosa pensi semplicemente muovendo la mano, è ovviamente Simon Pegg, perché questa è una commedia inglese, e quindi c’è Simon Pegg che fa il personaggio stile Simon Pegg. e cosa vuole fare con tutto questo potere? non lo sa bene, ovviamente fa un sacco di cazzate, e ci sono tutta una serie di gag, alcune prevedibili, altre invece bizzarre e divertenti, ma siccome è anche una commedia sentimentale (genere che io amo profondamente, uno dei miei fetish da sempre) decide di usare il suo potere per scoparsi la vicina di casa. il personaggio di lei è totalmente inutile, è come se quando hanno scritto la sceneggiatura l’avessero saltato e al posto suo ci fossero pagine bianche. non è interessante, anzi è proprio noiosa, e curiosamente l’attrice è la stessa di un altro film simile, per alcuni un vero e proprio cult, ovvero Cambia la tua vita con un click con Adam Sandler. quindi, nonostante il gusto british e bizzarro di Terry Jones, il film è divertentino ma un po’ derivativo e prevedibile, però assolutamente da non sottovalutare. elenco le cose che mi sono piaciute di più in ordine di gradimento: 1) il cane che parla, il vero protagonista del film, è adorabile, imprevedibile, divertente (nell’originale doppiato da Robin Williams, ultimo film dove appare, anche se solo con la voce), 2) la sottotrama del collega di Simon Pegg che gli chiede di essere adorato da una sua collega, solo che man mano che il film va avanti questa adorazione si trasforma in una forma pericolosa e inquietante di fanatismo religioso, 3) la rappresentazione dei cosiddetti Stati Uniti, qui presenti con un meraviglioso ed eccessivo personaggio di soldato stalker, totalmente psicopatico e idiota, un vero e proprio coglione: difficilissimo vedere un personaggio così in un film americano, 4) beh in realtà è una delle cose che mi sono piaciute di più ma la sto mettendo all’ultimo posto, ho sbagliato, e cioè il finale, in cui Simon Pegg, non riuscendo a gestire questo potere, decide di rinunciare e lo passa al suo cane, ma il cane ci pensa solo un attimo e decide di “distruggere la fonte del potere”. praticamente un cane anarchico. attenzione: non è che semplicemente rinuncia al potere, decide proprio di andare alla radice e distruggere il potere. il film non dice solo che il potere è sbagliato, ma che il potere individuale è inutile: il personaggio di Simon Pegg, quando tenta di fare cose che pensa siano giuste, scopre che è impossibile, perché le persone non possono cambiare le cose da sole. si può dire che questo film è soprattuto un discorso sul potere ma anche sul relativismo etico. infatti, colpo di scena, quando noi sentiamo gli alieni all’inizio dire “vediamo come si comporta l’umano”, diamo per scontato che intendano che lui debba comportarsi bene, aiutare le persone, far finire le guerre, cose così, ma loro hanno totalmente altri valori e anzi intendevano che Simon Pegg doveva essere stronzo, distruggere, annientare, e “non essere debole”. quindi avrebbero salvato la Terra solo se gli umani avessero dimostrato di essere degli stronzi, e ci sono andati vicino perché prima di scegliere il medio-man Simon Pegg stavano per scegliere casualmente, senza sapere chi fosse, la terrificante fascista americana Sarah Palin. ah, fa ridere anche la gag del conto alla rovescia degli alieni, devono dire solo 1, 2, 3 ma nella loro lingua i numeri sono parole infinite e quindi ci mettono mezz’ora. è un film che è stato già dimenticato, credo subito dopo l’uscita o forse già durante, e che invece, fosse ancora più bizzarro e con due protagonisti (Simon Pegg e la vicina di casa) più originali e interessanti, sarebbe potuto essere un piccolo cult. io alla fine lo ricorderò per il cane.

Monkey Man (2024) – [consigliato da RB] dico la verità: non mi aspettavo molto dal primo film dell’attore Dev Patel, è stata una sorpresa (fino a un certo punto, visto che mi era stato consigliato). un film un po’ derivativo (ma non è un problema), scritto, diretto e interpretato da Patel, tra l’altro con un budget relativamente basso per il genere, per il quale – almeno in parte – forse vale il discorso di Umberto Eco su Casablanca: è tanti film, è un’antologia, è un accumulo di clichè, ma due clichè fanno ridere, cento commuovono. qua capita qualcosa di simile. il personaggio è evidentemente basato su John Wick (citato in una battuta) e le scene d’azione su vari film orientali, ma il film è più interessante di John Wick. sicuramente è più violento. anche nelle scene più stilizzate, la violenza è brutale, realistica, piena di sangue e caotica. il punto è che l’accumulo di clichè non è per forza un difetto, anzi, il film trae la sua originalità proprio da questo, dall’accumulo, dall’eccesso. mi piace proprio perché è un film eccessivo. è come se Patel avesse pensato: quali scene tipiche dei film d’azione e dei film di vendetta dove la gente si mena potrei mettere? e si fosse risposto: tutte. quindi il protagonista, lo stesso Patel, combatte nelle classiche cucine dei ristoranti, usando coltelli, piatti, vassoi, poi nell’ascensore, dentro a un bordello, in un night club, dentro una macchina della polizia, per strada, e ovviamente anche sul ring. c’è anche la parte di montaggio dove si allena duramente, anche questo clichè, o archetipo, anche se reso originale dal contesto, cioè un tempio di transgender indiani, gli Hijra, che esistono davvero e sono i personaggi più interessanti. la storia, di base, è quella di una rivalsa, anzi di una vendetta, che ha il sapore di un conflitto sociale. lui stesso parlando dei potenti dice “non ci vedono nemmeno” e in quel momento noi vediamo brevemente delle persone che dormono per terra. attenzione, però: il fatto che non ci vedano è anche un vantaggio strategico, perché possiamo colpirli senza che se ne accorgano. quindi ci si mena, ma si parla di oppressi, disuguaglianze, ultra-nazionalismo, territori occupati, sbirri al servizio di un potere religioso, anche se il protagonista secondo me è solo per metà un eroe sociale – che si introduce nei territori del potere e scala letteralmente il palazzo ammazzando tutti fino ai due boss finali in cima – perché per l’altra metà il suo è un percorso individuale, di uno che di fatto vuole vendicare la mamma morta. solo a un certo punto, con varie alleanze, ma soprattutto quella fondamentale con i trans guerrieri (epica la scena della loro irruzione nel night club) diventa un conflitto collettivo – viene anche detto, mi pare, qualcosa tipo “adesso devi lottare per tutti noi”. è come un John Wick povero, indiano e radicalizzato. anche per la regia e la fotografia Patel ha scelto la strada dell’eccesso. ha messo dentro tutte le idee che possono venire in mente, tutte assieme, in una regia barocca, energica, selvaggia e iper dinamica, che dà il suo meglio proprio nelle scene di violenza. l’idea di Patel sembra essere stata: facciamo che questo tizio lotta per qualcosa di serio (anche se, ripeto, principalmente lo fa per la mamma morta – ma anche per tutti quelli del suo villaggio), e lo fa veramente, brutalmente, “con ogni mezzo necessario” per citare Malcolm X, quindi con tutto quello che trova, coltelli, pistole (poche, nel film: lui ne usa una sola, sfigata, e sbaglia pure), pugni, calci, testate, vari oggetti appuntiti, anche una scarpa col tacco, tutto. anche le strategie usate dal protagonista per arrivare a colpire il potere sono molteplici: spia, mente, lavora sotto copertura, si infiltra, osserva, si maschera, pianifica, stringe alleanze, prende la droga, e poi principalmente mena di brutto. un piccolo dettaglio che ho apprezzato è che a un certo punto, contro lo sbirro cattivissimo e i suoi sgherri, vengano usati i fuochi d’artificio, come succede veramente in molti scontri con la polizia in giro per il mondo. su questo va detto anche che è un film dove il protagonista – percepito dallo spettatore come buono e giusto – ammazza diversi poliziotti senza tanti dubbi. così, una constatazione. su tutto l’aspetto religioso non ho capito molto, non sapendone praticamente un cazzo, ma forse lui è tipo la personificazione della divinità induista Hanuman, non so, forse sapendo qualcosa di più si apprezza meglio il film. scena significativa: quando la capa gli chiede il curriculum e lui dice “questo è il mio curriculum” mostrando la mano aperta ustionata.

Ghost Dog – Il codice del samurai (1999) – uno dei miei film preferiti della fine degli anni ’90, l’avrò visto 50 volte e oggi me lo sono rivisto: è ancora bello. un film di gangster secondo Jarmusch, quindi un bizzarro noir-western con mafiosi super balordi e un samurai metropolitano afroamericano che ascolta hip-hop (fondamentale la colonna sonora di RZA). prende ispirazione da Le samouraï di Melville e ha una bellissima citazione di quel film matto che è La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki, e per certe cose mi ricorda anche Brother di Kitano (film sottovalutato) che però è dell’anno successivo quindi non c’entra niente. Forest Whitaker ha fatto tanti film e ha una presenza stupenda, ma io alla fine, per affetto, lo associo principalmente a questo film. atmosfera stupenda, è pieno di scene epiche. non saprei nemmeno da dove iniziare. il mafioso sparato attraverso il lavandino è una scena che avrebbe voluto girare Tarantino, secondo me. ma poi la scena dell’orso, quello scambio tra Ghost Dog e i cacciatori razzisti è memorabile. così come quando un mafioso uccide una sbirra e l’altro gli dice “ma hai ucciso una donna!” e lui dice “no, ho ucciso un poliziotto. hanno voluto l’uguaglianza, io gliel’ho data”. poi la barca sul tetto, i piccioni, l’amico haitiano che parla solo francese, le citazioni tratte dall’Hagakure che compaiono decine di volte a dare uno strano senso agli accadimenti del film. qualche anno prima Jarmusch aveva fatto un’operazione simile con Dead Man, western eccentrico. questi due, assieme a Solo gli amanti sopravvivono, sono i suoi film che preferisco.

Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) – se avete voglia di un film d’azione veloce, spettacolare e divertente, consiglio questo grandioso film di Chantal Akerman. sono 3 ore e 20 di una casalinga che fa le faccende di casa (e si prostituisce). si sposta da una stanza all’altra, accende la luce, spegne la luce. in quanti film americani le persone entrano in casa e la luce è già accesa? qua no, viene spenta o accesa centinaia di volte, costruisce il film, dà ritmo al film. lei prepara le patate, si fa la doccia, prepara il caffè, pulisce, va alle poste. sono tre giorni circa nella sua vita. riprese lunghe, su tutti quei dettagli che normalmente nei film vengono evitati. qua sono il film stesso, e non l’ho trovato per niente noioso, ma anzi stranamente ipnotico. ci obbliga a un tipo di sguardo completamente diverso da quello che il cinema era (e che sarà anche dopo, in larga parte). le scene più belle secondo me sono quando la protagonista è semplicemente seduta in silenzio a fissare il vuoto. tu spettatore fissi l’immagine per un minuto o più e ti chiedi a cosa sta pensando. è triste? è sola? sta pensando a cosa preparare per cena? sta pensando alla morte? sono gli unici momenti in cui lei non si distrae occupandosi in maniera sistematica di qualcos’altro o di qualcun altro (ad esempio di suo figlio). quasi mai guardando un film mi chiedo a costa sta pensando un personaggio, o perché non me ne frega niente, o perché viene detto o fatto capire. qua invece me lo sono chiesto davvero. colpisce questa profondità di sguardo e questa sicurezza e originalità nella regia da parte di una regista 25enne, davvero notevole. in molte analisi del film si insiste sulla routine della protagonista, pettinarsi, aprire la finestra, rifare il letto, preparare le patate, spazzolare le scarpe del figlio, e così via, definendola a volte alienante o comunque opprimente, ma a me sembra che la parte peggiore della sua giornata sia la prostituzione. lei ogni giorno, per soldi, riceve uomini sconosciuti e non particolarmente piacevoli. se dovessi fare questo ogni giorno penso che pelare le patate in silenzio in cucina sarebbe il meno, anzi, forse sarebbe perfino rilassante e la routine mi servirebbe ad avere un minimo di stabilità in una vita infernale, mi darebbe un’illusione di controllo. Jeanne principalmente non ha amore nella sua vita. è quasi sempre sola, il marito è morto anni prima, e lei cerca amore o quantomeno vicinanza con altri esseri umani in più modi: quando va nei negozi, ma le conversazioni sono brevi ed è impossibile avere una vera relazione (la negoziante dei bottoni, con la quale Jeanne si apre, nemmeno l’ascolta, resta in silenzio e le risponde parlando di bottoni), il figlio, con il quale di sicuro non ha un rapporto soddisfacente, perfino il bambino della vicina, che ogni tanto tiene, e in questo senso è indicativa la scena in cui Jeanne prende più volte in braccio il bambino e ogni volta questo scoppia a piangere. l’unica volta che sembra provare piacere per qualcosa [spoiler] è durante l’amplesso con uno dei clienti, una scena triste, un amplesso che non sembra esattamente qualcosa di piacevole, eppure lei prova piacere, proprio in quella situazione, proprio dove non avrebbe voluto, e la conseguenza – abbastanza casuale, cioè le forbici dimenticate sul mobile, simbolo della sua routine ormai rotta – sembra inevitabile [/spoiler]. sembra l’unico modo per lei di uscire da questa situazione, cioè la sua stessa vita, ma sul senso che lei dà a questo gesto il film resta intelligentemente ambiguo, non dà risposte, solo la sua enigmatica reazione, una lunghissima sequenza di lei seduta al buio e ancora una volta, non sappiamo a cosa sta pensando. credo che solo in un film così una scena come una donna che si dimentica di allacciare un bottone diventi un evento significativo. non è solo la rottura della routine o un colpo di scena: è proprio un crollo strutturale: qualcosa si è spezzato, non c’è più controllo. interessante l’analisi di un amico, che mi faceva notare la passività/frustrazione dello spettatore di fronte a un film così, soprattutto dello spettatore maschio, che diventa “l’archetipo del marito o dell’uomo nel 1975, assente, che non contribuisce alla casa e sta sulla poltrona a non fare nulla. Quindi la noia ci distrae mentre lo schermo ci impedisce di rompere la quarta parete ed interagire con lei direttamente, forzandoci in questo ruolo di uomo inattivo e diventando parte del mondo e del problema che il film affronta”. questo è sicuramente vero, e il cinema è tutto così, lo spettatore è sempre passivo: vediamo un assassino che sta per uccidere un bambino e non possiamo fare altro che guardare – si può dire che siamo passivi, o che siamo dei testimoni silenziosi. certo, non abbiamo fatto nulla, ma siamo stati testimoni, e il nostro ruolo in questo senso può essere importante. però, ovviamente ognuno la vede come vuole, io non ho provato la sensazione “qualcuno dovrebbe aiutarla nelle faccende di casa”, perché, ripeto, quella mi sembra la routine alla quale lei è ancorata per sopportare una vita che non le piace – anzi che le fa proprio schifo, credo. quindi, guardando il film, più che aiutarla a sbucciare le patate, avrei voluto abbracciarla, ascoltarla, parlarci, stare in sua compagnia, andare al cafè con lei, perché quello che le manca davvero è empatia, vicinanza, intimità. è anche un film asmr, perché si parla pochissimo in tre ore e 20 ma ci sono molti suoni – suoni di cose minime, passi, interruttori della luce, bicchieri che vengono appoggiati, macchine in lontananza, e poi il mio preferito, il rumore della carta piegata o accartocciata, che nei film degli anni ’60/70 era più bello della realtà. detto ciò, una precisazione: nel 2020 questo film è finito in cima alla classifica del British Film Institute dei migliori film della storia del cinema, superando Quarto potere, Vertigo, ecc. molti hanno pensato: ah, woke!, è una moda, ma che cazzo è questo film, classifica orrenda! allora, a parte che le classifiche esistono apposta per essere discusse e per diffondere film che si vogliono diffondere, in realtà, oltre ad essere noto ai cinefili da sempre, Jeanne Dielman era considerato una svolta per il cinema già molti anni fa, sia da critici ma anche da registi che si dicevano profondamente influenzati dall’opera di Akerman. la classifica del British Film Institute l’ha reso più noto ed è stata una dichiarazione d’intenti, visto che è la prima volta che c’è una regista donna così in alto (ed è interessante anche che i primi due film della classifica siano entrambi di due 25enni). è un film femminista? di sicuro è un film scritto e diretto da una donna, che rappresenta una donna in modo molto diverso da come faceva la maggior parte dei film, e realizzato da una troupe di donne. ma è riduttivo renderlo “importante” per questi motivi, per me è un film interessante e rivoluzionario per il linguaggio cinematografico. comunque Chantal Akerman ha fatto anche altri film da vedere, che infatti ho scaricato. concludo il papiro con una mia piccola ossessione: siccome Akerman era ebrea, ovunque si parla del suo rapporto profondo e complesso con l’ebraismo e quindi – sembra quasi inevitabile – con Israele, dove ha girato anche uno strano documentario artistico dal mood esistenziale-filosofico, se ho capito bene, durante un periodo passato a Tel Aviv. però, andando a cercare bene, ho trovato questa dichiarazione in un’intervista su Dérives (traduzione dal francese, non garantisco perfezione): “E io amo Israele, anche se è un altro esilio. Un esilio in più. Spesso mi ci sento bene, anche se non sono d’accordo con il governo. Anche se so che per far esistere Israele è stato necessario far come gli altri popoli. Far scorrere sangue, e prendere terre”.

Il robot selvaggio (2024) – film Dreamworks che sembra un film Disney e infatti è realizzato da un ex Disney. la situazione, va detto, è bellissima: un robot avanzatissimo e intelligente che finisce su un’isola remota e selvaggia popolata da varie specie di animali e inizia a vivere con loro. chiarissimi i riferimenti iniziali a tantissimi classici del cinema di animazione e non solo, ma il film è comunque qualcosa di originale. soprattutto il percorso genitoriale del robot che diventa sorprendentemente la mamma di un piccolo di oca – piccolo e con ali piccole, è evidentemente un figlio disabile – ma anche la convivenza e la cooperazione kropotkiniana interspecie, sono divertenti e politicamente interessanti. certe scene sono volutamente impossibili, come quella delle tempesta di neve dove tutti gli animali dell’isola, predatori e predati, stanno tutti insieme (beh, non così completamente assurdo: durante gli incendi in Australia, ma anche nei cosiddetti Stati Uniti, diverse specie di animali trovavano rifugio nelle stesse tane). bello anche l’oca che diventa un po’ un robot e il robot che diventa un po’ un animale. il film però ha numerosi difetti: a parte le canzoni di merda, purtroppo obbligatorie in questi film, a un certo punto c’è un’insistenza assurda sulla leva emotiva e commovente. per carità, una grande scena tragica o commovente va benissimo, ma 18 scene così di seguito è accanimento, furbizia, paraculata – ma ammetto di essermi commosso. mi sembra che il film sia davvero rovinato, sopratutto nell’ultima parte, da questa esagerazione di momenti patetici o commoventi. in tema di animazione con animali sicuramente è superiore l’incredibile Flow di Gints Zilbalodis, dello stesso anno.

1990 – I guerrieri del Bronx (1982) – beh, mica vivo solo di film di Cannes. dopotutto il cinema è anche questo. facciamo così: immaginate di essere in un albergo economico, di quelli grandi e piacevolmente alienanti, con recensioni negative e arredamento antiquato. è notte fonda, non riuscite a dormire, l’aria condizionata è rotta ma vi hanno dato un ventilatore, promettendovi uno sconto. la stanza è illuminata dalla tv accesa. finite su uno di quei misteriosi canali privati dal nome qualunque, e inizia questo film. restate colpiti dalla musica e dai titoli di testa che mostrano delle strane armi. si capisce subito che è un b-movie e che il budget non è alto, pensate che vi addormenterete, ma alla fine lo guardate tutto. di Castellari non ricordo molto, è stato rivalutato come tutti i registi di genere italiani, ma io non credo di aver mai visto un suo film che mi sia piaciuto. ammetto che non erano male Keoma e Quel maledetto treno blindato, ma il resto boh. questo film appartiene al filone delle copie italiane di film di successo americani – in quel periodo il regista aveva già fatto ben due film ispirati a Lo squalo. questo invece è un mix tra I guerrieri della notte, 1997: fuga da New York e anche un po’ Interceptor – Il guerriero della strada (Mad Max 2), anzi più che un mix direi un remix, com’erano spesso questo genere di film, il che li rende vagamente interessanti. sono come delle versioni bizzarre di film di successo provenienti da realtà parallele. Castellari ci prova anche, con la regia, ma sceneggiatura e attori non aiutano. gli esterni sono realmente girati nel Bronx e si vedono spesso le torri gemelle. qualche motivo di fascino c’è. ad esempio la scena del batterista che commenta con un assolo l’incontro tra due bande, un esempio di musica diegetica surreale che mi ha ricordato alcune scene di Birdman o il chitarrista di Mad Max: Fury Road. oppure i teschi luminosi sulle moto della banda dei bikers. o la scena finale con i lanciafiamme. ma sopratutto il protagonista, Mark Gregory, dalla postura e dalle movenze bizzarre, in qualche modo magnetico nella sua non-recitazione e nel modo inspiegabile di muoversi. questo era il suo esordio, era realmente un giovane biker, poi farà una trilogia copia italiana di Rambo e altri film simili (per poi fare il madonnaro). sono film che i maschi italiani di una certa generazione guardavano al cinema ma soprattutto credo in tv o in vhs e che magari ricordano con un certo affetto, li mitizzano, li collezionano. io credo che registi come Castellari e molti altri “artigiani” (termine a volte usato in modo dispregiativo) non hanno quasi mai avuto buone sceneggiature, buoni attori, buoni produttori e budget all’altezza delle scene che dovevano girare, quindi si sono spesso arrangiati, e quanto erano bravi o no non lo sapremo mai, perché quasi mai ci sono state le condizioni perché il loro ipotetico talento si potesse manifestare: a volte, almeno per qualcuno, questo talento è venuto fuori comunque, nonostante condizioni disastrose, perfino in film che nemmeno loro volevano girare. ma più spesso si tratta di film dimenticabili, sicuramente affascinanti perché un po’ bizzarri. ah, il protagonista si chiama Trash, spazzatura, e lo sceneggiatore è Sacchetti, lo stesso dei film di Er Monnezza, quindi forse c’è un misterioso collegamento, chissà. in tema, è interessante una risposta che dà lo stesso Sacchetti, che ha scritto un casino di film di genere amatissimi, a una domanda sulla sua passione per i generi: “Non mi sono occupato dei generi, ma delle bollette da pagare. Scrivevo per sopravvivere e sceneggiavo qualsiasi cosa mi chiedessero, avrei sceneggiato anche l’elenco del telefono se mi avessero pagato”.

Grand Tour (2024) – ecco, c’è anche questo modo di fare il cinema. Gomes ha girato decine di ore di materiale in giro praticamente in tutta l’asia, immagini bellissime, momenti qualunque, scene di strada, poi ha girato in teatri di posa (anche a Roma) le scene con gli attori per la vicenda che si svolge in periodo coloniale, a inizio ‘900, negli stessi posti ripresi oggi. con un lavoro di montaggio geniale ha creato quindi un flusso di immagini, tutte in pellicola, alternando b/n e colore, dove si fonde tutto, la vicenda dei due protagonisti – e i tanti incontri – a inizio ‘900 con le immagini di oggi, senza quasi distinzione, o meglio, una distinzione che non crea reale contrasto. quindi se la voce narrante sta parlando di qualcosa di un secolo fa, noi vediamo qualcosa di simile ma con i motorini, i condizionatori, i telefoni, ma non stona, tutto è fluido e ipnotico. a volte le due dimensioni comunicano, a volte sono sovrapponibili. è un viaggio nello spazio e nel tempo. a parte essere una scelta interessante, è anche un modo economico di girare un film, cioè sfruttare il reale in una cornice narrativa di finzione e può essere d’ispirazione per film molto più semplici, e quindi molto più economici, di questo. va detto che, correttamente, tutte o quasi tutte le persone che appaiono nel film – cioè non gli attori, ma quelli della parte “documentario” – sono citati nei titoli di coda. le parti di finzione, fatte talmente bene che io all’inizio non avevo assolutamente capito che erano girate al chiuso (non lo so, forse sono io scemo), si rifanno all’esotismo del vecchio cinema di ispirazione coloniale, di quei film con inglesi in posti remoti dell’asia che sorseggiano cocktail, fumano, leggono il giornale e parlano male dei servitori – quel tipo di atmosfera lì. Gomes salta del tutto l’approccio critico, che avrebbe rischiato di essere semplice, didascalico se non proprio paraculo, e semplicemente usa quel tipo di estetica, quelle situazioni (obbligare i servitori a trainare una barca contro corrente, cose così) per creare qualcosa di indefinibile, non semplice. nella prima parte c’è la fuga di lui, con sequenze magiche, tipo il deragliamento del treno e l’allontanamento nella foresta. in generale non capiamo mai da cosa scappi veramente lui, sembra quasi un sonnambulo, così come non capiamo veramente l’insistenza di lei, che malata e innamorata, lo insegue con i telegrammi. nella seconda parte vediamo lei che ripercorre i luoghi dove è stato lui. io l’ho interpretato interamente come un sogno. tutto è molto autentico, reale (metà del film è fatta di immagini “vere”) e allo stesso tempo artefatto, straniante, come ad esempio le tante lingue parlate, alcune tradotte, altre no, o il fatto che gli inglesi parlino in portoghese. in un’intervista il regista ha detto che voleva sfuggire a “a questa lingua, che stiamo parlando anche ora, che ha colonizzato il mondo”. è una specie di melodramma esotico, onirico, ironico e sperimentale. un film alieno, difficile da paragonare ad altri (se non, a quanto ho capito, ai precedenti film dello stesso Gomes, che però non ho visto, come Tabu e Le mille e una notte – ma recupero). alla fotografia c’è anche Sayomphu Mukdiphrom, abituale collaboratore di Apichatpong Weerasethakul, ma anche di Guadagnino e – strano ma vero – di Shyamalan in Trap. a lungo ho pensato che Sul bel Danubio blu, il celebre e sentitissimo valzer di Strauss, fosse indissolubilmente legato a 2001, tipo per sempre. ma qua è usato integralmente con le immagini di motorini che corrono, si sfiorano, si incrociano, situazione tipica di molte città di diversi paesi asiatici, e devo dire che adesso associo quel valzer a queste immagini.

Rosetta (1999) – se qualcuno vi chiede di consigliargli una commedia simpatica e rilassante per la serata, vi prego, consigliate questo film dei fratelli Dardenne del 1999. è praticamente un film post-apocalittico. Rosetta vive costantemente settata sulla modalità sopravvivenza. ritorna spesso l’acqua, nel film. l’acqua che non esce dal rubinetto, l’acqua per riempire la borraccia, che si porta sempre dietro e che le garantisce la sopravvivenza, almeno per un giorno, ma anche l’acqua dove si può affogare. forse è il film più radicale del cinema post-bressoniano dei Dardenne, con quell’inizio incredibile, tre minuti dove sembra che la protagonista faccia a pugni con il mondo e noi siamo trascinati con lei e da lei, obbligati a guardare, a essere lì, come se lei stesse affogando (e a un certo punto capita davvero). nessuna concessione all’intrattenimento, a una pausa, a un cambio di inquadratura che possa dare piacere, riposare. Rosetta non cammina mai, corre sempre, e lo spettatore è costretto a correre con lei. in pratica veniamo scagliati nella vita di questa ragazza per 90 minuti ma il film, quando finisce,  ovviamente senza musica (tra l’altro, è praticamente un film Dogma 95), non finisce davvero. certi film continuano da qualche parte nella nostra mente, immagini che appaiono, rumori, sguardi. in questo senso Rosetta è uno di quei film infiniti. in tema: tutta la parte finale è un miracolo di regia e scrittura. oggi si esaltano molto le sceneggiature molto complesse, frammentarie, non lineari, ma poi uno guarda Rosetta e boh, è una storia semplice, pochissimi personaggi, pochissime location, semplicemente seguiamo le azioni della ragazza una dopo l’altra, anche se il film pone questioni pesanti, tipo suicidarsi o no, uccidere o no. sembra una sceneggiatura semplice, ma ho letto che ai Dardenne c’è voluto un anno per scriverla. la scena chiave del film (per chi l’ha visto) secondo me è quella del ballo. più che dire che Rosetta non sa ballare, si può dire che non può ballare. è troppo tardi per quelle cose, la sua vita è su tutto un altro livello. quella scena, nella sua apparente semplicità, ci aiuta a capire tutto ciò che succede dopo: [spoiler] Rosetta che è tentata di lasciar affogare il ragazzo gentile, il successivo sputtanamento, la bombola del gas, fino al finale, in un certo senso ripetizione della scena del ballo, appena accennata, dove lui semplicemente l’aiuta a mettersi in piedi [/spoiler]. ho passato anni a dire che il realismo al cinema mi annoiava, ma segretamente mi sparavo tutti i film dei Dardenne (il mio preferito è Il figlio). il loro poi è un realismo particolare, perché è davvero post-bressoniano, è un cinema rigoroso ma umano, secco ma con voli poetici appena accennati, perfino con simbolismi, una cosa che non ti aspetteresti in un film così, ma anche questi quasi impercettibili (li noti magari dopo più visioni). una nota obbligatoria sul suono: i passi, il respiro, il phon sulla pancia, la moto del ragazzo, sono una parte fondamentale del film. in un’intervista ai due fratelli gli chiedevano se era attivismo sociale, loro dicono no, poi gli dicono “allora intrattenimento?” e loro dicono “un po’”.

La morte corre sul fiume (1955) – unica incredibile regia dell’attore Charles Laughton. il film non ebbe successo né di pubblico né di critica quindi non gli fecero fare più nulla, pazzesco. perché oggi invece è considerato uno dei migliori film di sempre, e a ragione. una fiaba dark ma veramente dark, come quelle di una volta, con un mostro-orco indimenticabile, Robert Mitchum predicatore psicopatico con HATE a LOVE tatuati sulle nocche. non c’è una sola inquadratura del film che sia banale, a partire dall’inizio con le facce della vecchia e dei bambini tra le stelle. ma poi sono duecento le sequenze memorabili: tutte le apparizioni di Mitchum, Shelley Winters morta sott’acqua con i capelli come alghe (lei stupenda in tutto il film, anche se di fatto appare poco), il famoso viaggio notturno dei bambini sul fiume, con tutti gli animali, le stelle, le canzoni, un momento di sospensione magica, e poi la parte finale con la vecchia seduta fuori con il fucile, solo per dirne alcune. è anche uno scontro tra diverse forme di fanatismo religioso. perché Mitchum è un fanatico religioso, individualista, manipolatore, che usa la religione per affermare il proprio potere e giustificare la violenza. la sua è una religione di fatto vuota, puramente teatrale, al servizio del proprio ego e dei propri istinti predatori, quindi un fanatismo solitario e autoritario. che però convince gli abitanti del paese (che poi saranno i primi, alla fine, a volerlo linciare). ma dall’altra, come figura di salvatrice, non c’è l’opposto, come si sarebbe aspettato: c’è un’altra fanatica religiosa. la vecchia, che poi è interpretata dalla musa di Griffith, Lillian Gish, è ossessionata dalla religione, forse come chiunque all’epoca nel sud degli stati uniti, ma la vive come cura, accoglienza, protezione dei più deboli, in particolare dei bambini, per i quali stravede e pensa che possano resistere a tutto. la sua religione è comunitaria, fatta di amore e sacrificio, è una specie di madonna – una madonna autoritaria, una madonna col fucile, ma pur sempre una madonna – ed è proprio lei che riesce a opporsi al male dell’orco fanatico. lui tra l’altro, nei suoi riferimenti biblici, non nomina mai Gesù, mentre lei sì. ma la differenza è sottolineata abilmente soprattutto nella regia, nelle differenze di luci e ombre e di inquadrature tra i due personaggi. la scena, famosissima e veramente magica, in cui viene fuori questa differenza in modo più potente è quella in cui lui, di notte, nel giardino, inizia a cantare l’inno cristiano Leaning on the Everlasting Arms (per capire meglio la scena suggerisco di leggere il testo della canzone), e lei, nella veranda con il fucile in mano, si unisce al canto. lui è cupo, minaccioso, trasforma l’inno in una minaccia, in una ninna nanna dark. lei è dolce, la canta come una preghiera, si inserisce nel canto forse proprio per affermare che c’è un modo giusto, un modo buono, di cantare quelle parole, che non vuole lasciare a lui, al male. quindi la scena rappresenta l’ambiguità e l’ambivalenza non solo della religione, ma anche delle parole. dicono le stesse cose (cantandole, e questo la rende stupenda) ma capiamo che intendono qualcosa di completamente diverso. quindi ok, a una prima lettura possiamo dire che la religione può distruggere ed essere strumento di dominio, oppure può salvare ed essere strumento di conforto. ma è proprio il linguaggio ad essere ambiguo e ambivalente e tutto dipende dalle intenzioni di chi lo usa. le braccia eterne a cui si fa riferimento nella canzone possono essere quelle della morte (cioè del personaggio di Mitchum) oppure quelle di Dio – che sono quasi la stessa cosa. credo sinceramente che sia una delle più belle scene della storia del cinema. ultima cosa prima che inizi a scrivere un intero libro su questo film: è bello anche perché il 90% del film è visto dal punto di vista dei bambini, appunto come nelle belle fiabe dark di una volta. è uno sguardo bambino, vediamo il mondo dal loro punto di vista, in particolare di John, che ha il ruolo di osservatore e che, prima della vecchia, è il vero antagonista di Mitchum, l’unico che capisce che è un lupo travestito da agnello. ma è fondamentale anche una delle ultime scene, quando Mitchum viene arrestato, e John si oppone, rivivendo la scena dell’arresto del padre, dato che entrambi gli uomini vengono portati via dagli sbirri per i soldi – tutto succede per dei soldi. film super influente per la storia del cinema, da vedere e rivedere.

Strange Darling (2023) – altro film che ha goduto di grande hype e grandi endorsement da parte di varie celebrità. inizia in modo molto bizzarro con una grossa scritta che precisa che il film è stato girato in 35mm: mmm, ok, va bene, grazie per avercelo detto. di fatto è un thriller con una intelligente narrazione non lineare e un bel personaggio psicopatico. la situazione iniziale è del tipo “come siamo arrivati a questo? che rapporti ci sono fra questi personaggi?” e con vari salti temporali si ricostruisce la vicenda che di fatto si svolge nell’arco di poche ore. tutti lodano la fotografia dell’attore Ribisi, qui all’esordio come direttore della fotografia, e in effetti è bella e giusta per l’atmosfera del film – ma non esaltiamoci troppo. secondo me la cosa più notevole del film non è di certo la fotografia, nemmeno la regia (bella) o le musiche, ma il personaggio di lei [spoiler] una donna che per una volta non si sta vendicando di un torto subito, non ha psicologia, non compie violenza per reazione o per qualche trauma infantile: lo fa e basta, non sappiamo perché, è così perché è così. questa è la cosa che mi è piaciuta di più, perché è rara. un aspetto secondario che mi ha colpito è la presenza di tantissime armi. praticamente tutti i personaggi incontrati hanno una pistola (tranne una, a cui infatti viene chiesto “hai un’arma?” “no” [urla di rabbia]). le armi nei film americani sono come le sigarette nei film francesi. in questo caso mi diverte sempre immaginare di riscrivere questi film mantenendo tutto uguale ma togliendo tutte le armi.

L’inferno (1994) – continuo a ripercorrere i film di Chabrol degli anni ’90. questo è subito precedente a Il buio nella mente. inizia in maniera qualunque, totalmente insospettabile, perfino banale, per poi diventare un horror psicologico sempre più estremo e inquietante. secondo me non è tanto un film sulla gelosia, come viene ricordato spesso, ma proprio sulla malattia mentale. è un film sul deragliamento di una mente, sull’abisso della paranoia, della persecuzione, della realtà che non è la stessa realtà degli altri (in questo senso è perfetta la scena della proiezione del filmino). è un vero horror, non ci sono mostri, non c’è sangue (o meglio, molto poco, giusto un taglietto) ma è un horror a tutti gli effetti. e come sempre in Chabrol, l’orrore nasce e cresce non riconosciuto, non compreso e non limitato proprio negli spazi considerati più innocui, la famiglia, la coppia, il mondo borghese, il tranquillo hotel di provincia sul lago (c’è quasi sempre il sole), sotto gli occhi di tutti. la paranoia di lui viene accesa non tanto da comportamenti ambigui di lei, ma più dalla sua vitalità, dal suo essere solare, gentile, socievole, desiderante. messa in scena giusta ma meno interessante di altri film di Chabrol, anche se la scena dell’inseguimento a piedi, tra gli alberi, del motoscafo con lei che fa scii d’acqua resta impressa, così come tutta la claustrofobica e folle parte finale. anche le sequenze che possono apparire implausibili, invece – ahimè – credo siano piuttosto realistiche, lo so per racconti diretti. perché lei non lo molla? perché non scappa? perché non le credono? perché tutti sottovalutano? è così che può capitare. forse unico film della storia – ma magari mi sbaglio – che si conclude con la scritta “sans fin”. un altro aspetto interessante è che la realtà del film è vista dalla parte di lui, del pazzo, ma non per empatizzare – è impossibile – ma proprio per trascinarci in una visione paranoica della realtà: scene qualunque diventano stranamente “sospette” o ambigue, e sta allo spettatore dire “ok, da qui in poi non ti seguo più” ma il film in qualche modo ti constringe a seguirlo nella sua follia. l’idea del film tra l’altro è di Clouzot, che aveva anche iniziato a girarlo, ma non è riuscito a finirlo, ed è quindi stato riscritto da Chabrol molti anni dopo e girato pare in modo molto diverso (quello di Clouzot doveva essere più sperimentale, se ho capito bene). ottimi entrambi i protagonisti.

Watching the Detectives (2007) – [consigliato da RB] fa parte di quelle commedie romantiche in cui lei è piena di vita e un po’ matta, lui è uno sfigato un po’ depresso (come Se mi lasci ti cancello o Il lato positivo, tra l’altro entrambi due film che hanno due titoli originali completamente diversi), ma soprattutto propone una visione della cinefilia come non-vita, non agire. c’è una scena in cui lei lo dice chiaramente: “a me non piace stare seduta e guardare le cose, mi piace farle” (paradossalmente lo dice mentre sta seduta su una panchina a guardare con un binocolo: ironia). ma sono tante le battute sul mondo cinefilo, colto nella sua sfumatura quasi patologica, che dalla passione va verso la passività. c’è anche l’ovvia e inevitabile atmosfera da Clerks, anche se solo vagamente accennata. ma il personaggio di lei non è solo la vita contrapposta al cinema: è come se fosse il cinema in azione, il cinema nella vita, perché è costantemente un inganno, un’illusione: arrivano degli sbirri ma non sono veri sbirri, si mangia del cibo che lei ha preparato, ma non l’ha preparato lei, torna a casa, ma non è veramente casa sua, ogni volta che qualcosa sembra vero, non lo è, perché è il cinema, niente è vero. dopotutto non è lei: è l’attrice Lucy Liu. è il cinema nella sua dimensione vitale, euforica e manipolatrice, di costante eccitante finzione: è come se dicesse a Cillian Murphy (qua molto funzionale e molto cool): “ah ti piacciono i film? ecco, vivere in un film è così”. a parte questo, è un film appartenente a quella categoria di film totalmente minori, sconosciuti, è possibile che non se lo ricordino nemmeno quelli che l’hanno fatto. è una specie di cinema di una realtà parallela, e ci sono migliaia di titoli così: piccoli film che sembrano esistere solo nella memoria di chi li ha intercettati per caso, film non canonici, di registi non famosi, assenti dalle classifiche, dalle conversazioni, dagli archivi delle piattaforme, eppure eccolo qua, io ne sto parlando.

Licorice Pizza (2021) – un’altra commedia romantica. seconda visione di questo film adorabile di Paul Thomas Anderson. da una parte ci sono i capolavori, quelli proprio presentati come grandi film, come l’incredibile The master, o Il petroliere, ma anche Il filo nascosto, dall’altra ci sono questi film forse più liberi e personali, anche un po’ matti (non matto ai livelli di quello che forse è il mio preferito, Punch-Drunk Love), sicuramente super nostalgici. non è un film ambientato negli anni ’70, è proprio un film degli anni ’70. di cosa parla? dell’improbabile, buffa, complicata e divertente non-storia d’amore tra due ragazzi, uno 15enne e una 25enne? parla solo di questo? probabilmente no. sembra in qualche modo collegato certi film americani anni ’70, e per certi versi, per personaggi, atmosfere e musiche può ricordare anche C’era una volta a Hollywood di Tarantino, e ovviamente gli altri film di Anderson ambientati negli anni ’70 come Inherent Vice e Boogie Nights. procede per frammenti, in maniera un po’ casuale, ma ha alcune sequenze notevoli: sicuramente l’inizio, quando i due si conoscono, poi le tantissime corse (a un certo punto c’è un montaggio delle varie corse dei personaggi, che porta alla corsa finale che finalmente li vede incontrarsi davvero), la corsa in moto di Sean Penn, ma soprattutto la mia preferita, la sequenza del camioncino,  con un Bradley Cooper sopra le righe e molto divertente. è una sequenza che difficilmente verrebbe in mente, perché è basata su delle cazzate, non su idee particolarmente geniali, eppure funziona a meraviglia, è strana, notturna, imprevedibile, divertente, girata con grazia. fotografia sempre di Paul Thomas Anderson (con Michael Bauman) magnifica e nostalgica. comunque sembra uno di quei film fatti per divertirsi. resta molto impressa la protagonista, Alana, interpretata da Alana Haim, per me il personaggio più bello di tutto il film. in definitiva, un film apparentemente esile, facile, su questa storiella d’amore impossibile e bizzarra tra due ragazzi negli anni ’70, che però è fatto di tante piccole cose ineffabili e di una regia sempre precisa ed elegante di uno che evidentemente è talmente padrone del mezzo che neppure se ci si mette apposta riesce a girare una scena in modo banale.

Coco (2017) – sicuramente uno dei migliori disney-pixar, ma comunque resta qualcosa che difficilmente può entusiasmarmi, come per tutti gli altri disney-pixar. ora va molto di moda dire che la pixar è stata rovinata dalla disney, ma non è vero, perché se vi guardate la filmografia non è che facessero tutti questi capolavori, e sto parlando del periodo 1995/2006. certo, importante toy story (il migliore resta toy story 3, forse miglior film pixar in assoluto, già periodo disney) ma ci sono anche tanti film che sono totalmente inutili e insapore eppure completamente e inspiegabilmente sopravvalutati. sono film così: carini, con le canzoncine, l’aspetto pedagogico, la psicologia, la spiegazione di ogni cosa, direi l’ossessione per spiegare in modo chiarissimo tutto e l’assenza di mistero. io sono praticamente certo che da bambino non mi sarebbero piaciuti, figuriamoci da adulto. dei successivi, di quelli post Disney, mi era piaciuto abbastanza quello del topo, Ratatouille. in Coco il messaggio (perché c’è sempre un chiarissimo messaggio nei film Pixar) è: 1) la famiglia è la cosa più importante di tutte – e per essere certi che si capisca viene fatta pronunciare l’esatta frase più volte, 2) è brutto dimenticare i morti (e poi, ovviamente, il sempre valido “è importante seguire i propri sogni”). la storia, va detto, è intrigante ed è divertente comunque l’idea di spendere milioni di dollari disney per fare un film sui morti, ed è interessante anche che il personaggio chiave, che dà anche il titolo al film, sia una vecchia forse con la demenza o alzheimer che per la maggior parte del tempo resta in disparte. ma chi ci vede dell’incredibile profondità (c’è chi l’ha vista perfino in Inside Out o in Alla ricerca di Nemo – boh) usa lenti diverse dalle mie. cose che mi sono piaciute: gli animali psichedelici, cioè il felino volante e il cane. soprattutto il secondo mi piacerebbe che esistesse perché lo adotterei. ecco, forse se avessero fatto tutto un film con solo quei due personaggi – e nessun messaggio chiarissimo – allora mi sarebbe piaciuto davvero. poi c’è chi mi dice: eh, però la pixar, sul piano tecnico… mah, a parte che ci sarebbe da discutere, ma poi questo ad es. è un film che è costato più di 175 milioni di dollari – doveva pure essere disegnato male? ovviamente, come ormai per tutti i film disney, è previsto un seguito.

2001: Odissea nello spazio (1968) – sì, lo so, cosa si può dire di 2001? beh, qualcosa provo a dirla. era nei film da vedere del gruppo cinema del collettivo, quindi l’abbiamo guardato. da ragazzino l’avrò visto 1000 volte, poi negli anni sempre meno, e adesso era da un po’ che non lo vedevo. secondo me non è tutto un capolavoro, cresce man mano che va avanti, e più precisamente ha questo andamento: inizio da 7 (le scimmie e le parti sulla luna, di cui poi dico), poi 9 (verso giove, ovvero HAL9000), infine 14. la media finale quindi è 10. però va considerato che la prima metà del film non è un granchè. lo so, verranno i fan di Kubrick a uccidermi stanotte, tipo mossad – ma lo penso davvero. ci sono parti interminabili dove vediamo navicelle atterrare, per 6 o 8 minuti, riprese inutilmente in tutti i movimenti, i dettagli, un realismo esasperato, maniacale, freddo e completamente insensato. almeno c’è della bella musica sotto, questo sì. ma chi se ne frega di vedere 10 minuti di una capsula che si muove nello spazio? cos’è, un documentario? sicuramente all’epoca (o ancora oggi) visto al cinema su uno schermo gigante faceva un’altra impressione: nonostante la freddezza, c’è indubbiamente una dimensione spettacolare in 2001, sembra quasi uno sfoggio di tecnica. è come se Kubrick dicesse “guardate dove siamo arrivati”, intentendo sia col cinema sia con la tecnologia (spaziale, in questo caso). ma tornando ai difetti della prima parte: i dialoghi sulla luna sono bruttini e noiosi, e la regia è completamente grigia, asettica. quindi io capisco chi si addormenta in questa prima parte, ci sta. i fan diranno che è propedeutica a tutto il resto – e hanno ragione. anche per me i bug sono quasi sempre feature: l’imperfezione della prima metà di 2001 diventa parte del suo fascino e prepara lentamente all’atto finale. poi, dopo la luna, c’è la missione con HAL9000. una caratteristica di 2001 è quella di essere un film completamente privo di emozioni. nessuno sembra provare emozioni e il film non sembra volerle trasmettere. con un’eccezione: HAL, l’intelligenza artificiale. se l’astronauta David sembra un robot, HAL invece è l’unico personaggio umano del film: come parla, come si comporta, le allusioni (il magnifico doppiaggio italiano di Gianfranco Bellini). quando vediamo il suo “occhio” percepiamo più vita rispetto a quando vediamo quello di David. il malfunzionamento apparente di HAL, le bugie, i suoi omicidi, infine la sua morte, sono le uniche emozioni di questo film – e sono fortissime. in particolare la sua morte è un capolavoro di regia, immagine, suono, parola. da qui in poi il film non si ferma più (anche se pure in questo capitolo ci sono delle parti dove è lecito addormentarsi, vedi tutto il tentativo di salvataggio di David con la capsula, il rientro, tutto ripreso con tempi realistici e con numerosissimi dettagli). la parte del trip, quando David entra nel tunnel spaziotemporale, è qualcosa di mai visto al cinema e si dovrà aspettare un sacco di tempo per rivedere qualcosa di simile. così come il suo risveglio nella stanza: l’immagine della capsula inspiegabilmente arrivata dentro una camera da letto è magnifica, perché qua Kubrick non si è messo a mostrarci tutto come nel resto del film ma ha semplicemente tagliato. l’apparizione finale del monolite è stupefacente. in generale l’ultima parte è uno dei vertici della storia del cinema, feto spaziale compreso, ed è uno dei motivi per cui 2001 di fatto ha alzato l’asticella per tutti quanti. una delle intuizioni migliori è la musica: non musiche originali, ma Strauss e Ligeti, e soprattutto Ligeti funziona a meraviglia. la trama del film in realtà è piuttosto semplice e lineare – in 2 ore e mezza di fatto succedono poche cose – anche se esistono molte interpretazioni su cosa voglia dire davvero (e il film su questo è volutamente aperto), a partire dal monolite: è “solo” una specie intelligente? è Dio? ma Dio in che senso? o l’altro-inconoscibile, il mistero? quattro anni dopo 2001 uscirà Solaris di Tarkovskij, che verrà presentato come “la risposta sovietica a 2001”. ha senso paragonarli? in realtà non tanto, sono due film molto diversi, in comune hanno sicuramente la grande ambizione, ma in Solaris troviamo tutto quello che non c’è in 2001, a partire dalle emozioni. il film di Tarkovskij è umano (mentre 2001 è un film sull’umanità, ma non umano), c’è il mistero, ma ci sono anche delle forti emozioni che arrivano dritte allo spettatore. a parte questo – ci sarebbe molto altro da dire, ma basta – concludo con un ricordo personale. ero piccolo, guardavo spesso 2001 in vhs, una domenica mattina lo stavo guardando e si è seduta con me mia nonna. dopo 20 minuti di scimmie mi ha chiesto “ma di cosa parla questo film?” io le ho detto che poi c’erano anche le astronavi. poco dopo ho notato che dormiva. credo si sia svegliata nella parte di HAL9000, ma si è alzata ed è andata in cucina.

Il disprezzo (1963) – a soli tre anni da Fino all’ultimo respiro, Godard realizza questo incredibile film con un budget 10 volte maggiore, diverse star e una sceneggiatura tratta da Moravia (ma solo fino a un certo punto). premessa obbligatoria: di questo film esistono due versioni, praticamente due film diversi, una è l’originale francese, l’altra è quella italiana rifatta dal produttore Ponti – qua parlo ovviamente della versione originale. si parlano più lingue, ci sono credo 20 minuti in più, niente censure inutili, addirittura musiche diverse e perfino i famosi titoli di testa audio (non appaiono le scritte, ma c’è la voce di Godard che li legge – idea eliminata nella versione italiana). detto ciò, è un film sperimentale travestito da film classico. è una lezione di cinema continua, un’esplorazione delle possibilità e delle potenzialità che il mezzo cinematografico può offrire, ma in un film che – almeno nelle intenzioni iniziali – potesse piacere anche all’industria e alle masse. non sarà così, e in questo è indicativo il violento rifacimento del produttore. si parla di cinema, della fine di una coppia, di vita, dell’Odissea, con sequenze memorabili, in particolare quella lunghissima e celebre nell’appartamento della coppia, e poi quella mediterranea e metafisica nella villa a Capri. è un film molto audace e molto narrativo allo stesso tempo, facile da seguire, eppure per niente semplice. ci sono molte scene tipicamente anni ’60: mi viene in mente la Bardot (che per 2/3 del film appare col culo fuori, stupenda) che va a fare il bagno nella vasca, ma inspiegabilmente si siede sul water e si accende una sigaretta. o il personaggio di Piccoli che tocca il culo a una che ha appena conosciuto, oppure, ancora peggio, quando durante una discussione con la moglie le dà uno schiaffone in pieno volto. per me che sono nato molto dopo i primi anni ’60 queste scene sono incomprensibili, ma in realtà sono fondamentali nel film. se lei disprezza il marito è anche per questo, e ancora di più per un evento quasi impercettibile nella narrazione del film, cioè lui che le dice di andare in macchina con il produttore. lei lo disprezza perché lo percepisce come un uomo debole, opportunista, non integro, incapace di autocritica e di comprendere cosa conta davvero, in una società dove l’arte, l’amore e il rispetto sono corrotti dal potere e dal denaro. Godard però lascia volutamente ambigua la risposta, rendendo questo disprezzo un sentimento più esistenziale che puramente narrativo, e non viene mai spiegato esattamente perché lui la disprezzi (ma sono molte le allusioni, anche quando lui parla di Ulisse e Penelope con Fritz Lang, che qua fa se stesso). di fatto, o almeno così l’ho visto io, lei appare come molto più intelligente e sensibile di lui – che in teoria è un intellettuale e sceneggiatore comunista – che invece sembra un po’ un cretino. ma la vera forza del film sono le immagini e la regia. i lenti movimenti di macchina – sembrano passati secoli dalla frenesia di Fino all’ultimo respiro – i colori saturi, l’atmosfera perennemente luminosa, estiva, quasi irreale e alienante. personaggio apparentemente secondario ma che invece rimane quello di Giorgia Moll (rovinato dalla versione italiana, motivo in più per cui guardare esclusivamente quella originale). è un film che si presta a molte visioni, perché sono tante le idee di cinema e le possibili letture. probabilmente, anche se in modo diverso, su molti registi ha avuto un impatto simile a quello di Fino all’ultimo respiro. l’anno dopo Godard tornerà a un piccolo film, con budget irrisorio e girato molto in fretta come ai vecchi tempi (cioè un paio d’anni prima), ovvero Bande à part, forse il suo film che preferisco.


May December (2023) – forse devo rivalutare Todd Haynes, regista che non mi ha mai interessato. tratto da una storia vera – quella di un’insegnante 34enne che si è messa con un suo alunno 12enne – ma con alcuni dettagli inspiegabilmente cambiati. dico inspiegabilmente perché in questo genere di film si fa sempre così. si fa una copia della realtà, ma si cambiano alcuni dettagli a volte molto importanti, che non servono nemmeno particolarmente al film, forse solo a far incazzare un po’ le persone coinvolte nella vicenda reale. a parte questo, il film è interessante perché invece di rappresentare il fattaccio – era pedofilia? era vero amore? i due hanno fatto figli e sono stati sposati per decenni – sceglie di non mostrare nulla, nemmeno tramite flashback. entriamo in questa dimensione mi pare 24 anni dopo, con l’ex 12enne che ora è un trentenne che non ha mai vissuto l’adolescenza. raffinato, non semplice, dà pochissime o zero risposte, ma apre a domande non sempre semplici. si allude anche a delle realtà parallele: l’attrice che deve interpretare la donna in un film tratto dalla loro storia ha la stessa età dell’ex bambino. non male.

Gran bollito (1977) – ispirato alla saponificatrice di correggio, è uno di quei grandi film del cinema italiano un po’ dimenticati. in parte è dimenticato anche il suo autore, Bolognini, che io ricordo principalmente per La notte brava e Il bell’Antonio, ma ha fatto un casino di film notevoli, solo che è sempre stato in secondo piano rispetto a nomi più celebri. che questo sia ingiusto si capisce anche con Gran bollito, film che se uscisse oggi e fosse diretto, che so, da Lanthimos, sarebbe la gioia dei critici. ha delle vibes anche di Almodovar, in qualche modo. cast bizzarro: protagonista la diva di Hollywood Shelley Winters, poi il trio Max von Sydow / Renato Pozzetto / Alberto Lionello tutti e tre en travesti (fanno le tre donne vittime dell’assassina), tutti sublimi. c’è anche Milena Vukotic e in una parte piccola ma fondamentale anche un’icona di quel periodo come Laura Antonelli. insomma basterebbe il cast – e il fatto che i tre principali attori maschi interpretano prima ruoli femminili, ma poi tornano in ruoli maschili – per renderlo un film cult. ma a parte questo, è un film che merita davvero ed è ingiusto che sia stato dimenticato, come molti altri di Bolognini e molti altri di altri registi di quel periodo che non si trovano mai in classifiche, top 10, video di youtube, meme e via dicendo. atmosfera cupissima, tra rituali, tè con le amiche, sgozzamenti, e la cucina come un piccolo teatro.

La signora ammazzatutti (1994) – altro film su una mamma serial killer. questo era un mio film cult da bambino, lo guardavo sempre in tv, forse avevo anche la videocassetta, ma naturalmente non potevo sapere che era del regista di Pink Flamingos (e secondo me non lo sapevano nemmeno i responsabili della programmazione di Italia1). molto divertente anche rivisto oggi, possiamo dire che è il film “normale” di John Waters, diciamo che sta a lui come Una storia vera sta a Lynch – film che possono funzionare anche per le masse, ma senza snaturarsi, perché comunque è un film 100% John Waters, con quell’ossessione per un’immagine anni ’50 degli Usa, della famiglia, della comunità, che nasconde pulsioni inconfessabili e orrori vari. in certe inquadrature e in certe espressioni Kathleen Turner – veramente inquietante – ricorda Shelley Winters in Gran bollito, anche se il tono qua è molto più comico e grottesco.

The Boxer’s Omen (1983) – il penultimo film di Kuei Chih-Hung dei mitici Shaw Brothers Studio di Hong Kong – regista la cui filmografia andrebbe recuperata. come descriverlo? in sostanza sono 105 minuti di combattimenti tra monaci buddhisti e demoni (nello specifico un pugile che diventa monaco per sconfiggere i demoni) ma non è un film trash, anzi. certe scene fanno pensare al cinema sperimentale, ma per quanto assurde, sono del tutto coerenti – dopotutto chiunque abbia letto testi mistici tibetani, o il celeberrimo Sutra del loto, sa che in quel tipo di immaginario molte cose sono possibili. non so se il film si ispiri a testi religiosi o mitologici, ma non mi sorprenderebbe. gli ingredienti del film sono: horror, pugilato, buddhismo, magia nera, fotografia ed effetti speciali psichedelici, mostri di vario genere, misticismo, tette, coccodrilli, ragni, raggi luminosi di vari colori, scene d’azione particolarmente fantasiose e acrobatiche. se pensate a film visionari, esoterici e psichedelici come quelli di Jodorowsky, ecco questo va mooolto oltre. decine le scene memorabili, non saprei nemmeno sceglierne una, dovrei rivederlo, e credo che capiterà più volte nei prossimi anni, perché è istantaneamente diventato uno dei miei film preferiti.

La croce dalle sette pietre (1987) – film negli anni diventato un film cult eccetera eccetera: c’è gente che sostiene di averlo visto più volte – a me per ora me ne basta una. per far capire la trama basta dire l’altro titolo con il quale è noto il film: Il lupo mannaro contro la camorra. è tutto qua. Marco Antonio Andolfi l’ha scritto, diretto, prodotto, interpretato, montato, ha fatto gli effetti speciali, ha doppiato alcuni personaggi, ha recitato altri ruoli secondari e ha fatto pure lo stuntman. uno sforzo sicuramente ammirevole. in pratica c’è questo tizio a napoli a cui scippano una croce e da quel momento a mezzanotte, non si sa perché, si trasforma in un lupo mannaro, in realtà qualcosa di più simile a Chewbecca nudo, rasato dal mento in giù (forse per risparmiare sul trucco) e inizia ad ammazzare camorristi e mafiosi. è in parte horror, in parte melodramma napoletano, ma ci sono anche rituali boh, satanici, orge, un po’ tutto, e tutto fatto male. non c’è nemmeno quell’eccesso bizzarro che farebbe compiere il giro al film come è capitato a molti altri che sono talmente brutti e strani da diventare interessanti. è sicuramente bizzarro, ma alla fine è più che altro noioso. il suo autore, ho visto su youtube, nel 2010 lo difendeva ancora, quindi non l’ha mai rinnegato, e dopotutto aveva già ripreso successivamente il film aggiungendo nuove scene e intitolandolo Talisman, e poi, non contento, nel 2007 ha girato anche il sequel, un cortometraggio dal titolo Riecco Aborym. comunque questo La croce dalle sette pietre all’epoca è stato anche finanziato dal ministero, anche se non con una grande cifra, quindi è comunque un film a basso budget – viene da chiedersi cosa avrebbe combinato Andolfi con più soldi, mah. uscì solo in due sale, poi è diventato un film di cui molti parlavano ma pochi avevano visto, fino a una nuova vita – principalmente grazie a internet – tra nerd e cinefili archeologi. come in molti film italiani di quel periodo, molto spesso c’è un’atmosfera da film porno, senza mai però diventare davvero un film porno (ci sono giusto un paio di scene soft, una in particolare un po’ inquietante, quella con la veggente). insomma non trova mai l’eccesso vero, quindi non prende mai una strada interessante, a parte per l’idea di base “c’è un lupo mannaro che uccide camorristi”. viene in mente Landis, ma non tanto per Un lupo mannaro americano a Londra, ma per Amore all’ultimo morso, dove ci sono vampiri contro mafiosi ed è successivo a questo (Landis si è ispirato a Andolfi? sarebbe bellissimo). ah, nel finale appare Gesù in cielo sovrapposto alla basilica di San Pietro, dettaglio che allude a una possibile lettura religiosa del film, da non sottovalutare.

L’uomo nel bosco (2024) – l’avevo visto in cima alla lista dei migliori film dell’anno dei Cahiers du cinéma e avevo pensato: mah, chissà. beh, non era un’esagerazione. classifiche a parte, Alain Guiraudie è incredibilmente abile e raffinato. un film di un genere indefinibile – dramma? thriller? noir? – misterioso, allusivo, ambiguo. un esempio di come si dovrebbero scrivere le sceneggiature, una messa in scena perfetta, attori stupendi. tra l’altro un film semplice: pochissimi attori, è girato in un bosco e in due case, tutto qua. per il tipo di scrittura e regia misteriosa e ambigua mi ha ricordato Chabrol, ma forse solo perché sono entrambi francesi. anche questi personaggi di cui non capiamo nulla, la cui psicologia si svela lentamente ma resta comunque un mistero, ricorda molto quel tipo di cinema.

The meaning of life (2024) – di Riccardo Rinarelli, regista torinese credo 17enne, con interpreti anche più giovani. mi è piaciuto molto, è esattamente quello che si dovrebbe fare per iniziare a fare i film: zero soldi, prendere una videocamera qualunque, qualche amico, qualche strada intorno a casa, qualche appartamento di amici, e girare. c’è una freschezza che raramente si trova in altri film italiani di quelli che vanno ai festival e vincono premi. è diviso in “cortometraggi” (in pratica dei capitoli) con il tema del senso della vita, ma catturato in istanti, momenti qualunque, chiacchiere qualunque. alcune scene restano impresse: tre amici decidono di scrivere una canzone insieme, altri tre suonano una batteria improvvisata con piatti e pentole, un ragazzino impara ad andare in bici. il mio capitolo preferito forse però è il primo, che contiene anche un omaggio a wim wenders, ed è di una semplicità ammirevole. alla faccia del dogma di molti manuali “per un corto ci vuole un’idea forte”, ecco in questo primo capitolo non capita praticamente nulla. due amici vanno in giro in bici sul lungofiume. in un altro due amici cantano una canzone accompagnandosi con la chitarra, poi chiacchierano guardando il cielo. è tutto fresco, autentico, nessuno sembra recitare – probabilmente perché nessuno lo sta facendo. funziona. come per tutti i film fatti con zero mezzi, ovviamente l’audio non è buono, ma risolto questo io non vedo problemi. nella parte finale del film c’è un omaggio al cinema e alla città di torino.

Sharknado (2013) – il mio progetto per l’estate è vedermi tutti i film della serie, sono sei – e voi che fate? Grecia? Salento? Sardegna? quello che mi attira di più è proprio l’ultimo, il sesto, ma intanto ecco il primo, che avevo già visto, e che è davvero brutto. però l’idea alla base è bellissima, perché è un’idea audace, surreale, poetica. peccato per la realizzazione e per la scrittura davvero mediocre. però in questi film bisogna trovare il sublime, anche semplicemente in un momento, in un’immagine, una battuta, e il primo Sharknado ha una scena memorabile, che io metterei seriamente tra le più belle della storia del cinema (vabbè, in una top 500 diciamo). cioè quando un enorme squalo piomba dal cielo e si lancia contro il protagonista. lui non scappa: afferra una motosega e si lancia dritto dentro le fauci spalancate dell’animale. lo squalo cade a terra, sembra finita… poi, all’improvviso, la lama della motosega trapassa il suo corpo dall’interno. c’è un po’ di sangue, e infine il protagonista riemerge vivo e illeso, uscendo da dentro lo squalo come un eroe – ma non è tutto, con lui c’è anche una ragazza che credevamo morta (era stata mangiata da uno squalo in cielo, mentre era su un elicottero) e che scopriamo essere in perfetta salute. sembra un assurdo numero di magia. questo è cinema. mi viene in mente la mia scena preferita di Zombi 2 di Fulci, tra l’altro non voluta e non girata da Fulci, cioè quella della lotta subacquea tra uno zombie e uno squalo (surrealismo puro). nota: io Sharknado lo metterei anche tra i primi grandi film degli anni 2000 che parlano di cambiamenti climatici, perché la causa degli strani fenomeni che si vedono nel film viene spiegata in quel modo. quindi grazie Asylum, quando dovrò convincere qualche scettico dell’urgenza di preoccuparsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici gli dirò “aspetta, hai visto Sharknado?”.

Grazie per la cioccolata (2000) – ricordo molti anni fa, ero appena maggiorenne credo, stavo guardando La pianista di Haneke con un amico di 20 anni più grande di me. a me era piaciuto molto, lui alla fine lo liquidò con una frase: “cinema borghese per i borghesi”. era senza dubbio vero, ma – ormai si può dire – io ho un fetish per questo tipo di cinema, come ad esempio quello di Chabrol, che come Haneke ha passato buona parte del suo percorso artistico a distruggere la famiglia borghese, anche se in modi diversi. questo è uno di quei film poco ricordati, e invece è bellissimo, e tra l’altro la grande protagonista – si scopre lentamente guardando il film – è proprio la divina Isabelle Huppert, come ne La pianista (che è dell’anno dopo) e anche in quello che forse è il mio film preferito di Chabrol, Il buio della mente (film-bomba, chi non lo conosce lo recuperi). tutto parte con un pretesto abbastanza facile e anche poco credibile, ma poi si insinua qualcosa di indecifrabile, come è indecifrabile il personaggio di Huppert. sembra quasi un giallo, o un thriller, ma non succede niente, nessuno muore, niente viene rubato, eppure tutto è sottilmente minaccioso. c’è una delle scene più semplici e cinematografiche di sempre: quasi all’inizio, la Huppert prepara una cioccolata, ma poi, pensando di non essere vista, la rovescia a terra senza motivo, fingendosi maldestra. perchè? ogni suo gesto da lì diventa ambiguo e minaccioso, è una scena che sarebbe piaciuta a Hitchcock, sul quale – ricordiamo – Chabrol scrisse assieme a Rohmer un saggio mica oggi, che è facilissimo dire “grande Hitchcock”, ma nel 1957. la Huppert è come al solito inquietante e bravissima in particolare quando non parla (che magari non sembra ma è un complimento – lo so, forse potevo dirlo meglio), ma non è da meno la giovane co-protagonista Anna Mouglalis.

Miracolo a Le Havre (2011) – non l’avevo mai visto. di solito la dimensione favolistica nel cinema mi irrita, penso soprattutto a tanti film italiani più o meno recenti dove sembra obbligatorio che tutto sia una favola. però se a farlo è uno come Kaurismaki è tutta un’altra faccenda. praticamente è come un film dei Dardenne, ma senza il realismo e la macchina a mano, per quanto questa definizione possa apparire paradossale. che poi sarebbe da approfondire: tutto quello che vediamo può sembrare strano, irrealistico, tutte queste persone che si aiutano, soprattutto i più poveri ed emarginati (come in tutti i film di Kaurismaki dopotutto), che vogliono aiutare l’immigrato, c’è perfino lo sbirro buono, può sembrare una scelta politico-poetica, come se il film dicesse: ok, magari non è così che va, ma è così che dovrebbe/potrebbe andare. epperò c’è da dire che realtà così esistono davvero, di persone che si fanno il culo per aiutare immigrati, poveri e persone in situazioni di difficoltà (tanti esempi, penso ad es. a Baobab Experience a Roma), insomma sicuri che questo mondo così bello mostrato da Kaurismaki sia solo una fantasia? non lo so. poi ovvio che noi vorremmo la lotta, la gente che si aiuta, certo, ma che si incazza e inizia a occupare posti, lanciare molotov, bruciare macchine della polizia, ma sto divagando. comunque è l’ennesimo suo piccolo grande film, semplice, con nessun attore sotto i 50/60 tranne il bambino immigrato, alcol, sigarette, vecchi rocker, anacronismi che sembrano raccontare quasi una realtà parallela e una cura per i dettagli, per gli oggetti, per i vestiti, per le inquadrature, che in altri registi viene molto esaltata (penso a Wes Anderson) e che magari qua si nota meno, ma è proprio l’anima del film: quella famosa cosa che spesso riassumiamo con “atmosfera”. bellissimo il protagonista André Wilms, visto in alcuni altri grandi film, elegante e romantico lustrascarpe. per certi versi mi ha ricordato – seppur con le dovute differenze – un film italiano che appunto un po’ mi ha irritato, Io capitano di Garrone, proprio per la dimensione favolistica e la situazione giovane migrante.

I giorni del cielo (1978) – quando era ancora normale fare film narrativamente e visivamente grandiosi dalla durata di un’ora e mezza. solo due anni dopo arriverà I cancelli del cielo di Cimino, tre ore e mezza, ma quella è un’altra storia. comunque: il film di Malick ha una situazione torbida e intrigante che riprende in parte il mood dell’esordio capolavoro Badlands (uno dei miei film preferiti in di sempre, lo rivedo in continuazione), anche se non ha la magia di quel film irripetibile. comunque entrambi i film parlano di giovani poveri che cercano in qualche modo la libertà. ma è la parte visiva che lascia senza parole: si intravedono già cose che si vedranno ancora di più nei film post pausa di 20 anni (ricordo che Malick non ha fatto film dal 1978 al 1998), in primis The tree of life. quasi tutto girato al tramonto, ha una sequenza da storia del cinema, quella dell’invasione di locuste con successivo incendio, miracolo poetico-tecnico. musiche di morricone belle, ma in realtà, diciamo la verità, a restare in testa è Il carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, presente anche nei celebri e stupendi titoli di testa fatti con vecchie fotografie.

L’uomo senza passato (2002) – io credo che Kaurismaki possieda un potere speciale, perché certi suoi film in mano ad altri registi, anche bravi, non verrebbero bene così, verrebbero dei film qualunque, da dimenticare subito dopo la visione. invece i suoi ti restano addosso a lungo – magari non a tutti, a me sicuramente sì. questo è uno dei suoi migliori, forse proprio il migliore. idea semplicissima, il resto è tutto atmosfera, dettagli, musiche, colori, sigarette, recitazione innaturale. è come se Kaurismaki raccontasse storie minime per dire qualcosa di grande: che anche nel buio totale, la luce può ancora filtrare, magari da una finestra rotta, magari da una canzone rockabilly suonata male in una roulotte, magari tra i gesti di fratellanza e amicizia tra sfigati.

Enzo, domani a Palermo! (1999) – cosa posso dire, è uno dei miei film italiani preferiti di sempre. sembra un film con attori talentuosi  e molto credibili, e invece è un documentario. Ciprì e Maresco (ma si può dire che il film è molto mareschiano, infatti assomiglia in tutto ai suoi film da solo) seguono per anni un impresario di pompe funebri che è anche un organizzatore cinematografico che ha procurato attori e comparse per decenni alle produzioni che hanno girato in sicilia. sue collaborazioni con Tornatore, Pasolini, Coppola, De Sica, ecc. solo che viene condannato per una rapina organizzata dalla mafia. mafia che lui, come tutti gli altri protagonisti del documentario, non sa nemmeno cosa sia. il film è fatto di interviste, feste di piazza, cantanti e attori improbabili, cene, premiazioni, tutto rigorosamente a Palermo. la mia scena preferita è quando Maresco chiede al piccolo Totò Cascio “disgustato?”. ma anche Castagna che dirige l’Oscar siciliano dal balcone di casa perché è agli arresti domiciliari. il film è pieno di immagini stupende, a volte che durano anche solo pochi istanti. stranissimo l’equilibrio che si crea tra lo sguardo apparentemente cinico, perfino crudele, di Maresco e i personaggi del film. li sta sfruttando? sta ridendo di loro? questo dopotutto è l’equivoco dietro a tutta la produzione di Maresco, da Cinico tv fino agli ultimi film. in questo film io non credo sia così. sì, ci sono le gag (l’intervista ripetuta decine di volte perché il protagonista non sa pronunciare canterbury o perché dice Pasolino invece di Pasolini), ma a me non sembra ci sia cattiveria, anche perché Maresco queste persone le conosceva personalmente, abitava a Palermo, le avrà viste anche dopo, aveva rapporti con loro. qua l’equivoco è maggiore perché non sono attori – come nelle altre opere – ma persone che dalla strada sono finite in un documentario. è uno sguardo su una realtà che è effettivamente così: se sembra uno sguardo deformante e distorto, è perché è una realtà di per sè deformata e distorta. io credo che Maresco guardi questi personaggi/persone con una sorta di malinconica partecipazione, forse perfino una tenerezza che si nasconde sotto il sarcasmo. lo sguardo non è mai davvero totalmente di scherno, ma piuttosto di una constatazione dell’assurdità del mondo, tragico e comico insieme. a parte la considerazioni morali, sulle quali si può discutere, resta un film indefinibile, non-genere, e un documento eccezionale di certi quartieri di Palermo di metà anni ’90.

Il posto delle fragole (1957) – non il mio film preferito di Bergman (ho tutta una lista di film che vengono prima di questo: Fanny e Alexander, Monica e il desiderio, L’ora del lupo, La fontana della vergine, Sussurri e grida, Persona) ma senza dubbio un capolavoro. non l’ho mai letto da nessuna parte ma a me sembra evidente che abbia influenzato Fellini per Otto e mezzo – è così, nessuno mi farà mai cambiare idea. comunque è tra i film visti perché era tra quelli da vedere nel gruppo cinema del collettivo, a dire la verità ce l’ho messo io, in quanto fotografa un certo tipo di cinema di quel periodo e un tipo di sensazione, tra il sogno e il ricordo, che insomma, che gli vuoi dire. scritto in ospedale, e lo stesso anno aveva fatto anche Il settimo sigillo e varie opere a teatro. stronzo quanto vuoi Bergman, ma non gli puoi dire che perdeva tempo.

Dracula di Bram Stoker (1992) – non ricordavo di averlo visto nonostante avessi la vhs a casa quando ero piccolo. anzi forse l’avevo visto ma ricordavo solo la scena dell’orgia (che dura pochi secondi e non si vede niente di che). rivedendolo oggi: film fuori di testa, stupendo, che si ispira all’espressionismo ma va molto oltre, con una regia gotica, psichedelica e oscura, piena di idee. ogni singola immagine contiene tante idee di cinema. veramente bello, direi sottovalutato. alla fine è uno dei film migliori di Coppola.

Wrong Cops (2013) – immaginiamo Il cattivo tenente (quello di Herzog però, non quello di Ferrara) come se fosse un film della Troma, o magari di John Waters feat Lynch, però fatto da un francese. quindi un film trash d’autore, demenziale ma anche stranamente politico. poliziotti marcissimi, tutti, che costantemente abusano della loro autorità, ossessionati dai soldi e dal sesso, tutti dei totali idioti psicopatici che fanno qualsiasi cosa nella più totale impunità, convinti di essere “all’inferno, schiavi solo della natura”, in un mondo completamente sbagliato e disperato. sì, in pratica – nonostante il gusto surrealista di Quentin Dupieux – questo film è praticamente un documentario. a tratti divertente, a tratti semplicemente strano e disturbante. io me lo ricordo quando è uscito Rubber, nel 2010 (citato anche in Wrong Cops): era un oggetto filmico non identificato, perché l’idea di avere come protagonista uno pneumatico era inedita, quindi ricordo la fatica per trovarlo… il film poi non era granché (non lo so, dovrei rivederlo), ma da lì in poi Dupieux ha fatto tutta una serie di film strani, creando un mondo cinematografico tutto suo che assomiglia a poche altre cose in giro, cosa che lo rende uno dei registi francesi più interessanti. tra i tanti, ricordo due ottimi film: l’incredibile Doppia pelle, e il successivo Mandibules. poi, in tempi più recenti, Yannick è perfino uscito nelle sale italiane, era in concorso ai festival, Cahiers du cinéma gli ha dedicato un numero, insomma ormai viene riconosciuto il suo talento e anche la sua perserveranza nel portare avanti un’idea di cinema molto diversa. la trama più interessante, tra le tante che si intrecciano, è senza dubbio quella dell’unico sbirro che non agisce per soldi, che non fa male a nessuno, completamente ossessionato dalla musica elettronica che produce nel salotto di casa e che non viene apprezzata da nessuno. a un certo punto un personaggio gli dice “ma chi vuoi che voglia ascoltare la musica di uno sbirro?”. nonostante il suo aspetto deforme (ha un tumore in testa e una benda sull’occhio) è l’unico normale, vive all’inferno ma ha la passione per la musica come unica ancora di salvezza. curiosità: il film è nato come breve cortometraggio, poi il regista ha aggiunto altri episodi man mano che otteneva finanziamenti, infine al montaggio ha mischiato tutto ed è venuto fuori quello che vediamo.

Film rosso (1994) – uno dei più grandi film degli anni ’90, e uno dei più grandi film di sempre. Kieslowski ho l’impressione che sia un regista un po’ dimenticato, non lo so, celebratissimo all’epoca, poi è morto giovane, ma adesso non lo vedo mai citato da nessuna parte. della trilogia dei colori, Film rosso è il capolavoro. tutti dicono Film blu, ma io non sono d’accordo. va visto più volte, un cinema misterioso, allusivo, raffinato. se n’era accorto perfino Tarantino – che una volta su due dice una cazzata – che a Cannes pare avesse detto che Film rosso meritava di vincere la palma d’oro,  che poi invece vincerà Pulp Fiction. film costruito in modo abilissimo, alternando vite parallele che invece, si scopre, più che parallele sono intrecciate. è difficile spiegare di cosa parla: va visto. la famosa immagine finale lo rende un oggetto poetico e misterioso. ci sarebbe da dire molto ma non dico altro, perché mi dilungherei oltre misura. voto 10.

Film blu (1993) – vedi sopra, il primo film della trilogia è quello più famoso ma non il più bello. cioè, bello, ma non all’altezza della fama. odio quando qualcuno dice che un film è “invecchiato male”, ma temo che Film blu sia invecchiato male. ovviamente parliamo di Kieslowski, un grande artista, quindi ci sono momenti altissimi, ma è il più scontato della trilogia, il meno potente. ripeto: stiamo parlando di Kieslowski, quindi anche una sola scena, una sola sequenza, vale più di intere filmografie (sì, mi piace Kieslowski). però è inevitabile fare dei paragoni con gli altri della trilogia dei colori, e Film blu lo metto all’ultimo posto.

Film bianco (1994) – dei tre è il più bizzarro, sicuramente lo preferisco a Film blu. più simile al Decalogo. uno strano film comico, ovviamente – essendo scritto da Kieslowski e dal fidato Krzysztof Piesiewicz – tutt’altro che semplice. scena memorabile quando il protagonista arriva in polonia dentro una valigia, rubata da una piccola banda di ladri, esce fuori, viene malmenato, rotola giù da una collina e guardandosi intorno, in un paesaggio bianco e desolato, dice “finalmente sono a casa”. da lì parte una storia assurda di trasformazione, totalmente imprevedibile. non so, vedo a volte nei canali social dedicati al cinema commenti tipo “ah, allora guardati un film polacco” contrapposti al cinema mainstream di solito statunitense, come dire “guardati un film palloso”. ma perché? Kieslowski non è molto più avvincente di un qualunque film della marvel? e Skolimowski? e Rybczyński? non ho mai capito perché nell’immaginario collettivo “polacco” è sinonimo di palloso. vabbè, a parte questo, Film bianco è divertente e ovviamente, essendo scritto da due che sapevano scrivere, ha una sua imprevedibile profondità. i protagonisti, dopotutto come quelli di Film blu, appaiono nel celebre finale di Film rosso, a chiudere la trilogia.

Trap (2024) – profezia: Shyamalan subirà il percorso critico di Hitchcock, da personaggio-intrattenitore di film giocattolo molto ben fatti, a autore rivalutato da tutti. non dico identico, ma qualcosa di molto simile sì. lo so, ora mi date del pazzo, ma ne riparliamo tra 20 anni. detto ciò, dopo i circa 10 anni di film orrendi (2006/2015), dal gioiellino The visit in poi ha fatto solo film belli. questo Trap è uno di quei film, come altri di Shyamalan, che rispondono alla domanda: è possibile che un film sia pieno di parti non credibili e incoerenti e scene improbabili ed essere comunque molto bello? decisamente sì. è pieno di film così e di solito io li amo, i famosi “film imperfetti”. hanno un fascino che il film perfettino acclamato dalla critica proprio per la sua geometrica perfezione non avrà mai. Trap è di questi adorabili e indimenticabili film imperfetti e bellissimi. la prima ora a dire la verità è perfetta, è un altro di quei film che sicuramente sarebbero piaciuti a Hitchcock, anche perché almeno fino a un certo punto è costruito tutto su un’idea di suspense geniale e una regia impossibile da criticare. situazione tipo Omicidio in diretta di De Palma, ma per tutto il film siamo portati a tifare per un serial killer (spoiler? non lo so, ho scoperto che tutti lo sapevano perché si vedeva nel trailer e dopotutto si scopre dopo pochi minuti – io però non lo sapevo). il film dalla parte dell’assassino ovviamente rimanda ancora a Hitchcock, solo che qua è veramente un bravo papà che vuole bene a sua figlia – o sembra, forse no, perché è anche uno psicopatico. come ha giustamente notato qualcuno – credo lo stesso regista – siamo anche in zona Unbreakable: potresti scoprire che tuo padre è un super eroe, oppure un super cattivo. di cose belle da dire ce ne sono tante, è un film che da alcuni è stato sottovalutato e ridotto a “Shyamalan che fa Shyamalan”, ed è così, ci mancherebbe. infatti peccato per gli ultimi 40 minuti, dove Shyamalan non resiste al suo più grande vizio, cioè i colpi di scena (stavolta non ce n’è uno enorme, classico suo marchio di fabbrica, ma tanti piccoli e inutili) e il film diventa un mezzo delirio, per non parlare della spiegazione psicologica, vabbè. sono inezie, di fronte a un film così potente. dopotutto l’intera idea si basa su un’azione davvero poco credibile (per chi l’ha visto:  i biglietti del concerto…), ma te ne freghi completamente, esattamente come in molti grandi film di Hitchcock. il cinema non dev’essere sempre plausibile. dopotutto immaginate di fare un sogno bellissimo, di quelli proprio potenti che ti ricordi per anni, non è che dopo ti chiedi “aspetta, però esattamente come iniziava? perché mi trovavo seduto lì?”. siamo in zona MacGuffin insomma. Josh Hartnett, il protagonista, funziona benissimo, quasi sempre ripreso in primo piano, ma a sorpresa anche Saleka Night Shyamalan, figlia del regista, cantante e attrice, che per la prima ora di film è quasi una figura di sfondo che non ti aspetti abbia qualche rilevanza a parte cantare canzoni pop, e invece poi passa a un ruolo attivo fondamentale.

Ho visto la tv brillare (2024) – qualche giornaletto avrà già scritto “il Donnie Darko queer”? non ho cercato, ma scommetto di sì. allora, lo ammetto, avevo qualche pregiudizio, perché dalle poche cose che sapevo – veramente poche – sembrava l’ennesimo film A24 (presentato ovviamente al Sundance) con un certo tipo di musica, un certo tipo di colori, un certo tipo di protagonisti, e infatti è così. il titolo originale è I saw the tv glow, e glow si può tradurre con luminosità, incandescenza, bagliore, brillare, cose di questo tipo. quindi il film, sia nelle musiche sia nella fotografia, ha un’estetica quasi vaporwave, con una scelta piuttosto facile e prevedibile verso il rosa, il blu e quindi il viola e le varie sfumature, tutto abbastanza acceso, stile neon. però non è un passato idealizzato e confortante, è più un passato inquietante: lo stesso protagonista non è un emarginato/disturbato come Donnie Darko che in realtà era un super figo – no, questo è veramente uno sfigato. però il film è cool in tutto, i titoli di testa, le scritte, l’ha prodotto Emma Stone, l’ha distribuito l’A24, insomma è costruito per essere qualcosa di cool – scusate, sembro cinico, è una cosa che odio – ma in realtà, so che sembra contradditorio, è anche un film sentito, autentico, ispirato. è un film che parla di questioni identitarie in maniera non del tutto – un po’ sì – didascalica, ma sceglie intelligentemente una strada criptica, simbolica, misteriosa – siamo anche dalle parti di Lynch, per capirci, ma anche del telefilm Buffy. questo è un aspetto che lo rende interessante, però, nonostante i buoni propositi, non capisco l’enorme entusiasmo per questo film. addirittura anziani come Scorsese e Schrader si sono espressi parlandone benissimo. forse proprio perché su questi temi è difficile fare film originali, e questo sicuramente c’ha provato. non so. probabilmente diventerà un cult per trans e persone queer cresciute negli anni ’90 primi 2000, oppure sarà ricordato come un capolavoro di questi anni, “un film importante” come si sta già facendo. a me non ha particolarmente emozionato, ma mi è piaciuta l’ossessione per una serie tv che diventa più vera della realtà, questo sì.

Pokémon: Detective Pikachu (2019) – un noir fantascientifico surreale, un noir weird, tra Chi ha incastrato Roger Rabbit, Blade Runner e i Gremlins. io non so nulla dei pokemon, non ho mai capito cosa sono, quindi ho visto il film in quanto film e non in quanto film legato al fenomeno mondiale bla bla bla. sì, scelgo i film in modo random, ogni tanto bisogna affidarsi completamente al caso: di solito mi basta un’immagine, una suggestione, e mi dico “perché no?”. la cosa bizzarra è che non me ne sono pentito, e anzi me lo sono visto tutto sentendomi anche piuttosto coinvolto. un difetto enorme secondo me è che l’aspetto più interessante, cioè la convivenza tra pokemon e umani, o comunque il loro rapporto anche conflittuale, viene completamente depotenziato nel film: i due pokemon principali che vediamo (non dico quali, non sia mai che c’è qualche matto che se lo vuole vedere) di fatto sono umani all’interno del corpo-pokemon. quindi quello che sembrava un interessante rapporto tra umano e completamente-altro, si scopre essere un rapporto umano-umano. forse al momento è sembrata un’ottima trovata di sceneggiatura, ma di fatto rovina l’unico vero aspetto interessante. però il film funziona comunque, in qualche modo. per una coincidenza strana, il protagonista è lo stesso di Ho visto la tv brillare, il film che ho visto prima di questo, e che in certo senso parla sempre di persone dentro altri corpi.

L’ultima onda (1977) – alla fine Peter Weir forse in tutta la sua vita ha fatto un solo grande film, Picnic ad Hanging Rock, uno dei miei film preferiti di sempre, nonché sfondo del mio desktop credo per quasi 10 anni. ne ha fatto altri abbastanza interessanti, tipo Mosquito Coast, ma Picnic ad Hanging Rock resta irripetibile. e due anni dopo quello, aveva fatto questo L’ultima onda, oggi credo abbastanza dimenticato – e invece è interessante. tra l’altro, volendo, è anche un film sui cambiamenti climatici: la storia inizia con tutta una serie di eventi climatici estremi (all’epoca se ne parlava già, quindi non è così strano). c’è questo avvocato bianco che si ritrova coinvolto in un caso di omicidio tra aborigeni urbani a Sydney, ma poi inizia ad avere visioni apocalittiche legate a un’antica profezia aborigena. il tutto è raccontato in modo molto misterioso. il film suggerisce che la cultura occidentale non può comprendere del tutto la spiritualità aborigena, che possiede una profondità che sfugge alla logica razionale. è uno sguardo inevitabilmente bianco: questo mondo “misterioso” è misterioso semplicemente perché appartiene a un’altra cultura e parla una lingua che non capiamo. l’atmosfera misteriosa – e indubbiamente suggestiva – può essere vista anche come una forma di esotismo. ma non c’è niente di male, anzi direi che il film forse è proprio su questo, cioè su questo mondo che resta opaco allo sguardo occidentale e sulla tensione tra il bisogno di comprenderlo e l’impossibilità di farlo davvero. in questo senso, il mistero non è nella cultura aborigena, ma nello sguardo che cerca di decifrarla senza appartenervi. in realtà, al netto della pioggia nera, delle rane e delle pietre magiche, non so cosa volesse dire veramente Weir con questo film, la sensazione è che semplicemente sfrutti il potenziale magico e misterioso di una cultura non bianca (come già detto, magica e misteriosa proprio perché vista dalla lente bianca) per sviluppare una sorta di strano thriller apocalittico ossessionato dall’acqua, a volte noioso, a volte ipnotico e onirico, sicuramente affascinante. condivide con Picnic a Hanging Rock l’atmosfera enigmatica, ma lì il vero mistero era la natura, irrazionale e indecifrabile, qua invece è tutto più esplicito, cosmologico (si parla di cicli, di profezie, ecc.) e spirituale, sebbene comunque abbastanza enigmatico. la sensazione, in entrambi i film, è che i bianchi non ci facciano un cazzo in Australia. se Picnic a Hanging Rock raccontava il mistero della natura filtrato dall’inconscio coloniale, L’ultima onda lo riconduce a un discorso spirituale che l’occidente non può comprendere. bella l’ultima immagine, con il protagonista di fronte a una grande onda, forse vera, forse solo una visione. di qualche anno dopo, in tema “aborigeni visti dai bianchi”, interessante anche Dove sognano le formiche verdi di Herzog.

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