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TESTAMENTO

un libro, 95% cose vere, 5% cose leggermente censurate. un diario dell’estate, un trattato sulla morte, un intrigo internazionale, una serie di cazzate, un flusso di coscienza: è più o meno questo. si parla di politica, sagre, zanzare, auto in fiamme, incontri, apparizioni, Monica e Penelope Cruz, complotti, gommisti – c’è molto dolore e pochissima serietà. lo potete leggere qua sotto, oppure qua grazie a robin book, in vari formati (pdf, epub) anche stampabili, oppure potete anche non leggerlo.


TESTAMENTO

estate 2025

 

“Che vada a cagare anche il sole”

(la compagna benzinaia, qualche giorno fa)

Si sta bene solo al supermercato: aria condizionata, si può camminare e non ci sono insetti. Tra gli scaffali solo anziani, pallidissimi, esangui. Ma dopotutto qua sono tutti pallidi, è normale. Lo sono anche io, per la prima volta nella mia vita. Nessuno sta al sole. I vecchi si vestono male, non gli importa più dello stile, ma credo non gli sia mai importato. Canottiere brutte, ciabatte, boxer inguinali, pelle trasparente, si vedono le vene. Comprano gelati, dolci, prosciutto e melone. Quando esci dal supermercato l’ambiente si rivela ostile, inadatto alla vita. La macchina è bollente, non si respira. Niente aria condizionata, mai avuta in tutta la mia vita. Andiamo subito a casa, perché i surgelati si potrebbero scongelare e noi potremmo morire. Io ho un fungo sulle spalle che mi brucia quando sto al sole. Non abbiamo le zanzariere, con le finestre aperte la casa si riempie di zanzare e pappataci. Ci sono almeno tre bollette non pagate. Da quando siamo usciti a quando siamo tornati, a Gaza sono state uccise 18 persone.

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“Tra gli effetti del riscaldamento delle acque c’è lo stato di salute delle gorgonie e dei madreporari, specie target del progetto di monitoraggio. Perdono i loro colori accesi, sbiancano e in alcuni casi mostrano segni di necrosi.”

(articolo di giornale)

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Su internet vedo gli eventi estivi delle città: festival di letteratura, concerti interessanti, spazi politici che ospitano iniziative sui videogiochi indipendenti. Sembra che la gente ogni giorno abbia qualcosa da fare la sera. Qua, una volta chiuso il Crai, il paese è vuoto. Su una panchina una commessa del supermercato beve delle birre. C’è una specie di bar, ma non è proprio un bar, con pochi clienti e tutti molto decadenti. Sono tutti pallidi, anche loro. Nemmeno gli agricoltori qua sono abbronzati, perché stanno sempre su trattori moderni con l’aria condizionata. Alle quattro del pomeriggio stanno già bevendo birre, fumano una sigaretta dopo l’altra, sono vestiti male, hanno lo sguardo spento, depresso, votano Lega. Alcune locandine informano delle numerose sagre dell’agnolotto, tutte uguali, in paesi a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro.

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Qualche settimana fa parlavo con una persona in uno spazio politico, facevo i complimenti per il posto, per le attività, poi questa persona mi dice “beh adesso, sai com’è, non faremo più niente”. Io non capisco, lui continua “sai com’è, non c’è più nessuno, spariscono tutti”. Lo fisso con sguardo interrogativo, in attesa che chiarisca, visto che io non arrivo a capire perché le persone dovrebbero sparire improvvisamente. Vedendomi confuso, finalmente chiarisce: “è estate”. Solo a quel punto capisco: intende dire che la maggior parte delle persone va in vacanza. Quando l’ho capito ho annuito e ho detto “ah beh, certo, chiaro”.

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“Io non capisco perché la gente sta in spiaggia sotto al sole”

(Roberto, compagno agricoltore)

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Il gatto sta male, non riesce a mangiare. Per molti giorni gli unici posti dove andiamo sono negozi di cibi per animali. Fotografo alcune delle scatolette in vendita: tonno con riso integrale e tè verde matcha, tonno con spigola e patate, tonno con sogliola e piselli, tonno con cozze e olive, orata con granchio, salmone con riso integrale e goji, cervo e zucca, agnello con zucca e mirtilli, quaglia con zucca e melograno. I gatti mangiano molto meglio di me. Di un cibo leggo la lista degli ingredienti: pollo, farro, avena, aringa, uova, barbabietola, olio di pesce, carote, banana, kiwi, mango, papaya, ananas, spinaci, curcuma, aloea vera. Io non ho mai mangiato la papaya, e il mango solo qualche volta. Comunque proviamo di tutto, per giorni cerchiamo di farlo mangiare. Alla fine è morto. Ci sono rimaste molte scatolette. Forse le mangeremo noi.

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La cinefilia è depressione. Perché vuol dire chiudersi in ambienti ristretti, al buio, e invece di vivere, guardare altre persone che fanno finta di vivere, e farlo tutti i giorni, più volte al giorno magari, se vuoi essere un vero cinefilo. Una persona normale non guarda tutti quei film. Sono attori, stanno fingendo, a volte non sanno nemmeno di cosa stanno parlando, e alla fine dei film, nei titoli di coda, ci sono i loro veri nomi. Come se non bastasse, molti di loro sono perfino morti. La cinefilia è necrofilia. L’estate, si sa, è la stagione peggiore per i morti, perché col caldo il processo di putrefazione è accelerato. Per questo il cinefilo sta al buio, nella stanza più fresca della casa, con uno o più ventilatori che non raffreddano il corpo ma almeno riducono l’umidità e rallentano la proliferazione batterica. Il frinire delle cicale e il ronzio del ventilatore si integrano alla colonna sonora di ogni film.

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“Agosto, steso lì sul divano e la mente in nessun posto”

(Agosto, Diaframma)

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Insomma quest’estate la sto passando in una stanza, quasi sempre in penombra o al buio, sul divano a guardare film. Inizio la mattina, finisco la notte. I miei occhi non funzionano molto bene, ma cerco comunque di portarli al limite e a volte oltre. Non potendo fare praticamente nient’altro, di fatto la cronologia delle visioni costituisce una sorta di diario. Si può dire che al momento non ci sono prove concrete della mia esistenza, se non la lista dei film che vedo.

 

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“Ricorderemo il mondo attraverso il cinema”

(Lav Diaz)

 

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Serata matta: in pizzeria. È un posto che mi piace, molto piccolo e vecchio, economico, c’è un’atmosfera tra Twin Peaks e Kaurismaki. Ovviamente a conduzione famigliare, la moglie fa le pizze, il marito sta ai tavoli e al bancone. Ma oggi il marito non c’è, a dirigere la pizzeria è il figlio. È lui che ci accoglie, ci indica il tavolo, ci dà i menu. È molto gentile e professionale e ha solo 11 anni. La pizzeria è piena, è domenica sera, è estate, tutti i tavoli sono occupati. Il bambino non perde mai il controllo, è gentile, veloce, attento a tutti i clienti. Alcuni sorridono, perché ha solo 11 anni, mentre altri, come noi, non ci fanno più caso. Dopo un po’ viene al tavolo e col taccuino prende l’ordine, senza sbagliare nulla. È uno di quei posti dove si conoscono tutti, quindi molte persone parlano da un tavolo all’altro. Addirittura vedo uno alzarsi e andare a prendersi le pizze da solo. Ci sono anche i solitari, che ho notato anche altre volte: maschi in età da pensione, che ordinano piatti come scaloppine, spaghetti allo scoglio, patatine fritte, e mezzo litro di vino. Ogni tanto parlano con gli altri tavoli, ma per la maggior parte del tempo stanno zitti. Uno di loro chiede al bambino, vedendolo molto occupato, “è meglio andare a scuola?” e lui risponde secco “NO”. Il padre, che nel frattempo è arrivato, al momento di pagare mi spiega che il figlio è in grado di servire senza problemi 27 persone. Mi colpisce la precisione, evidentemente 28 sono troppe.

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“Stiamo per entrare in sala operatoria con uno che si è infilato una lampadina in culo”

(compagno che lavora in ospedale, su Telegram)

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Come minimo buchiamo: ho detto così, e abbiamo bucato. Erano mesi che immaginavo di bucare, finalmente è successo. L’ultima volta che ho cambiato una ruota non me lo ricordo, forse vent’anni fa. Ma non lo facciamo e andiamo direttamente dal gommista. Mi chiede di dove sono, dico che abito qua. Questa cosa sorprende sempre gli indigeni perché si conoscono tutti fra loro, ma noi veniamo dal bosco. Però non sono di qua, gli dico. Mi chiede di dove mentre smonta le ruote. Quando gli dico Sardegna c’è la solita reazione che mi accompagna da anni: e perché sei venuto a vivere qua? Perché no? dico. Lui insiste: ma cosa ci fai qua? È sempre così: le stesse persone che vivono qua, non la trovano una scelta sensata. La Sardegna viene vista come un luogo ideale dove vivere, anche se temo che abbiano in mente principalmente le spiagge. Faccio la solita battuta, che quelli del luogo capiscono benissimo: beh, questo è un posto tranquillo. E infatti si mette a ridere. Vuole che tocchi con le mani la ruota per sentire l’usura del trapezio. Dice: io ci tengo a far capire le cose. Mi piace come approccio. Tocco la ruota, non capisco nulla, annuisco alla sua spiegazione. Non cambierò il trapezio, qualsiasi cosa sia, perché non abbiamo i soldi.

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Se penso alla mia immagine preferita forse mi viene in mente un’automobile che brucia. Mi immagino poca luce, tramonto, crepuscolo, o proprio buio, e questa macchina in fiamme. Non so perché, ma è così da anni. Mi piacciono anche gli alberi, soprattutto visti da sotto, i gatti, la pizza, il sorriso della mia compagna, ma nessuna di queste può battere una macchina che brucia. Credo ci siano tante spiegazioni neurologiche del perché mi piace guardare un’auto in fiamme o in generale il fuoco, ma non mi interessano tanto. Uno dei miei più grandi rimpianti, almeno finora, è non aver mai incendiato una macchina. Quando l’ho detto a un amico lui mi ha risposto che era meglio così perché è inquinante.

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Un’altra immagine a cui penso spesso sono i cani con le rotelle. Amo i cani con le rotelle. È un’immagine triste e simpatica allo stesso tempo. Di fatto sono dei disabili, ma hanno questo sguardo un po’ scemo, non lo so, mi fanno ridere. In realtà dipende da come sto, a volte mi mettono tristezza, malinconia, a volte invece allegria. Di sicuro non sono indifferente all’immagine di un cane con le rotelle.

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Era in Mosquito Coast, mi pare, che dicevano che quando uccidi una zanzara il sangue che vedi è il tuo. A volte è così, a volte invece potrebbe essere il sangue del tuo vicino di casa, o di un animale. Non abbiamo le zanzariere e siamo circondati da un bosco, quindi le zanzare mi pungono in media 27 volte al giorno, come i clienti che riesce a servire il bambino della pizzeria. Passo buona parte della giornata a lamentarmi delle zanzare, non riesco a raggiungere quello stato di illuminazione per cui le accetti e basta. Eppure, sono tra i pochi eventi di certe giornate. Se non ci fossero nemmeno loro, le zanzare, il tempo sembrerebbe sospeso. Se dovessi tenere un diario della giornata potrei segnare le varie punture con gli orari precisi. Sono un po’ come le sigarette, che non fumo più e mi mancano. Servivano a scandire il tempo: non potevi dire di non aver fatto niente, perché ogni tanto avevi fumato qualche sigaretta. Ora ci sono le zanzare. Il mio sangue vola via in piccole quantità, magari poi si posa sulla spalla del mio vicino, che con una manata lo spiaccica. Poi muore d’infarto, e il mio sangue viene seppellito con lui, che non ho mai salutato e che non so come si chiama.

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“L’inferno esiste, ma è vuoto”

(attribuzione incerta)

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C’è uno spazio di affissione, nel parcheggio in paese, dove necrologi e locandine di sagre e concerti si confondono. A volte si legge di un morto, ma la foto è in parte coperta dal menu della trentesima sagra dello stufato d’asino. In altri casi c’è il faccione sorridente dell’ospite musicale in mezzo ai necrologi, e sembra che il morto sia lui. Morti e cantanti si confondono, ma anche morti e spettatori. Tra le band ospiti noto un gruppo che si chiama “I nichilisti dello swing”. In questo momento però la mia sagra preferita è la Sagra del Cavolo Liscio con serata di Ballo Liscio con l’orchestra Liscio Simpatia. Cocktail party con Dj Robertino e processione e santa messa in onore del Divin Salvatore.

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Sul fiume c’è una specie di gara di imbarcazioni costruite sul momento con cartone e nastro adesivo. Ce ne sono 70, tutte con i loro nomi buffi e gli equipaggi. Lo scopo è percorrere pochi metri, partire da un punto e arrivare a un altro, passando tra due boe, senza affondare. Alcune affondano subito, alcune iniziano ad affondare a metà ma a sorpresa tagliano il traguardo. Altre, pur fatte di cartone e nastro adesivo, arrivano senza problemi a destinazione. C’è molta gente, birre, atmosfera allegra e due tizi che fanno la cronaca sgolandosi nel microfono. A me sembra un’evidente metafora della vita. Quelle ridicole barchette, fragili e un po’ buffe, tenute su con il nastro adesivo, sono i nostri corpi. C’è chi muore subito, chi va avanti e più va avanti più inizia a disfarsi, ma con la forza di volontà, o forse la disperazione, continua a remare, nella speranza di passare tra le boe. Infine c’è chi attraversa il fiume senza problemi, senza mai imbarcare acqua, e arriva alla giusta fine con la barchetta intatta. Tutte, senza distinzioni, vengono ammucchiate in una sorta di cimitero discarica.

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“Cosa succede se mangio mozzarella tutti i giorni? Risponde l’esperta”

(titolo di giornale)

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Odio la polizia. L’ho sempre odiata. Odio la polizia e i poliziotti. A volte mi sorprende che altre persone non odino la polizia, ma è solo perché abbiamo avuto percorsi diversi. Ho decine di ricordi, tutti negativi. Avevo 14 anni quando i poliziotti mi inseguivano nella notte, noi scappavamo nei campi vicino al fiume, loro ci puntavano i fari della macchina, ma riuscivamo a sparire e tornavamo a casa sporchi di fango. Un paio d’anni dopo un poliziotto mi ha minacciato, e io me la sono legata al dito. Poi anni di piccoli scontri, e il ricordo della perquisizione. La mia camera mai vista così ordinata, avevano tirato fuori cose che non ricordavo di avere e avevano sistemato tutto con un ordine maniacale. Poi M. perquisita, umiliata, R. obbligato a spogliarsi davanti a lei senza motivo, solo per umiliarlo, R. che piange, loro che godono. Io che li accompagno in questura, una sbirra che li tratta male, come dei poveri idioti, solo perché erano effettivamente poveri ma di certo non idioti, finché non vede apparire me, percepisce una proprietà di linguaggio diversa, cambia un po’ atteggiamento, ma resta stronza. R. che viene condannato ingiustamente e ancora maltrattato dalla polizia. Storie di amici picchiati dalla polizia. Due amici aggrediti da poliziotti, lui massacrato, lei sbattuta a terra con una bambina di tre mesi in braccio. Sgomberi. Accanimento, lo Stato come stalker. E poi, fa ridere, lo so, ma questi cazzo di posti di blocco, con questi cosplayer che ti chiedono il documento, se ne vanno, poi tornano e ti dicono che puoi andare. Le discussioni in stazione, solo perché mi metto in mezzo in un caso evidente di profilazione razziale. F. che mi racconta di sua sorella stuprata da un poliziotto. A 14 anni il mio sogno era bruciare una macchina della polizia. A numeri invertiti, non ho cambiato idea.

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Che poi, basta non riconoscere la loro autorità, ci siamo detti a volte. Ma non è così semplice, non basta. È come essere in guerra e dire che tu non la riconosci come guerra. O essere sotto un temporale e dire che non ti bagni, perché non la riconosci come pioggia. È un atteggiamento interessante, in parte comprensibile, ma non basta. La realtà materiale e coercitiva dell’autorità statale non sparisce perché tu decidi di non riconoscerla. Non esiste solo nelle nostre menti, cioè, anche, ma non solo. Certe parti dello Stato le puoi ignorare, fare come se non esistessero, ed è molto saggio. Per dire, puoi ignorare la legge, le tasse. Ma non puoi ignorare la polizia. Peggio le zanzare o la polizia? Beh, le zanzare le posso schiacciare, e ci sono solo in estate. Quindi sicuramente peggio la polizia.

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“Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”

(Tony Effe)

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Guardo la gatta, quella sopravvissuta, quella non ancora morta. Dorme tutto il giorno, non fa nulla. Ogni tanto si stiracchia, cambia posizione, oppure sbadiglia. E poi dorme anche la notte. Non sembra avere bisogno di niente, forse ogni tanto si alza per bere, tutto qua. Forse non pensa, si gode qualsiasi superficie, il tavolo, la sdraio, il muretto, il pavimento, il prato. Sa essere comoda ovunque. Non ha bisogno di film, di parole, di notizie, di confronti, di Instagram. Semplicemente se ne sta là a dormire. A lei devo apparire un completo idiota.

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Nuovo manifesto: edizione numero 26 della sagra della lumaca. Mi colpisce il menu, che vorrei riportare integralmente: salame sotto grasso, lingua in salsa, bistecca in carpione, spaghetti allo scoglio, tris di lumaca, risotto con lumache, spaghetti al ragù di lumaca, lumache al verde con polenta, lumache alla veneziana con polenta, bis di lumache con polenta, lumache impanate con patatine, rane impanate con patatine, bistecche impanate, verdure grigliate, fritto di mare, gorgonzola, tartufatina. Programma musicale: venerdì Follia 2000, sabato Free music band, domenica Loris Gallo, lunedì Shary band. Dopo gli spettacoli è previsto il dj-set. In fondo alla locandina una scritta in piccolo, che allude a possibilità disastrose: “L’organizzazione declina ogni responsabilità per eventuali danni a cose e persone prima, durante e dopo la manifestazione”.

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“… cerco, cerco. Tento di capire. Tento di dare a qualcuno ciò che ho vissuto e non so neppure a chi, ma non voglio tenere per me ciò che ho vissuto.”

(Clarice Lispector, La passione secondo G. H. – libro che non ho letto)

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Pensavo ai necrologi e alle sagre… Ma c’è davvero differenza tra un vivo e un morto? Tra certi vivi e certi morti no, non c’è differenza. Molti di noi sono morti in vita, esistiamo senza che nessuno se ne accorga e poi senza rumore spariremo velocemente, non ci sarà nemmeno un vicino di casa a dire “salutava sempre” perché non lo salutavamo, tutto continuerà a funzionare a prescindere dalla nostra presenza materiale, e una volta fisicamente scomparsi, poco dopo la decomposizione, non resterà nulla, nemmeno i ricordi. C’è poca differenza tra certi vivi e certi morti, molti di noi si sentono vivi solo per le funzioni biologiche, spesso problematiche, più causa di disagio che altro. Possiamo però provare a lasciare delle tracce, delle parole, dei ricordi. Non per non essere dimenticati, anche perché, come i nostri reni e il nostro pancreas, anche queste tracce spariranno, ma perché la nostra vita non sia solo nostra, per condividerla. Solo in questo vedo un senso.

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Le lumache mi ricordano casa, per tanti motivi. C’era sempre qualcuno che le raccoglieva a bordo strada dopo la pioggia, oppure qualcuno che le vendeva. Le mangiavamo solo io e mio padre, quindi me la ricordo come una cosa nostra, come molte altre, tipo l’anguilla e la murena. Le abbiamo mangiate sempre allo stesso modo, non so se sia una ricetta “tradizionale”, ma le cuocevamo nel sugo di pomodoro con la menta. Quando le mangiavamo usavamo una decina di fazzoletti a testa, ed era tutto un risucchio, posso capire che a mia madre facessimo schifo. Mio zio C. nel portafogli aveva un piccolo stecchino metallico che usava per mangiare le lumache. Non so perché se lo portasse dietro, ma se c’erano lumache da mangiare, lui era pronto. Poi a un certo punto, un periodo, ho passato molti giorni con le lumache, anche tutto il giorno. Giravo dei video, le mettevo ovunque, su una vecchia radio, su una vecchia bambola, sulle piante. Da qualche parte ho ancora una cartella con ore di girato di lumache. In un orto che ho avuto, invece di usare il lumachicida, facevo una cosa ancora più crudele: le affogavo nella birra. Agli angoli dell’orto avevo sistemato dei bicchierini interrati con birra e acqua, le lumache venivano attirate, ci cadevano dentro e morivano affogate. Ogni mattina svuotavo i bicchierini e ci mettevo un altro po’ di birra. Nell’orto che ho adesso ho deciso di non usare nulla e le lumache si sono sbranate completamente otto insalate, cioè tutte quelle che avevo piantato.

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“Come arredare la camera da letto: 29 idee per vivere sogni felici”

(titolo di giornale)

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La mattina, a letto. Il sole già alto, le cicale, una motosega in lontananza, la delusione di essere sveglio. Mi alzo, dolore ovunque, zanzare nel bagno, il mio riflesso nello specchio. Leggo subito notizie da Gaza. Bevo il tè, accendo il ventilatore, guardo dei meme politici su Instagram. Mi appaiono solo notizie da Gaza e meme politici, ho bloccato tutto il resto. Guardo fuori: il bosco, l’orto malandato, uccelli colorati e meravigliosi che purtroppo non conosco.

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Parlo con delle giovani, 20 anni o poco meno. Dobbiamo fare un progetto insieme, mi piace la loro energia, il loro seguire il flusso, l’essere aperte alle possibilità, del tipo “fanculo, perché no? Proviamo”. Spesso non trovo questo tipo di energia nei miei coetanei. È come se si trovassero di fronte a un’onda da surfare e iniziassero a pensare a cosa c’è sotto l’acqua, cosa c’è sopra, a quanto alta è l’onda, alle tasse da pagare, alla tavola, mentre bisognerebbe cavalcarla e basta. Succede che non la cavalchi, l’onda passa, la corrente ti porta al largo, affoghi. Il tuo corpo verrà ritrovato 10 km più avanti su una spiaggia, da un bambino. Il mare ti ha tolto il costume, sei nudo, la pelle è consumata dal sale, decine di meduse si sono attaccata alla tua faccia, facendoti sembrare un alieno ridicolo. I cirripedi hanno iniziato ad accumularsi nei genitali. Il bambino resterà traumatizzato a vita. Verrai seppellito, i giornalisti cercheranno delle tue foto sui social e la tua faccia venuta male, in una foto di un matrimonio del 2018, finirà su tutti i principali giornali online. Troveranno info su di te, gli amici organizzeranno un torneo di calcetto in tuo nome, anzi, ancora peggio, un concorso letterario. Parteciperanno racconti e romanzi orrendi, che non avresti mai letto, si vince pure poco. La tua vita da morto diventa peggio di quella che avevi da vivo, che già non era granché. Tutto perché di fronte a quell’onda ti sei messo a farti le seghe.

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Ancora giovani. Così come osservo perplesso la gatta, quando scendo in paese osservo i giovani che a volte stazionano tra il supermercato e il parchetto. Indossano sempre, tutti i giorni, tutto l’anno, abbigliamento sportivo. Le ormai celebri calzettone di cotone bianco tirate su a metà polpaccio, come mio padre quando va a fare le camminate. Poi tute, pantaloncini sportivi, tshirt bianche, in generale comodità. Sembra l’ora di ginnastica. Si muovono al rallenty, camminano pianissimo, molli, come se fossero anestetizzati. Mi aspetto che da un momento all’altro si accascino a terra. Quando sono in gruppo sembra di guardare il giardino della casa di riposo, quando ci sono i vecchi fuori in attesa delle visite. Sono vestiti allo stesso modo e si muovono allo stesso modo. Perché sono così rilassati? Non è la droga. Non fumano, non bevono, hanno spesso bottigliette d’acqua per tenersi idratati. Per non fare il vecchio che non capisce, cerco di immedesimarmi, di entrare in contatto. Lascio perdere le differenze tra me e loro, non tanto di oggi che non avrebbero chiaramente senso, ma di quando avevo la loro età, perché è inutile, era un’altra epoca. E invece cerco le similarità, e le trovo nella pelle, pulita, liscia, sana. La pancia piatta, il fisico perfettamente asciutto, che si muove senza problemi. Io però ero frenetico, nevrotico, iperattivo. Loro sembrano appena usciti da una piscina riempita di morfina. E come per la gatta, alla fine provo un po’ di invidia.

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“Una puleggia è un organo di trasmissione del moto costituito da un disco girevole intorno al proprio asse”

(Wikipedia)

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Sala d’attesa del medico, due uomini parlano appassionatamente di motori. Cinghie, pistoni, valvole, radiatore, testata. Ma soprattutto citano più volte la puleggia. Io non ho idea di cosa sia la puleggia, non ho il telefono con me e non cerco su internet, mi limito ad ascoltarli come se parlassero un’altra lingua. La lingua della tecnica, la lingua dei motori, a me ignota. Pronunciano la parola puleggia più volte nella stessa frase e io sono sempre più curioso di capire cosa sia una puleggia e perché li appassioni tanto. Uno dei due, parlando di una puleggia, a un certo punto dice “ah guarda, l’avevo fotografata questa, ce l’ho qua” e tira fuori il cellulare per mostrare la foto della puleggia all’altro. Sono tentato di dirgli di farla vedere a me, così finalmente capisco cos’è, ma lui non trova la foto. Vanno avanti a parlare di motori e pulegge per circa mezz’ora, poi uno dei due entra dal medico e la sala d’attesa si fa silenziosa. C’è una vecchia mezzo addormentata, gli altri hanno tutti la testa fissa sul telefono e scorrono, chissà cosa guardano. Sono quasi tutti pallidi, quasi trasparenti, con le vene blu e verdi, tranne un paio molto abbronzati, sicuramente di ritorno dalle vacanze estive. Futuri necrologi.

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Soggetto per un film. Un alieno atterra in un paesino del Monferrato, proprio davanti alla sede locale degli alpini. A notarlo per primo è un uomo di 85 anni, ex alpino, che sta uscendo dopo una lunga serata di carte e qualche bicchiere di grappa di troppo. Non ci vede bene, non capisce cosa abbia davanti. Nota solo una ferita che perde sangue. D’istinto cerca di aiutarlo: mette la mano sopra la ferita per fermare quella che a lui sembra un’emorragia. Poi arrivano i carabinieri, e poco dopo i ricercatori. Nel giro di pochi giorni la scoperta: quel gesto, in realtà, corrispondeva all’atto sessuale dell’alieno. Quindi il primo essere umano ad avere un rapporto con un extraterrestre accertato dalla scienza è un ex alpino di 85 anni. Da qui parte un dibattito legale ed etico. L’alieno era consenziente? E l’alpino? O forse nessuno dei due ha davvero capito cosa stesse succedendo? Si stabilisce che si tratta di un caso rarissimo: sesso senza consenso, ma anche senza intenzione, da parte di entrambi. E non è tutto: l’anziano alpino, suo malgrado, resta incinto. A ottantacinque anni. La vita però continua: lui, col pancione, gioca ancora a carte, beve grappa e spara commenti omofobi con i suoi amici alpini. Diciamo che è la versione di Starman di Carpenter come l’avrei scritto io.

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Scopro che a un’ora da qua c’è il “Museo del rubinetto e della sua Tecnologia” (si chiama proprio così). Volendo potrei uscire ora e arrivare prima della chiusura. Un po’ più lontano invece il Museo dell’Ombrello e del Parasole. Alla fine non vado in nessuno dei due, poco prima della chiusura entro al Crai, dove vado ogni giorno. Compro le zucchine e il vino. Qua costa tutto tantissimo, è su misura per la gente del posto che è tendenzialmente benestante e ha la pensione. Da tempo ho notato una banconista che ha una presenza straordinaria. Di solito la fisso da lontano, forse sembro un maniaco. È magra, ha i capelli rossi tinti, la pelle chiarissima, un viso strano, da insetto elegante. Me la immagino in un film, ho dei flash di intere scene con lei. La faccio notare anche alla mia compagna, che sostiene di non averla mai notata. Decidiamo di comprare il pane per avere una scusa di vederla da vicino. Ma anche a mezzo metro da lei resta una presenza sfuggente, quasi non la vedo, nonostante sia davanti a me. È come se avvicinandosi si vedesse ancora meno.

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“5 alimenti sani insospettabili che gonfiano le gambe e – forse – non l’avresti mai detto”

(titolo di giornale)

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Non è una piazza, di fatto è un parcheggio, ma forse in passato fungeva da piazza. Comunque non ho mai visto nessuno, né una persona né una macchina, né il proverbiale cane. Ma il paese non è abbandonato, da alcune finestre sento voci umane e l’audio della televisione. Ogni tanto, raramente, passa una macchina. Di fronte allo spiazzo vuoto c’è un display con delle scritte scorrevoli. Oggi recita: “Lunedì 21 luglio alle ore 21 presso salone sotto Piazza Municipio si terrà un incontro sul tema: Zanzare, cosa si fa e cosa possiamo fare. La popolazione è invitata a partecipare”.

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“Io voglio morire nel pozzo Paperoga”

(chat su Telegram)

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Sono a letto, mi svegliano dei rumori. Sono le quattro del mattino. Accendo la torcia del cellulare, mi alzo e vado davanti al letto, vicino alla finestra. Sul pavimento c’è la gatta che sta mangiando il cervello di un pipistrello. Quindi mentre io dormivo lei ha non so come catturato un pipistrello e ora se lo sta sbranando. A dire il vero mangia solo il cervello, il resto lo lascia. Forse l’ha portato da fuori e l’ha tenuto per ore e alle quattro ha deciso di fare uno spuntino? Conduciamo due vite molto diverse, io e lei. Provo sempre di più invidia nei suoi confronti. Non capisco mai se gli istinti sono libertà o schiavitù. La lascio mangiare e torno a letto. Con la testa sul cuscino, mi addormento sentendo lei che mangiucchia la testa del pipistrello. E pensare che le compriamo delle crocchette costosissime con gusti super raffinati. Mi dispiace un po’ per il pipistrello, anche perché mangiano le zanzare. Penso anche: se la gatta fosse più grande, forse mangerebbe anche me.

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I compagni su internet. Alcuni iniziano a provocare altri con delle storie su Instagram, subito scatta la situazione “ci state dicendo come essere radicali, ma noi siamo più radicali di voi” e le solite accuse “fate tanto i radicali ma siete sempre dietro una tastiera” di solito detto proprio da chi sta sempre dietro una tastiera. Ma cosa c’è di male nello stare dietro a una tastiera? Non lo so, sono cresciuto in un’epoca ormai lontana, fatta di hacker che venivano considerati terroristi, fatta di pirati, di cultura cyberpunk, di punk circondati da cavi e fumo, di bellissime e matte iniziative online, tutti anonimi, ho partecipato a movimenti che nascevano proprio dietro a una tastiera, tra forum misteriosi, mailing list al limite della legalità, hacklab nei centri sociali – eravamo molto spesso dietro a una tastiera. Ma poi: io non posso stare sempre dietro una tastiera e poi la sera, con il favore delle tenebre, andare, ehm, a “compiere delle azioni”? Secondo questi compagni che dovrei fare, dirlo su Instagram? Ma poi quando chiedono “e voi cosa fate?” cosa sono, della Digos? Ma amic* compagn*, io magari lascio il telefono a casa e dico a un’amica di usarlo al posto mio per fingere di non essere uscito, mica vado a raccontare su internet cosa faccio. Ma poi cosa intendono loro con “fare”? Andare alle manifestazioni? Fare le assemblee? Tutto bene, per carità. Ma almeno non rompete i coglioni. Questa è la regola d’oro, direi l’unica regola. Non rompere i coglioni. Ho conosciuto veramente poche persone che non rompono i coglioni. Prima o poi lo fanno tutti. Prima o poi lo farò anche io. Oddio, forse lo sto già facendo. Vi chiedo scusa.

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Inoltre: gli anarchici dovrebbero recuperare tre concetti che io ritengo importanti – sempre nell’ottica voi fate come volete, io dico la mia, non è un’analisi collettiva, è un flusso di coscienza. Uno è il caos. Da fine 800 a oggi, in qualsiasi introduzione all’anarchia, bisogna scrivere che l’anarchia non significa caos, non significa disordine. Riprendiamoci questa parola. Per me il caos è la promessa che nulla è definitivo, che prima di tutto bisogna sabotare, hackerare, che ogni mappa è temporanea, che le possibilità sono infinite. Poi: tornare a fare paura. Quando si parla della “pista anarchica”, rivendicarla, perché no? Cos’è questo, l’ufficio stampa degli scout, l’ufficio marketing dei bravi cittadini? Se i fasci e i borghesi hanno paura, allora forse sta funzionando. Ultima cosa: si dice sempre “anarchia non vuol dire che ognuno fa come vuole” e poi si insiste sui concetti di regole, organizzazione, ordine. Ora, io dopo tanti anni, diciamo due decenni, ho fatto il giro e penso che alla fine anarchia voglia dire proprio che ognuno fa come vuole. Non dico come modello di società – non sto parlando dell’individualismo liberale, è chiaro – ma come approccio automatico verso gli altri. Io faccio così, lei invece fa così, nessun problema, fa come vuole. Ovviamente tenendo conto di quanto ho scritto sopra: prima regola, non rompere i coglioni. Quindi se vuoi fare così, fai così. Se vuoi prendere la quattro formaggi, prendila pure. Se vuoi ascoltare la trap, ascoltala, puoi fare come vuoi. Se vuoi incendiare i cassonetti, fai pure. Non ti va bene come stiamo facendo le cose? Parliamone, magari hai ragione, magari no, magari lasci perdere e fai come vuoi tu. Ci sono sempre almeno dieci modi di fare una cosa, la maggior parte giusti. Non lo so, penso che questi concetti vadano recuperati o quantomeno non esclusi a causa di quella strana ossessione di compiacere gli amici puliti e borghesi.

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Compleanno di N., 60 anni, sembra di poco più grande di me, incredibile. Con S. passano l’intera giornata fuori, quindi noi stiamo a casa loro con i cani. Sul mobiletto del salotto tanti biglietti di auguri per N., in frigo una torta. L’energia che mi trasmettono i cani è come una droga. Mi piace il loro movimento, il loro calore corporeo, mi piace abbracciarli, toccarli, vorrei essere come loro. Noto che Z. ha i denti bianchissimi, molto più bianchi dei miei. Tutti e tre hanno un aspetto molto sano, credo che stiano meglio di me. L’accesso facile alle cure dentarie segna una linea netta tra le fasce sociali. C’è chi sorride sempre e chi si vergogna di farlo, o magari mette la mano davanti ai denti. Mentre sto nella veranda con vista sulle colline, tra divani, piscina, arredamento molto chic, cerco di immaginarmi la loro giornata fuori. Forse un aperitivo, poi ristorante, a seguire passeggiata sul fiume, anche se è una giornata molto calda. Magari avranno incontrato qualcuno, o saranno andati in un museo. Lei era vestita un po’ elegante, ora che ci penso. Leggo una rivista di S., è di quelle sul design e sull’arredamento, con foto di case da ricchi. Vedo case incredibili, mi sembra impossibile che qualcuno possa vivere davvero in posti così. Ma a colpirmi è una rubrica con un’intervista a una lampada di design. Cioè ci sono le domande della redazione e la lampada risponde, purtroppo limitandosi ad argomenti di design, illuminazione, stile, cose così, mentre sarebbe stato bello farle domande sul mondo, magari di geopolitica. Per il resto la giornata scorre incredibilmente noiosa, ma come sempre a un certo punto il sonno dà l’illusione che tutto finisca.

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“Sette motivi per andare in vacanza. E perché rinunciare fa male alla salute”

(titolo di giornale)

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Tra compagni con la A cerchiata, in una grande città. Solita offerta di birretta, solita risposta “non bevo birra”. Un compagno chiede: allora, andate in vacanza? Io rispondo ridendo: no, non abbiamo soldi, proprio zero. Il compagno replica: ah capisco, è perché avete comprato casa? No, non è per questo – da dove cazzo gli è venuta quest’idea? Non abbiamo comprato nessuna casa. Abbiamo soldi giusto per mangiare e mettere benzina nella macchina, e a volte nemmeno per quello. Il compagno mi è molto simpatico ed è un tipo in gamba, ma siamo su un piano completamente diverso della realtà. Non è colpa di nessuno, è solo che viviamo vite diverse e forse lui non incontra spesso persone come noi. Sicuramente io non capisco cose che riguardano la sua vita, non le posso nemmeno immaginare, ma è così che funziona. Ci facciamo qualche risata, io descrivo ironicamente la povertà, ridiamo ancora, poi lui va fuori a fumare e lo sento chiacchierare a lungo con gli altri delle vacanze che devono fare. Parlano delle isole greche, Mykonos, Santorini, Naxos, uno consiglia cibi dai nomi bellissimi e mai sentiti prima, e magari un giro in barca. Sulla carta noi abbiamo 80 euro, più 10 euro in contanti. Al ritorno decidiamo di andare in pizzeria, fanculo, la vita è una sola. Prendiamo sempre le stesse cose e sappiamo quanto fa: 24 euro.

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“Il caso della cacio e pepe sbagliata che ha fatto arrabbiare tutti”

(titolo di giornale)

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Parlo con un tizio, qua in paese. Mi è simpatico, inizia parlando di un ponte che devono costruire qua vicino e non so come si finisce a parlare della Russia, elogia Trump, parla del piano Kalergi, della razza bianca a rischio di estinzione, delle scie chimiche, degli ebrei che governano il mondo, di Israele che stermina i palestinesi (beh…), Bill Gates, Covid, vaccino, green pass, il cancro che si cura evitando l’acqua frizzante e mangiando frutta e verdura, le medicine che sono tutte inutili, durante l’olocausto sono morti solo 250mila ebrei, Hitler non è morto in Germania ma in sud America, fino all’apoteosi: le armi atomiche non esistono, sono un’invenzione per tenere impaurita la popolazione. A Hiroshima e Nagasaki non sono state sganciate bombe atomiche, altrimenti sarebbero state radioattive come Chernobyl. Ammiro la creatività dei complottisti, uniscono tutto. Non c’è un complotto specifico, è l’intera realtà a essere messa in discussione in una contro-narrazione complessa e affascinante. Quando ha parlato della paura gli ho mostrato il mio tatuaggio sul braccio con la scritta “fear is the mind-killer” e ha annuito soddisfatto, ma è rimasto molto perplesso quando gli ho detto che durante il Covid ho fatto il vaccino, anche se mi sono giustificato col fatto che dovevo viaggiare e prendere degli aerei. Non era convinto comunque. Interessante anche il mix di fonti alcune totalmente attendibili e altre completamente strampalate. Non è disinformato, è iper informato in maniera caotica. Tra una ipotesi molto fantasiosa e l’altra, dice anche cose vere: il genocidio israeliano contro i palestinesi esiste, ma lo mette sullo stesso piano di vari complotti un po’ assurdi. Certe sue ipotesi, presentate come semplici “dubbi”, finiscono per mettere in dubbio anche me. Vorrei crederci. “Poi mi dicono che sono complottista, ma io semplicemente mi limito a mettere in dubbio le cose e a unire i puntini”, mi dice. Gli propongo un’idea: “Secondo me la prossima grande guerra, prima o poi, sarà tra l’Occidente e la Cina”, lui scuote la testa “Ma no, assolutamente no! Ma figurati!” come se avessi detto un’assurdità. Mi fa ridere, perché due minuti prima stava negando l’esistenza delle bombe atomiche e collegando l’acqua frizzante al cancro, ma io passo per pazzo totale. Ma alla fine mi è simpatico, ci vorrei parlare ancora.

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Paesello sulla collina, con castello enorme e bizzarro costruito a inizio ‘900, poi diventato un mega laboratorio di produzione dell’eroina. Giriamo per il paese, ovviamente non c’è nessuno, non solo perché sono le 14.00 e ci saranno 38 gradi, ma anche perché in questi paesi non c’è mai nessuno. Incontriamo un bambino, appena ci vede ci chiede di dove siamo. Gli chiediamo se c’è un centro, una domanda molto da cittadini, quindi non da noi, dato che la maggior parte dei paesi non hanno un centro. Infatti non capisce, è confuso, allora gli chiedo se magari c’è una piazza. Ci spiega dove si trova il municipio, ma poi rilancia con le indicazioni di casa sua dove c’è anche la piscina. Ci sta invitando a fare il bagno da lui, ma dubito che i genitori sarebbero d’accordo. In mano ha una moneta, gli chiedo se sta andando a comprare qualcosa, un’altra assurdità visto che il paese non ha né negozi né bar, infatti lui mi dice che l’ha trovata per terra. “Grazie delle informazioni” gli dico, e ci salutiamo. Mi piacerebbe espropriare questo castello e, in linea con la sua storia, farlo tornare ad essere una fabbrica della droga. Però non eroina, altre cose che mi piacciono di più, md, ketamina, lsd, dmt, cose così.

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Su una di queste colline qualcuno ha avuto l’idea di piazzare una barca in mezzo ai campi. Una barca vera, di legno, lunga quattro metri, di quelle che si vedono ormeggiate nei porticcioli dei pescatori. Il mare credo sia a 150 km da qua. l’hanno dipinta di azzurro, come se il colore potesse convincerla che, sì, il mare è ancora lì – effettivamente milioni d’anni fa c’era – anche se adesso ha davanti a sé solo erba e grano. Dicono che il senso sia questo: colline e campi, a guardarli bene, sono come un mare in cui le onde non si muovono. Siamo andati a vederla, questa nuova attrazione del paese. Da terra non suscita grandi brividi, anzi, pare più un relitto portato fin qui da una tempesta secoli fa, come certi denti di squalo che si trovano sottoterra nelle colline qua vicino. Eppure, salendoci sopra, succede una piccola magia: per un istante, lo stomaco ti inganna e credi di essere davvero in mare – mi è sembrato di sentire il rollio, lo sciabordio, perfino l’odore della salsedine. È stato un istante, poi ho aperto la bocca per respirare e sono entrato in contatto con l’altra verità del luogo: le zanzare. Sciami interi, implacabili, ti finiscono negli occhi, ti ronzano nelle orecchie, ti invadono la bocca.

 

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A volte mio padre mi manda lo screenshot del suo contapassi per farmi vedere che ne fa 7500 in media al giorno. Non è male, considerando la sua età ma soprattutto che da lui ci sono 38 gradi quasi ogni giorno. Cammina più di me. Per il resto non comunichiamo molto. A volte mi manda link ad articoli scientifici in tedesco sugli uccelli o le falene, oppure, appunto, i passi che fa. Inevitabile, per me, vederli come i passi verso la morte. A un certo punto succederà. Il suo contapassi segnerà zero, per sempre. Il suo telefono finirà in qualche cassetto della sua casa. Quella che sembra una manifestazione di vitalità – in parte lo è, non ci sono dubbi – è anche un approssimarsi alla morte. Mi mancherà molto, lo so già. Mi manca già adesso, perché non lo vedo mai, e io rappresento uno di quei rari casi di persona che è sempre andata d’accordo col padre, tutta la vita e anche ora. Lo considero una persona interessante che mi ha dato tanto, di poche parole – se non per parlare di ornitologia e politica – con problemi che non ho mai capito, perché non si è mai aperto in alcun modo, se non, ogni tanto, con qualche breve cenno, una volta ogni quindici anni. Per me è sempre stato un punto di riferimento, una certezza. Ma so che a breve, mesi, anni, chissà, non ci sarà più. Tra i tanti ricordi, tutti positivi, ci saranno anche questi passi che faceva in estate, camminando nella campagna del suo paese, all’ombra degli alberi, magari approfittando dei momenti di maestrale.

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“Unghie rosse pomodoro: questa è la manicure di fine estate”

(titolo di giornale)

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In macchina, scoppia un temporale. A bordo strada un’apparizione: una ragazza dai lunghi capelli biondi che cammina sotto la pioggia lentamente, del tutto indifferente all’acqua che cade. In qualche modo sembra lei stessa la pioggia. Ha un vestito a tinte floreali e quando la supero vedo che è molto graziosa e sta perfino sorridendo. Si sta godendo la pioggia. Forse è uno spirito guida? Forse dovrei seguirla, forse dovremmo tutti seguirla. Così lenta, così aggraziata, così rilassata. Certo, magari è una stronza. Magari il suo idolo è Giorgia Meloni. O Netanyahu. Forse crede in cose che a me fanno ridere. Forse a lei fanno ridere cose che a me non fanno ridere. Abbiamo gusti diversi. Forse ha una risata fastidiosa. È permalosa, non lascia mai parlare gli altri, interrompe tutti. È una cinica. Se le chiedi che film le piacciono, dice i film Marvel e Sorrentino. È una borghese viziata. Avrebbe voluto fare la poliziotta, ma poi ha studiato economia. Legge Il Foglio. Penso a tutto questo e poi mi chiedo: perché? Perché distruggo nella mia mente l’immagine angelica di questa ragazza che cammina sotto la pioggia? Non mi sento di sbagliare. Come si dice, se incontri il Buddha per strada, uccidilo.

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Esattamente negli stessi tre giorni di fine agosto ci sono due sagre quasi identiche in due paesi diversi ma dal nome quasi identico: Frinco e Rinco. Sono a 5 chilometri di distanza l’uno dall’altro. Frinco, tra le varie cose, propone: serata latina, l’orchestra spettacolo di Meo Tomatis, il tradizionale gran polentone, agnolotti, grigliata, carpione. Rinco risponde con: l’orchestra Liscio 2000, crostini di lardo, trippa, galletto fritto, serata dance anni ’80. È uno scontro epico. Stessi giorni, programma simili, menu simili, ma ci sarà un solo vincitore. È come se fossero lo stesso posto in due realtà parallele. L’orchestra Liscio 2000 attraversa tutte queste realtà: è in almeno altre dieci sagre solo in questi giorni, credo che fatturino circa un milione di euro al mese. A Tuffo c’è la sagra della porchetta, una delle mille sagre della porchetta, e in sei sagre diverse ci sono tributi a Vasco e agli 883, praticamente ogni giorno ce n’è uno e in alcuni giorni più di uno. A Montechiaro invece c’è la sagra del vitello, la locandina dice “dalle ore 22.00 si potrà ammirare la cottura del vitello intero allo spiedo”. Mi colpiscono locandine come la 54esima sagra del peperone o dello stufato d’asino – cioè, quale costanza nel portare avanti per 54 anni sempre la stessa cosa. Ogni anno, da 54 anni, qualcuno a un certo punto dice: ci siamo quasi, è il momento dello stufato d’asino. Nessuno che dica mai: sapete che c’è? Io quest’anno non ne ho voglia, facciamo una cosa diversa.

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“La realtà è per le persone che non riescono ad affrontare la droga”

(sentita dire da Tom Waits)

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A parte il bel gioco di parole, il rovesciamento paradossale, la frase è davvero sensata. Perché la droga a volte sa essere davvero impegnativa, non solo per l’eventuale dipendenza, ma anche per la singola esperienza in sé. Mi è capitato anche di recente di pensare “ma perché mai una persona normale dovrebbe ridursi così, passare ore a interagire con la realtà in un modo così diverso, così difficoltoso?”. C’è un costo fisico e cognitivo. Quindi capisco le persone che ho cercato di evangelizzare che mi dicevano “sì sì, interessante, sarei anche curioso – ma no”. L’errore forse è pensare che sia una scorciatoia per sfuggire alla realtà. Di fatto non è così: è più come attraversare un’altra realtà, spesso più ardua da gestire di quella di tutti i giorni, anche perché non ci siamo abituati. Direi che è proprio questo cambio di percezione e quindi di prospettiva a renderla così intrigante. Dopotutto a molti di noi piaceva la febbre quando eravamo bambini – ecco, quanti di quelli poi hanno sperimentato le droghe? Ricordo un amico che mi disse: hai mai provato a farti una sega quando hai la febbre alta? È bellissimo. Chissà se ora fuma il crack. L’ultima volta che l’ho visto, su Facebook, lavorava per Tecnocasa e indossava un completo con giacca e cravatta. Era sorridente.

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Molti anni fa, estate. Con un amico eravamo andati in Costa Smeralda a vedere com’era (non c’eravamo mai stati) e a ubriacarci. C’erano vari personaggi famosi, attori, attrici, cose così. Beviamo, la notte lui sparisce, riappare solo il giorno dopo, quando si uniscono a noi degli altri amici. Alla domanda su dove era stato, il mio amico risponde in modo imprevedibile: mi sono scopato Penelope Cruz. Effettivamente sapevamo che l’attrice spagnola era lì in quei giorni in compagnia della sorella. Ma che il mio amico si fosse anche solo avvicinato a lei era impossibile da credere, e lui forse lo sapeva, o perlomeno doveva averlo intuito immediatamente dopo, quando si era corretto dicendo: cioè, volevo dire la sorella. Noi sapevamo che qualche volta lui tendeva a essere un po’ fantasioso, ma per qualche motivo misterioso questa versione a noi apparve credibile. Va detto che lui sapeva essere molto convincente. La sorella meno famosa di Penelope, Monica Cruz, una ballerina, all’epoca era giovane e molto bella, e credo fosse di poco più grande di noi. Se era una bugia, lui la portò avanti senza esitazioni. Nei giorni successivi ogni tanto la cosa veniva fuori, facevamo qualche domanda, lui rispondeva con sicurezza estrema, ma finita l’estate era finita anche questa storia. Qualche mese dopo sul giornale però qualcuno di noi lesse una notizia: la sorella di Penelope Cruz era incinta. Eravamo al bar, lo dicemmo immediatamente al nostro amico, e lui, senza pensarci due volte, con aria tragica, abbassò leggermente lo sguardo e disse: è mio figlio. Ci fu qualche istante di silenzio. A quel punto noi, che avevamo deciso di credere alla storia, eravamo a un bivio: portare avanti questa evoluzione un po’ assurda, oppure smettere. Tutti decisero di portarla avanti, io decisi di non prendere nessuna strada e di restare a metà a guardare. Col tempo però qualcuno iniziò a chiedersi cosa avrebbe fatto adesso il nostro amico. Si sarebbe presentato in Spagna da bravo papà? Era una di quelle situazioni strane, perché se è vero che alla madre magari non interessa avere il padre biologico vicino, è anche vero che alla figlia, soprattutto in futuro, invece magari avrebbe fatto piacere sapere almeno chi fosse. Il mio amico non sembrava porsi questi problemi, anzi, non ne parlava affatto, quasi come se la cosa non fosse mai avvenuta. E che la cosa non fosse mai avvenuta era una delle ipotesi più probabili – oppure no? Passarono anni, era nata la bambina, era cresciuta, il mio amico viveva una vita parallela, sembrava essersi dimenticato di quella storia, anche perché nel frattempo aveva avuto una storia con la top model Gigi Hadid. Online vidi un’intervista a Monica Cruz che raccontava di quando aveva partorito sua figlia e del fatto che non c’era un padre perché l’aveva fatta con l’inseminazione artificiale. Pensai che poteva essere una bugia, in realtà la bambina era stata concepita una notte in Costa Smeralda con un giovane sconosciuto, e lei poi si era inventata questa storia dell’inseminazione artificiale. Tentai di dirlo al mio amico, ma non riuscii a parlarci perché in quel momento stava scalando l’Everest ed era irreperibile. Mi contattò lui qualche settimana dopo, era negli Stati Uniti a una festa a casa di Leonardo Di Caprio, mi disse di raggiungerlo e che la casa era pieno di cocaina, io gli spiegai che, per quanto può costare la coca, costa comunque meno di un volo per gli Stati Uniti, quindi non potevo permettermelo. Lui sembrò dispiaciuto, forse anche un po’ triste, e allora nemmeno gli parlai di quella storia dell’inseminazione artificiale. Ci fece sapere poi che, alla festa da Di Caprio, aveva conosciuto Jeff Bezos, che gli aveva promesso un posto nel prossimo volo nello spazio della sua compagnia, suo sogno da sempre. Purtroppo il mio amico non fece in tempo, perché morì diversi mesi prima della partenza mentre sorvolava il Polo Nord con un aliante a motore. A parte il dolore per la scomparsa di un amico così giovane, ho sempre pensato a quella figlia, quella bambina spagnola ormai cresciuta che non ha mai conosciuto suo padre.

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Pochi anni dopo accadde qualcosa di ancora più assurdo: tutti gli altri amici che avevano vissuto con me e il mio amico quei giorni in Costa Smeralda morirono insieme, in un incidente stradale la cui dinamica restò sempre un mistero. Era un fatto tragico, ovviamente, ma non potei evitare di pensare – con un’ombra di paranoia che a volte mi faceva sorridere di me stesso – che non fosse una semplice coincidenza. Forse qualcuno aveva deciso di cancellare ogni testimone scomodo di quella storia, ogni traccia, lasciando in vita soltanto me, il meno convinto, l’unico che non aveva mai preso davvero posizione. Questo qualcuno era Monica Cruz? Era davvero così potente? Prima o poi forse sarebbe arrivata anche a me. Passai mesi chiuso in casa, una notte vidi un video di sua figlia, ormai una ragazza, e riconobbi in lei alcuni modi di fare del mio amico. Guardai il video decine di volte: sembrava lui, non c’erano dubbi. Certe espressioni, certi gesti, certi sguardi – era davvero sua figlia, oppure mi stavo facendo influenzare? Forse era semplicemente troppo tempo che pensavo a quella storia. Non ricordo quanto tempo dopo, settimane, mesi, ormai avevo perso la cognizione del tempo, al telegiornale vidi la partenza di un volo della compagnia di viaggi spaziali di Jeff Bezos. Ovviamente pensai al mio amico e mi commossi un po’, ma le lacrime non fecero nemmeno in tempo a uscire perché nello schermo mi apparve lei: sua figlia. Indossava una tuta blu, era sorridente, era una delle prescelte per andare nello spazio. Rimasi immobile, col dubbio se stessi assistendo a una coincidenza assurda o all’ennesima dimostrazione che, in fondo, lui aveva sempre avuto ragione. Per un attimo pensai: è proprio suo padre. Questo pensiero ne portò un altro, terribile: forse farà la sua fine. Lui era morto sorvolando il Polo Nord, lei potrebbe morire nello spazio, dissolversi in quell’infinito che lui aveva inseguito senza mai raggiungerlo. Pensai di avvisare immediatamente la ragazza, o la compagnia spaziale di Bezos, i giornali, qualcuno. Non sapendo chi chiamare scrissi decine di commenti sui social, ma venni preso per un pazzo. Allora chiamai i carabinieri della mia città, ma all’inizio non mi presero sul serio, poi, ancora peggio, pensarono che stessi rivendicando un attentato. Misi giù il telefono, restai incollato allo schermo della tv. Il razzo partì e mi si strinse lo stomaco, ma subito dopo mi accorsi che in realtà sorridevo: se davvero era figlia sua, allora non c’era destino più coerente, nessuna eredità più autentica di quella di continuare a cercare l’impossibile, anche a costo di sparire.

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Ok, volevo raccontare una storia vera su un mio amico che diceva un sacco di bugie, ma quando ho iniziato a scrivere, forse posseduto da lui, ho pensato che per omaggiarlo come si deve sarebbe stato meglio improvvisare, proprio come faceva lui, invenzione dopo invenzione, bugia dopo bugia. Alcuni dettagli della storia sono veri o quasi veri, ma la quasi totalità della storia è inventata. Dopotutto sarebbe stato inutile fissarlo in un ricordo rigido, avrebbe significato tradirlo, lui che viveva proprio in quella via di mezzo tra ricordo e invenzione – dopotutto i ricordi assomigliano molto ai sogni, e anche quando la mattina dopo ci raccontiamo un sogno, non stiamo in parte inventando? Mi ha fregato varie volte, mi ha fregato perfino soldi, ma ho comunque sempre ammirato la sua capacità di trasformare l’ordinario nello straordinario, il suo intuito nel catturare dettagli all’istante sui quali costruire narrazioni verosimili ma non vere. Però me la ricordo quella sera in cui avevamo visto Penelope Cruz, ma non eravamo sicuri. Da qualche parte sentimmo che era con la sorella, e siccome si assomigliavano, poi pensammo che forse avevamo visto la sorella. Il bello è che forse non avevamo visto nessuna delle due. Io poi mi ero addormentato su una panchina di Porto Rotondo, vicino a degli yacht, ma poco dopo era arrivata una guardia a dirmi che non potevo stare lì. Non vedo il mio amico da sei anni e non lo sento, boh, forse da due o tre. Ha due figli, cioè, credo siano suoi, ho visto le foto sui social, ma boh magari è AI.

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Dai, poi la smetto. Aggiungo solo una cosa su di lui, successa molti anni fa. Non avevamo mai soldi, ma quando uno dei due li aveva, anche se erano pochi, capitava sempre che li prestasse all’altro. Era così con tutti, non solo con lui. Chi lavorava offriva da bere, droga, mangiare, spesso anche concerti, cinema, cose così, a tutti gli altri amici che non avevano soldi. Una nobile abitudine che si è persa da adulti, ma comunque. Mi capita, non ricordo perché, di avere un paio di soldi, lui mi chiede di prestargli 50 euro. Glieli do, ma su un foglio appeso al muro scrivo il suo nome e “50 euro”. Passano i mesi, non lo presso sui soldi, perché figurati, pure io, nei rari casi in cui davvero restituivo il prestito, ci mettevo parecchio. Forse era passato un anno, quando ero con lui a casa mia e gli faccio vedere il cartello con il suo nome e “50 euro”. Ora, prima del colpo di scena, una piccola premessa: come ho detto ci prestavamo tutti soldi, erano quasi condivisi, almeno fino a un certo punto, quindi a volte era difficile ricordarsi tutto, soprattutto per me che non mi ricordavo un cazzo, forse anche complice la droga del periodo. Torniamo a quel momento: vedendo quel cartello scritto molto tempo prima lui non ha dubbi: mi dice che significa che io devo 50 euro a lui. Io sono confuso, ma lui insiste: hai scritto il mio nome e 50 euro, perché io ti avevo prestato i soldi e te lo volevi ricordare, sono sicuro, è andata così. Io non sono sicuro e so che lui è un furbo, ma – mi dispiace un po’ fare la figura del coglione, ma sarò sincero – ehm alla fine mi ha convinto e gli ho dato 50 euro. Cioè, altri 50 euro. In pratica mi ha fottuto 100 euro senza che io me ne sia accorto.

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Solo 15 anni dopo, durante una seduta di psicoterapia, la terapeuta mi propone l’ipnosi per affrontare e processare le emozioni associate a una trauma che avevo vissuto tempo prima. Durante l’ipnosi mi connetto per sbaglio a un altro momento, non a quello del trauma, ma a quello in cui presto i 50 euro al mio amico, e rivivo tutta la scena. Di colpo ricordo tutto. Ho aperto gli occhi, sono saltato in piedi di fronte alla mia terapista esterrefatta e ho esclamato “cazzo, mi ha fottuto 100 euro!”. Lei pensava che mi riferissi a lei – la sua tariffa, per la precisione, era 90 – ma non c’è stato tempo di dare spiegazioni, sono scappato via e mi sono diretto verso casa del mio amico. Arrivato lì, piegato in due con il fiatone, mi sono ricordato che non abitava più in quella casa, lì erano rimasti solo i genitori. La madre, vedendomi, è uscita fuori con una busta da lettere, mi ha detto che era un messaggio che il mio amico aveva lasciato per me. Apro la busta, dentro c’era un foglio con sopra scritto: “ti ho fregato, coglione” e una faccina sorridente.

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Va bene, ora la smetto davvero. Però mi è venuta in mente una possibile gag su uno che subisce un trauma grave e un’amica gli dice “dovresti andare da un terapista”, solo che siccome questo non è molto sveglio si confonde e finisce da un terrapiattista, che non chiarisce l’errore e anzi, in cambio di soldi, si offre di aiutarlo ad affrontare questo trauma, basando tutto però sui concetti dei terrapiattisti. Il protagonista a sorpresa esce dall’incontro estremamente sollevato: invece di parlare delle emozioni e dei ricordi, il terrapiattista l’ha convinto che il trauma è collegato a un complotto globale per nascondere il vero bordo del mondo. Gli spiega che le paure derivano dall’essere manipolati dai governi che cercano di impedire alle persone di vedere la verità, e lo incoraggia a “liberare la mente”. Incontrando l’amica dice che grazie a quell’incontro non solo ha affrontato il trauma, ma “l’ho ricontestualizzato nel vero schema dell’universo” e le fa notare che l’acqua che esce dal rubinetto non segue la presunta curvatura del pianeta.

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“Ma visto che l’hanno fatto santo, adesso per un prete farà curriculum dire ‘mi sono scopato Carlo Acutis quando aveva 12 anni?’

Oddio no, ho fatto una battuta da stand-up italiana :(”

(chat su telegram)

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Seduto sulla panchina, nel parcheggio del Crai. Guardo le macchina passare, arriva un grosso SUV Mercedes nuovissimo, targa tipo GZ, nero brillante, gomme nuovissime. Scende una ragazzina minuta, bionda, con un maglioncino color panna con il collo a V e la borsetta. Attraversa la strada con eleganza ed entra al supermercato che sta per chiudere. Vorrei accendermi una sigaretta, fissare l’asfalto, gli alberi, le nuvole, le insegne spente, i dettagli insignificanti. Ma ho smesso di fumare da anni. Certo, posso comunque fare tutto questo senza fumare, ma non è la stessa cosa. Mentre penso a questo la ragazza esce dal supermercato, attraversa la strada e va verso la macchina. In una frazione di secondo penso: mi sdraio dietro la macchina, a circa un metro, appena parte grido con tutte le mie forze, lei inchioda spaventata, scende e mi trova a terra che faccio finta di essere stato investito. A quel punto la tranquillizzo e in qualche modo, per evitare assicurazione e grane varie, le scucio 300 o 400 euro (mai esagerare). In realtà la ragazza ha messo in moto ed è partita in avanti, non in retromarcia. Era quasi impossibile che lo facesse, c’era una macchina in mezzo, eppure ha evitato la retromarcia ed è andata avanti. Quindi sarei rimasto sdraiato sull’asfalto, ignorato da lei e dal mondo intero. Battuta: nessuno investe su di me.

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Mi ricordo qualche anno fa, aspetto dei pagamenti per dei lavori che ho fatto e non so come pagare l’affitto. La mia ragazza mi chiama e mi dice che delle donne cinesi l’hanno tamponata. Sì, ha precisato che erano cinesi, che ci posso fare? Vado a vedere, nessun danno visibile. A quanto mi dice non è stato un vero e proprio tamponamento, le due auto erano in fila per fare metano e quella dei cinesi, a circa 0,5 km/h è partita per sbaglio, l’ha appena toccata. Si mettono d’accordo per vedersi nel loro ristorante, un ristorante cinese ovviamente. Prima di andare portiamo la macchina da un carrozziere, e questo deve usare tipo la lente di ingrandimento per trovare un danno, ma dice che qualcosa c’è. Dice che se si dovesse cambiare l’intero pezzo forse sarebbero 300 o 400 euro, per una roba che nemmeno si vede, siamo quasi su un piano metafisico. Raggiungo i cinesi al ristorante, oltretutto nel momento del pranzo, quindi è pieno di gente. Gli dico che la cosa migliore è fare tutto con l’assicurazione, ma so che sto mentendo. Loro non vogliono assolutamente coinvolgere l’assicurazione, e io lo so. Dico che la situazione però è importante, qualcosa bisogna fare. Poco dopo ci mettiamo d’accordo per andare a recuperare dei presunti documenti che loro sostengono di avere in banca, cosa che a me sembra molto strana, ma li seguo. Arriviamo lì, loro entrano, poi escono e il marito della donna mi dice: quanto vuoi? E io rispondo: 500. Apre il portafoglio e tira fuori 500 euro appena prelevati, mi chiede in cambio il foglio dell’assicurazione che straccia e butta in un cestino. La mia ragazza è incazzata, le sembra una truffa, mentre è stato un onesto scambio tra gentiluomini, nonché tra due culture diverse, e soprattutto quel mese sono riuscito ancora una volta a pagare l’affitto. La macchina ovviamente non è mai stata aggiustata, anche perché non aveva nulla. Al tempo, parlandone con un amico, dissi “magari me ne capitasse uno al mese”.

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“Attenzione a queste malattie delle piante che esplodono a fine estate”

(titolo di giornale)

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Io fatico a definirmi “filopalestinese”, per carità, se è giusto per capirsi, sono pure d’accordo. Free Gaza, Free Palestine. Evito la mia storia con la Palestina, dagli anni ’90 ad oggi, perché sarebbe mettermi al centro su una questione in cui invece mi voglio decentrare, pur parlando di me – lo so, è un paradosso, lasciatemi fare. Però, io più che filopalestinese, sono anti-israeliano. Di palestinesi in tutta la mia vita ne ho conosciuto uno, per il resto li ho sempre visti in tv, sui libri, poi su internet, ovviamente sono entrato in qualche modo in contatto con questo popolo resistente, ma tra l’amore per loro e l’opposizione per gli israeliani, non ho dubbi, è più forte la seconda. “Filo” è il greco phílos, quindi amico, amante, affezionato, come un pedofilo è un amante dei bambini o un filosofo un amante della sapienza (ricordiamo che gli antichi greci a volte erano entrambe le cose). Così, di pancia, certo che sono amico dei palestinesi. Mi piace la loro storia, le loro tradizioni, la loro musica, la loro letteratura, la loro cucina, il loro umorismo, e sicuramente la loro pratica di resistenza contro il colonialismo a l’occupazione israeliana. Posso essere un loro invisibile e virtuale alleato, ma alla fine non c’entro niente con loro, mentre è molto più forte il mio “anti” – sempre dal greco contro, opposto – verso Israele, così come verso gli Stati Uniti. Dopotutto a un certo punto, diciamo la verità, eravamo quasi dalla parte dei talebani quando combattevano contro gli americani. È capitato perfino questo. Ma non sto facendo un paragone, sono situazioni totalmente diverse, ma è per dire che se proprio devo definirmi – cosa che non ho alcun interesse a fare – io preferisco farlo sulle cose a cui mi oppongo, e non inventando o idealizzando un’amicizia con un popolo. Insomma preferisco definirmi per opposizione e non per affinità. In fondo, definirsi in termini di “pro” spesso rischia di diventare una semplificazione ingenua: l’ammirazione per un popolo o per una causa non implica quasi mai una partecipazione reale, non dice nulla sulla mia vita quotidiana, sulle mie responsabilità, sui miei limiti. L’“anti”, invece, è più concreto: indica dove metto il mio dissenso, dove sento una tensione morale o politica che riguarda direttamente le scelte degli stati e dei governi. È più facile, paradossalmente, essere sinceri nell’“anti” che nel “filo”.

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Anche perché, anche questo va detto, c’è il rischio di assumere etichette che finiscono per parlare più di chi le usa che di chi dovrebbero descrivere. Dire “filopalestinese” potrebbe sembrare un gesto di solidarietà, ma rischia di essere soprattutto un’autoproclamazione, un’astrazione dalla realtà quotidiana dei palestinesi – ovvero, ancora una volta, mettersi al centro. Essere “anti” invece significa posizionarsi in relazione a un sistema di potere, non a un’identità collettiva che non ti appartiene. Io sono più coinvolto con Israele: ho la residenza in un paese occidentale, un paese che appoggia e sostiene Israele, allora ha più senso l’opposizione, il dichiararmi contro questa cosa, anti-israeliano, anti-statunitense, e agire di conseguenza. In questo senso, la mia posizione non è tanto un amore idealizzato per i palestinesi quanto una responsabilità etica verso le dinamiche di potere in cui mio malgrado mi trovo coinvolto, anche solo perché non le interrompo. Le navi mercantili verso Israele partono a un’ora e mezza da casa mia, i soldati israeliani fanno le vacanze a un’ora da casa dei miei genitori, le lobby che alimentano l’occupazione sono a un’ora da qua. È più onesto, per me, oppormi a un’ingiustizia che avviene davvero a portata di mano, e di fuoco, che proclamare un’amicizia che non posso incarnare concretamente, se non con qualche like sui social, dato che soldi non ne ho. Il mio è un odio verso l’occidente, perlomeno verso la maggior parte: lo so che ci sono amici anche qua, negli Stati Uniti e perfino, sebbene pochi, anche in Israele. Ma parlo ovviamente dei governi e della maggior parte delle persone che li sostiene e che ha sostenuto quelli prima. Oh, che pesantezza, lasciamo perdere.

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La lucidità terminale si riferisce a un episodio eclatante di comunicazione coerente ed efficace poco prima della morte in una persona demente, incapace di interagire socialmente”

(Wikipedia)

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Da due giorni sto molto male, malissimo, non so che cosa ho. Forse sto morendo. Ho deciso di lasciare alcuni messaggi nel caso morissi oggi. Non fidatevi di Wikipedia. Provate tutte le pizze possibili, tranne la quattro formaggi. Se pensate di avere ragione su una cosa, pensate che forse non avete ragione. Quando sentite dire a qualcuno “e allora il Sudan?” ricordatevi che a quella persona è probabile che non gli freghi niente del Sudan. Non fidatevi mai di un poliziotto o di un carabiniere. Non esiste musica di merda, solo musica che a voi non piace. Con la droga è fondamentale il dosaggio. L’amicizia non è la cosa più importante nella vita. Non c’è una cosa “più importante” nella vita. La libertà esiste, non fidatevi di quei segaioli laureati in filosofia che la fanno complicata. Belli i videogiochi, ma danno più dipendenza delle benzodiazepine. Attenzione a quando si deglutiscono le pastiglie. L’aceto di mele sta bene su tutto. Se a voi piace una cosa, e poi conoscete persone alle quali piace quella stessa cosa, ma a voi loro non piacciono, non smettete di farvi piacere quella cosa. Non bisogna fidarsi sempre della saggezza passata, a volte dicevano cazzate. Mettete in conto che molti degli artisti che vi piacciono, passati e presenti, a un certo punto verrà fuori che hanno molestato o picchiato delle donne. Non c’è bisogno di dire sempre la verità. Riflettere all’infinito se fare una cosa o no alla fine è uguale a decidere a caso. Avevano ragione le nonne: finché c’è la salute c’è tutto.

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È facile vivere finché stai bene. Cioè, non è facile, puoi comunque avere altri problemi, economici, sentimentali, spirituali, puoi non sapere come arredare il salotto della tua nuova casa dove ospiti i tuoi amici sani per le tue cene con aperitivo. Ma è comunque più difficile se non sei sano. Il corpo è un dittatore. La salute è un lusso. I sani sono gli apostoli della performance, di qualunque tipo sia. Puoi essere un lavorista fissato con la produttività, uno che va a correre, un compagno che si fa 10 chilometri in manifestazione, e puoi fare tutto questo perché sei sano. Puoi anche stare male, perché sei sano. Tanto è un fenomeno transitorio. Chi non ha mai desiderato scomparire almeno una volta, non ha diritto di parola su chi ci prova davvero. La sanità come caratteristica virile. Il vero uomo è sano. La vera donna è sana. Essere sani non è neutro. È un allineamento fortuito di chimica, genetica, economia e calendario che ti fa credere di essere normale. Ma non sei normale: sei solo temporaneamente graziato. I sani hanno un abbonamento premium al corpo umano. Ma noi sappiamo che non esiste “stare bene”, ma solo diversi modi di stare male.

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È passata una settimana, non sono morto. Sono su un letto di una casa non mia. Di fronte a me un manifesto di propaganda comunista, con Lenin e delle scritte in russo. Su un’altra parete alcune foto di animali morti. Cioè, quando sono state scattate le foto gli animali erano vivi, ma poi sono morti, cani, gatti, c’è perfino un panda, ma non c’entra niente, non era un panda domestico. Per terra, in meno di 72 ore, sono riuscito a generare un casino impossibile, nonostante io viaggi con uno zaino minuscolo e praticamente senza vestiti tranne quelli che indosso. Fuori si sentono dei rumori che non capisco, c’è un vicino di casa che fa qualcosa, forse fa a pezzi i figli, oppure sta montando un mobile, non lo so, ma non è un rumore fastidioso, anzi, lo trovo rilassante. Cos’è successo? Allora, stamattina a pranzo sono andato in un sushi all you can eat con mia sorella, ovviamente cinese (il ristorante, non mia sorella). Non ci andavo da molto, da più di un anno. Ho mangiato quelle cose che si mangiano lì, principalmente riso al vapore e pesce crudo. Alla fine, come capita in questo tipo di ristoranti, ci hanno dato i biscotti della fortuna. Dentro quello di mia sorella c’era un messaggio tipo “avrai una promozione sul lavoro”, divertente perché mia sorella non lavora da anni e quando lavorava faceva le pulizie. Il mio invece recita così: “Domani sarà il vostro giorno fortunato”. Io l’ho immediatamente interpretato come un presagio di morte – per me è questo il senso di quel biglietto. Perché domani devo partire, fare un lungo viaggio, attraversare il mare, e sicuramente morirò. Da quando sono tornato a casa mi sono adagiato sul letto in stile Nosferatu, con la stanza buia, le persiane chiuse, a fissare il soffitto. Ho iniziato a comportarmi come se fossi già morto, a fare pratica. Questo viaggio sarà il mio ultimo viaggio, non arriverò a destinazione, o se ci arriverò, ci arriverò freddo. Sono tanti i modi in cui si può morire durante un viaggio. Potrei cadere dalla nave, potrebbe scoppiare un incendio a bordo, potrebbe deragliare il treno, potrebbero uccidermi, potrei avere un infarto, un ictus, o magari ho una malattia genetica che non so di avere che, come il ticchettio di un timer, sta aspettando di arrivare al momento giusto, e quel momento è domani, il mio giorno fortunato.

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A questo punto ho pensato a un ricordo, a qualcosa a cui pensare nel momento della morte, sempre che ci sia la possibilità di farlo. Credo basti anche un breve istante. E ho pensato a una scena di appena due giorni fa. Era notte, ero sul lungomare con due amici, una mia amica dice che deve pisciare e va in spiaggia a farlo. Quando torna io dico che pure io devo andare. Attraverso la spiaggia completamente vuota, umida, buia, non c’è la luna, arrivo alla battigia e piscio verso il mare, che non vedo ma percepisco. Sento il suono leggero dell’acqua assieme al mio piscio sulla sabbia bagnata. Per un brevissimo istante mi sento felice. Mi piace pisciare in spiaggia, mi piace il buio, mi piace sapere che ci sono due miei amici che mi aspettano sul lungomare, dove ci sono i lampioni, la luce, gli alberi. Poi continueremo a camminare, parleremo, scherzeremo, forse berremo ancora. Quell’istante, quei venti secondi di pisciata al buio sul mare, scelgo di portarmeli dietro come ricordo di quando sono stato felice. Mi piace perché non è un ricordo lontano, è un ricordo di qualche ora prima. Voglio morire pensando a questo. E al fuoco.

Una risposta su “TESTAMENTO”

un ottimo cameriere sa gestire una ventina di tavoli. 27 persone oggi sono un record anche per un bravo cameriere (la professionalità media si è abbassata), non mi stupisce che il papà fosse fiero del ragazzino.

auto che brucia, forse fa eco la scena di electroma dei daftpunk?

ho un amico carabiniere. E anche mio zio, una delle persone piu divertenti che abbia conosciuto, era carabiniere. I carabinieri mi stanno simpatici, li rispetto, li ho chiamati un paio di volte quando i vicini litigavano, sono arrivati con tatto e hanno risolto la situazione senza umiliare nessuno. Quando sono stato io ad alzare le mani su una persona sono andato dai carabinieri a costituirmi, mi hanno detto che non c’era problema, poteva capitare, e mi hanno riaccompagnato a casa. Insomma io ai carabinieri voglio bene. Mi sembra che ci provino con tutto loro stessi a fare la cosa giusta.

Con la polizia è diverso, hanno un altro comportamento, un’altra arroganza. Sembra che si sentano superiori, sembra che possano risolvere i problemi del mondo con le botte e sembra che solo loro le possano dare. Una volta in stazione un poliziotto mi ha fermato in modo molto aggressivo chiedendomi i documenti. Dopo averli letti mi hanno detto, con la stessa aggressività “vada”. Mi sono incazzato e ho detto no, adesso lei mi spiega perchè mi ha trattato così. Non sapeva rispondere allora gli ho detto adesso lei viene con me dal suo superiore. In caserma il suo superiore mi ha chiesto scusa e mi ha spiegato perchè può succedere: dicono che a volte cercano dei “sospetti” ma non sanno esattamente che faccia abbiano. Allora a quanto pare trattano male tutti perchè “non si sa mai”. A me è sembrata una cazzata, ma è quello che mi hanno detto. Comunque da allora, vuoi per il karma, vuoi per il culo, non mi hanno più fermato.

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