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Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…

avevo 10 anni e il mio vicino di casa si chiamava Davide.

abitavamo in un palazzo brutto di un quartiere periferico a metà anni ’90 e io ero molto preso da due film, Navigator, dove un ragazzino entra in contatto con gli alieni, e soprattutto Explorers, dove un gruppo di ragazzini costruiva in modo artigianale un’astronave e riusciva a raggiungere gli alieni.

credo sia stato soprattutto il secondo a darmi l’idea.

non ricordo com’è avvenuto, ma in pratica ho chiesto al mio vicino Davide di costruire un’astronave.

lui era un ventenne, penso diplomato in qualche istituto tecnico, un tipo un po’ nerd che trafficava con circuiti e altre cose elettriche ed elettroniche. io lo percepivo come persona autorevole in grado di fare qualunque cosa, ad esempio costruire un’astronave.

per me non era un gioco. volevo davvero costruire un’astronave.

la cosa davvero strana, che oggi non capisco del tutto, è che questo Davide mi disse di sì. era un ventenne, perché non andava a drogarsi, a giocare ai videogiochi, a giocare a pallone, con i suoi amici, con le ragazze, invece di accontentare uno di 10 anni fissato con gli alieni?

ora che sono più grande di lui ho cercato di capirlo, di mettermi nei suoi panni. mi aveva detto di sì giusto per accontentarmi? sono io che ho preso la cosa seriamente ma per lui è stato solo uno scherzo? eppure è durata un po’ di tempo, diversi pomeriggi. sembrava impegnarsi.

andavo a casa sua e lui costruiva cose che non capivo, circuiti, fili, lucine che si accendevano, su un grande piano di legno. mi sembrava come nel film Explorers. ricordo di aver pensato: ok, è possibile, anche io andrò nello spazio.

ma lui cosa pensava? era come non dirmi che babbo natale non esiste, portare avanti un’illusione per non rovinare una convinzione dell’infanzia? però non era esattamente un adulto, aveva 20 anni. io non lo percepivo come i miei genitori. era grande, certo, ma non così grande.

passammo diversi pomeriggi nella sua stanza, io principalmente guardavo, forse a volte gli passavo certi strumenti, e lui costruiva quelli che per me erano pezzi dell’astronave.

a questo punto mi chiedo: come sarà uscito da questa situazione? purtroppo non lo ricordo. forse a un certo punto mi avrà detto che non aveva il materiale sufficiente per continuare a costruire l’astronave, era una spiegazione che avrei accettato, e la cosa sarà finita lì.

ma resta il fatto che per diverse settimane, a metà anni ’90, io ero seriamente convinto di costruire un’astronave.

probabilmente avrò accettato il fatto che Davide in realtà non fosse in grado di farlo perché in Explorers al protagonista apparivano in sogno i circuiti necessari alla realizzazione e solo dopo, con i suoi amici, si metteva a costruirli.

a me non era apparso niente in sogno, e nemmeno a Davide. per questo, credo, ci siamo fermati quasi subito. non l’ho mai più visto, né ho mai più sentito parlare di lui.

magari alla fine ha costruito l’astronave ed è partito senza di me.

***

da qualche parte dopo il 2000, non esistono gli smartphone, sono su un treno pieno e trovo spazio in piedi davanti al cesso. con me c’è un ragazzo rumeno con cui faccio amicizia. da lontano si vede arrivare il controllore e il ragazzo rumeno mi dice che non gli darà il biglietto, che tiene in mano, perché il treno è in ritardo. è una protesta illogica, al massimo dovrebbe chiedere un rimborso, non prendere un verbale per un biglietto che in realtà ha pagato. glielo faccio notare, ma lui non ne vuole sapere. “non glielo do il biglietto! in romania i treni sono in orario”.

fa il gesto di strappare il biglietto, ma non lo fa, poi mi guarda e ride. alla fine il controllore passa, entrambi gli diamo il biglietto e iniziamo a parlare. sta arrivando dalla romania, non sa bene dove si trovi. io gli dico che siamo in emilia romagna, lui mi dice che non sa dov’è. poi mi chiede di dove sono io, gli dico sardegna, ma lui mi dice che non sa dov’è. a questo punto, volendo anche sapere di dov’è esattamente lui (perché me l’ha detto, ma io non so dov’è) tiro fuori un pennarello dallo zaino e sulla parete del treno, su una placca di plastica dove c’è la piantina del vagone, inizio a disegnare l’europa. disegno l’italia e la sardegna, poi la corsica, abbozzo un pezzo di francia e della penisola iberica. gli indico la sardegna, lui mi dice che non l’ha mai vista. resto perplesso, com’è possibile che non abbia mai visto il mediterraneo?

con il pennarello mi sposto verso est e mi accorgo che non so posizionare le varie nazioni. mi sforzo di tirare fuori ricordi di scuola, atlanti sfogliati da bambino. sul mare c’è la croazia, ma come sono fatti i confini? disegno forme vaghe, da qualche parte l’ungheria, lascio perdere cose come la serbia, kosovo, montenegro, disegno delle forme a caso, quindi arrivo alla romania. chiedo a lui se è nel posto giusto, mi dice forse, non è sicuro nemmeno lui. sotto ci sono la bulgaria e la grecia, o almeno mi pare, e a fianco il mar nero. gli chiedo dov’è bucarest secondo lui e mi indica un punto a caso. poi cambia idea, mi indica un altro punto, totalmente da un’altra parte, e di nuovo sembra farlo a caso, come se fosse indifferente. in effetti, perché no? la mappa non è il territorio.

“cosa state facendo?”. il tono non è né minaccioso né inquisitorio, sembra autentica curiosità. è una signora che, come noi, non ha trovato posto e sta piedi davanti al cesso. le spiego che stiamo cercando di capire dov’è bucarest. lei prima sorride e annuisce, come se quella risposta le bastasse. poi, mentre io cerco di rifinire i confini immaginari di polonia e cecoslovacchia, la signora si avvicina e indica un punto. “forse è qui”. il treno ha uno scossone, quindi il dito si sposta di centinaia di chilometri. poi, quando la situazione è più stabile, punta di nuovo il dito. io non penso che bucarest sia lì, ma non lo so con certezza, quindi la ringrazio. alla fine segno bucarest in un punto intermedio tra quello indicato dalla signora, quello indicato (dopo aver cambiato idea) dal ragazzo rumeno e quello che immagino io, pur nella totale incertezza.

lo spazio è poco ma decido di non limitarmi: disegno anche la sicilia e più sotto una specie di grande cuore deforme che dovrebbe essere l’africa. penso che questa visione più ampia possa aiutare il mio amico rumeno, ma non è così. sarei potuto andare oltre: disegnare su tutte le pareti il resto del pianeta, la germania, il regno unito, l’islanda, l’india, il giappone, tutti i continenti, poi la luna, il sole, il sistema solare, le altre stelle più lontane, la via lattea, le altre galassie, e dire al mio amico rumeno: vedi? noi siamo qui. ma il pennarello è quasi scarico, e dopotutto avevo difficoltà a disegnare le nazioni confinanti con l’italia, e l’italia stessa, e perfino la sardegna, quindi forse va bene così. sulla mappa faccio un pallino in un punto qualunque dell’emilia e gli dico che il treno in quel momento forse si trova lì. adesso, dipende dai treni, ci sarebbe uno schermo che in tempo reale indica la posizione e la velocità. per un po’ fissiamo la mappa, che ha quindi tre pallini: uno sulla sardegna, uno sull’emilia, uno sulla romania (forse). il primo sbirro che passa potrebbe pensare al piano di una serie di attentati, inspiegabilmente esposto sulla parete di un treno, ma più probabilmente la mappa è stata cancellata poco dopo, al primo giro di pulizie. la fissiamo per un po’ e la sensazione è che nessuno di noi sappia esattamente dove si trovi.

***

ho 17 anni, è l’estate del 2001. voglio andare al G8 di Genova, mi sembra fondamentale esserci. l’idea è di unirmi a un’associazione di amici di mio padre comunisti, ma una volta lì muovermi in libertà, da solo. poco tempo prima però incontro una ragazza, è più grande di me, fa l’università: ci innamoriamo.

in quel momento per me andare al G8 era la cosa più importante al mondo, ma poi incontro lei e decido di non partire. alloggia in un resort al mare, è là con la famiglia. una sera, dopo essere stato da lei, sto tornando a casa in motorino. sono molto veloce. cado, mi schianto sull’asfalto, rotolo per vari metri, mi risveglio in ospedale.

quel giorno a Genova gli sbirri avevano massacrato migliaia di persone. era morto Carlo Giuliani, ma io non lo sapevo, perché avevo passato l’intera giornata immobilizzato. il giorno dopo un infermiere, vedendomi tutto rotto, mi dice “ma eri a Genova?”. sta scherzando, ma io non rido. non riesco ancora ad alzarmi dal letto quindi ascolto per ore le notizie alla radio.

sono in stanza con altre cinque persone, tutti uomini adulti, ma sembra che a nessuno interessi quello che sta capitando. riesco a parlarne velocemente con i miei genitori quando vengono a trovarmi, e con la ragazza di cui ero innamorato. il giorno dopo, con grande difficoltà, riesco ad arrivare a un televisore nel corridoio e guardo a lungo le immagini provenienti da Genova.

la notte non riesco a dormire pensando a quello che sta succedendo e anche perché uno dei compagni di stanza grida spesso “mamma!”. all’inizio gli altri si lamentano, poi capiscono che non serve e dopo un po’ sembrano dormire tutti. tranne uno: un signore ridotto abbastanza male, che attira la mia attenzione con un verso. non capisco subito, penso che abbia bisogno d’aiuto, ma poi vedo che mi fa il gesto di fumare.

mi avvicino al suo letto, mi dice “vuoi venire fuori a fumare una sigaretta?”. non avevamo mai parlato, ricordo solo che aveva espresso un certo apprezzamento per il fatto che ricevessi la visita di una ragazza più grande di me – molto bella – che mi aveva baciato sulla fronte, dato che la mia bocca era distrutta e piena di punti.

gli dico di sì, mi sono rotto di ascoltare la radio. indossiamo entrambi quei camici da ospedale aperti sul retro, lui ha varie medicazioni su tutto il corpo, io ho entrambe le braccia fasciate, garze e cerotti ovunque, il volto deturpato, ho perso vari denti e ho uno squarcio rosso che va dal naso fino al mento. penso: ci noteranno, non ci faranno uscire.

il vecchio sembra molto sicuro di sé, attraversiamo il corridoio, prendiamo l’ascensore, attraversiamo tutto l’ospedale. io non so dove mi trovo, sono arrivato lì con la barella, ma curiosamente non incrociamo nessuno. quando vediamo un paio di infermieri ci nascondiamo in un angolo, poi continuiamo e arriviamo fino a un’uscita. saranno le due del mattino, è una serata fresca.

ci sono un paio di alberi e una panchina, ci sediamo lì, lui mi offre una sigaretta. mi chiede quanti anni ho, glielo dico. “ah, più o meno l’età di mio figlio”. ma poi non parliamo più. io penso a Genova: da una parte, proprio per quello che è successo, mi dispiace ancora di più non essere partito. dall’altra penso che forse è stato meglio così.

guardo in alto, non c’è la luna, il cielo è pieno di stelle. se ne vedono tante, per essere il parcheggio di un ospedale di città.

la sigaretta in realtà non la volevo, mi bastava uscire. invece lui se ne fuma un’altra. gli avevano detto che non poteva alzarsi, ma a quanto pare se ne frega. sta in mutande sulla panchina, ricoperto di lividi e garze e fuma fissando gli alberi.

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