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Diario estivo. La necrosi.

“Che vada a cagare anche il sole”

(la compagna benzinaia, qualche giorno fa)

“Tra gli effetti del riscaldamento delle acque c’è lo stato di salute delle gorgonie e dei madreporari, specie target del progetto di monitoraggio. Perdono i loro colori accesi, sbiancano e in alcuni casi mostrano segni di necrosi.”

(La Nuova Sardegna)

premessa: qualche settimana fa parlavo con una persona in uno spazio politico, facevo i complimenti per il posto, per le attività, poi questa persona mi dice “beh adesso, sai com’è, non faremo più niente”. io non capisco, lui continua “sai com’è, no? non c’è più nessuno, spariscono tutti”. lo fisso con sguardo interrogativo, in attesa che chiarisca, visto che io non arrivo a capire perché le persone dovrebbero sparire improvvisamente. vedendomi confuso, finalmente chiarisce: “è estate”. solo a quel punto capisco: intende dire che la maggior parte delle persone va in vacanza. quando l’ho capito ho annuito e ho detto “ah beh, certo, chiaro”.

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“Io non capisco perché la gente sta in spiaggia sotto al sole”

(Roberto, compagno agricoltore)

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la cinefilia è depressione. perché vuol dire chiudersi in ambienti ristretti, al buio, e invece di vivere, guardare altre persone che fanno finta di vivere, e farlo tutti i giorni, più volte al giorno magari, se vuoi essere un vero cinefilo. una persona normale non guarda tutti quei film. sono attori, stanno fingendo, a volte non sanno nemmeno di cosa stanno parlando, e alla fine dei film, nei titoli di coda, ci sono i loro veri nomi. come se non bastasse, molti di loro sono perfino morti. la cinefilia è necrofilia. l’estate, si sa, è la stagione peggiore per i morti, perché col caldo il processo di putrefazione è accelerato. per questo il cinefilo sta al buio, nella stanza più fresca della casa, con uno o più ventilatori che non raffreddano il corpo ma almeno riducono l’umidità e rallentano la proliferazione batterica.

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“Agosto, steso lì sul divano e la mente in nessun posto”

(Agosto, Diaframma)

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dovevo presenziare a una presentazione, ma non ci sono andato. qualche tempo dopo, un’altra presentazione, il mio nome era sulle locandine, ma di nuovo io non c’ero. la mia caratteristica è sempre stata quella di non esserci, ma ultimamente sempre di più. a dire la verità, mi sto convincendo sempre di più di non esistere. questo porta a un paradosso. per non esserci, bisognerebbe esistere. ma se non esisto, si può dire che non c’ero? sinceramente penso che questa che mi sembra di vivere non sia la realtà. non posso dirlo troppo in giro, sono inevitabili delle conseguenze, e dopotutto sono già stato rinchiuso una volta, meglio evitare. ma questa non può essere la realtà. a un certo punto mi sveglierò. nel frattempo il frinire delle cicale e il ronzio del ventilatore si integrano alla colonna sonora di ogni film.

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forse esisto
se questo è giusto
forse è uno scherzo
di dubbio gusto

(Dario Meneghetti)

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per motivi lunghi da spiegare, quest’estate la sto passando in una stanza, quasi sempre in penombra o al buio, sul divano a guardare film. inizio la mattina, finisco la notte. i miei occhi non funzionano molto bene, ma cerco comunque di portarli al limite e a volte oltre. nella pagina che segue ho segnato alcuni appunti sui film che sto vedendo (o rivedendo, molto spesso) perché, non potendo fare praticamente nient’altro, di fatto questa cronologia delle visioni costituisce una sorta di diario.

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“Ricorderemo il mondo attraverso il cinema”

(Lav Diaz)

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dunque, al momento, non ci sono prove concrete della mia esistenza, se non la lista dei film che vedo.


– DIARIO ESTIVO –

May December (2023) – forse devo rivalutare Todd Haynes, regista che non mi ha mai interessato. tratto da una storia vera – quella di un’insegnante 34enne che si è messa con un suo alunno 12enne – ma con alcuni dettagli inspiegabilmente cambiati. dico inspiegabilmente perché in questo genere di film si fa sempre così. si fa una copia della realtà, ma si cambiano alcuni dettagli a volte molto importanti, che non servono nemmeno particolarmente al film, forse solo a far incazzare un po’ le persone coinvolte nella vicenda reale. a parte questo, il film è interessante perché invece di rappresentare il fattaccio – era pedofilia? era vero amore? i due hanno fatto figli e sono stati sposati per decenni – sceglie di non mostrare nulla, nemmeno tramite flashback. entriamo in questa dimensione mi pare 24 anni dopo, con l’ex 12enne che ora è un trentenne che non ha mai vissuto l’adolescenza. raffinato, non semplice, dà pochissime o zero risposte, ma apre a domande non sempre semplici. si allude anche a delle realtà parallele: l’attrice che deve interpretare la donna in un film tratto dalla loro storia ha la stessa età dell’ex bambino. non male.

Gran bollito (1977) – ispirato alla saponificatrice di correggio, è uno di quei grandi film del cinema italiano un po’ dimenticati. in parte è dimenticato anche il suo autore, Bolognini, che io ricordo principalmente per La notte brava e Il bell’Antonio, ma ha fatto un casino di film notevoli, solo che è sempre stato in secondo piano rispetto a nomi più celebri. che questo sia ingiusto si capisce anche con Gran bollito, film che se uscisse oggi e fosse diretto, che so, da Lanthimos, sarebbe la gioia dei critici. ha delle vibes anche di Almodovar, in qualche modo. cast bizzarro: protagonista la diva di Hollywood Shelley Winters, poi il trio Max von Sydow / Renato Pozzetto / Alberto Lionello tutti e tre en travesti (fanno le tre donne vittime dell’assassina), tutti sublimi. c’è anche Milena Vukotic e in una parte piccola ma fondamentale anche un’icona di quel periodo come Laura Antonelli. insomma basterebbe il cast – e il fatto che i tre principali attori maschi interpretano prima ruoli femminili, ma poi tornano in ruoli maschili – per renderlo un film cult. ma a parte questo, è un film che merita davvero ed è ingiusto che sia stato dimenticato, come molti altri di Bolognini e molti altri di altri registi di quel periodo che non si trovano mai in classifiche, top 10, video di youtube, meme e via dicendo. atmosfera cupissima, tra rituali, tè con le amiche, sgozzamenti, e la cucina come un piccolo teatro.

La signora ammazzatutti (1994) – altro film su una mamma serial killer. questo era un mio film cult da bambino, lo guardavo sempre in tv, forse avevo anche la videocassetta, ma naturalmente non potevo sapere che era del regista di Pink Flamingos (e secondo me non lo sapevano nemmeno i responsabili della programmazione di Italia1). molto divertente anche rivisto oggi, possiamo dire che è il film “normale” di John Waters, diciamo che sta a lui come Una storia vera sta a Lynch – film che possono funzionare anche per le masse, ma senza snaturarsi, perché comunque è un film 100% John Waters, con quell’ossessione per un’immagine anni ’50 degli Usa, della famiglia, della comunità, che nasconde pulsioni inconfessabili e orrori vari. in certe inquadrature e in certe espressioni Kathleen Turner – veramente inquietante – ricorda Shelley Winters in Gran bollito, anche se il tono qua è molto più comico e grottesco.

The Boxer’s Omen (1983) – il penultimo film di Kuei Chih-Hung dei mitici Shaw Brothers Studio di Hong Kong – regista la cui filmografia andrebbe recuperata. come descriverlo? in sostanza sono 105 minuti di combattimenti tra monaci buddhisti e demoni (nello specifico un pugile che diventa monaco per sconfiggere i demoni) ma non è un film trash, anzi. certe scene fanno pensare al cinema sperimentale, ma per quanto assurde, sono del tutto coerenti – dopotutto chiunque abbia letto testi mistici tibetani, o il celeberrimo Sutra del loto, sa che in quel tipo di immaginario molte cose sono possibili. non so se il film si ispiri a testi religiosi o mitologici, ma non mi sorprenderebbe. gli ingredienti del film sono: horror, pugilato, buddhismo, magia nera, fotografia ed effetti speciali psichedelici, mostri di vario genere, misticismo, tette, coccodrilli, ragni, raggi luminosi di vari colori, scene d’azione particolarmente fantasiose e acrobatiche. se pensate a film visionari, esoterici e psichedelici come quelli di Jodorowsky, ecco questo va mooolto oltre. decine le scene memorabili, non saprei nemmeno sceglierne una, dovrei rivederlo, e credo che capiterà più volte nei prossimi anni, perché è istantaneamente diventato uno dei miei film preferiti.

La croce dalle sette pietre (1987) – film negli anni diventato un film cult eccetera eccetera: c’è gente che sostiene di averlo visto più volte – a me per ora me ne basta una. per far capire la trama basta dire l’altro titolo con il quale è noto il film: Il lupo mannaro contro la camorra. è tutto qua. Marco Antonio Andolfi l’ha scritto, diretto, prodotto, interpretato, montato, ha fatto gli effetti speciali, ha doppiato alcuni personaggi, ha recitato altri ruoli secondari e ha fatto pure lo stuntman. uno sforzo sicuramente ammirevole. in pratica c’è questo tizio a napoli a cui scippano una croce e da quel momento a mezzanotte, non si sa perché, si trasforma in un lupo mannaro, in realtà qualcosa di più simile a Chewbecca nudo, rasato dal mento in giù (forse per risparmiare sul trucco) e inizia ad ammazzare camorristi e mafiosi. è in parte horror, in parte melodramma napoletano, ma ci sono anche rituali boh, satanici, orge, un po’ tutto, e tutto fatto male. non c’è nemmeno quell’eccesso bizzarro che farebbe compiere il giro al film come è capitato a molti altri che sono talmente brutti e strani da diventare interessanti. è sicuramente bizzarro, ma alla fine è più che altro noioso. il suo autore, ho visto su youtube, nel 2010 lo difendeva ancora, quindi non l’ha mai rinnegato, e dopotutto aveva già ripreso successivamente il film aggiungendo nuove scene e intitolandolo Talisman, e poi, non contento, nel 2007 ha girato anche il sequel, un cortometraggio dal titolo Riecco Aborym. comunque questo La croce dalle sette pietre all’epoca è stato anche finanziato dal ministero, anche se non con una grande cifra, quindi è comunque un film a basso budget – viene da chiedersi cosa avrebbe combinato Andolfi con più soldi, mah. uscì solo in due sale, poi è diventato un film di cui molti parlavano ma pochi avevano visto, fino a una nuova vita – principalmente grazie a internet – tra nerd e cinefili archeologi. come in molti film italiani di quel periodo, molto spesso c’è un’atmosfera da film porno, senza mai però diventare davvero un film porno (ci sono giusto un paio di scene soft, una in particolare un po’ inquietante, quella con la veggente). insomma non trova mai l’eccesso vero, quindi non prende mai una strada interessante, a parte per l’idea di base “c’è un lupo mannaro che uccide camorristi”. viene in mente Landis, ma non tanto per Un lupo mannaro americano a Londra, ma per Amore all’ultimo morso, dove ci sono vampiri contro mafiosi ed è successivo a questo (Landis si è ispirato a Andolfi? sarebbe bellissimo). ah, nel finale appare Gesù in cielo sovrapposto alla basilica di San Pietro, dettaglio che allude a una possibile lettura religiosa del film, da non sottovalutare.

L’uomo nel bosco (2024) – l’avevo visto in cima alla lista dei migliori film dell’anno dei Cahiers du cinéma e avevo pensato: mah, chissà. beh, non era un’esagerazione. classifiche a parte, Alain Guiraudie è incredibilmente abile e raffinato. un film di un genere indefinibile – dramma? thriller? noir? – misterioso, allusivo, ambiguo. un esempio di come si dovrebbero scrivere le sceneggiature, una messa in scena perfetta, attori stupendi. tra l’altro un film semplice: pochissimi attori, è girato in un bosco e in due case, tutto qua. per il tipo di scrittura e regia misteriosa e ambigua mi ha ricordato Chabrol, ma forse solo perché sono entrambi francesi. anche questi personaggi di cui non capiamo nulla, la cui psicologia si svela lentamente ma resta comunque un mistero, ricorda molto quel tipo di cinema.

The meaning of life (2024) – di Riccardo Rinarelli, regista torinese credo 17enne, con interpreti anche più giovani. mi è piaciuto molto, è esattamente quello che si dovrebbe fare per iniziare a fare i film: zero soldi, prendere una videocamera qualunque, qualche amico, qualche strada intorno a casa, qualche appartamento di amici, e girare. c’è una freschezza che raramente si trova in altri film italiani di quelli che vanno ai festival e vincono premi. è diviso in “cortometraggi” (in pratica dei capitoli) con il tema del senso della vita, ma catturato in istanti, momenti qualunque, chiacchiere qualunque. alcune scene restano impresse: tre amici decidono di scrivere una canzone insieme, altri tre suonano una batteria improvvisata con piatti e pentole, un ragazzino impara ad andare in bici. il mio capitolo preferito forse però è il primo, che contiene anche un omaggio a wim wenders, ed è di una semplicità ammirevole. alla faccia del dogma di molti manuali “per un corto ci vuole un’idea forte”, ecco in questo primo capitolo non capita praticamente nulla. due amici vanno in giro in bici sul lungofiume. in un altro due amici cantano una canzone accompagnandosi con la chitarra, poi chiacchierano guardando il cielo. è tutto fresco, autentico, nessuno sembra recitare – probabilmente perché nessuno lo sta facendo. funziona. come per tutti i film fatti con zero mezzi, ovviamente l’audio non è buono, ma risolto questo io non vedo problemi. nella parte finale del film c’è un omaggio al cinema e alla città di torino.

Sharknado (2013) – il mio progetto per l’estate è vedermi tutti i film della serie, sono sei – e voi che fate? Grecia? Salento? Sardegna? quello che mi attira di più è proprio l’ultimo, il sesto, ma intanto ecco il primo, che avevo già visto, e che è davvero brutto. però l’idea alla base è bellissima, perché è un’idea audace, surreale, poetica. peccato per la realizzazione e per la scrittura davvero mediocre. però in questi film bisogna trovare il sublime, anche semplicemente in un momento, in un’immagine, una battuta, e il primo Sharknado ha una scena memorabile, che io metterei seriamente tra le più belle della storia del cinema (vabbè, in una top 500 diciamo). cioè quando un enorme squalo piomba dal cielo e si lancia contro il protagonista. lui non scappa: afferra una motosega e si lancia dritto dentro le fauci spalancate dell’animale. lo squalo cade a terra, sembra finita… poi, all’improvviso, la lama della motosega trapassa il suo corpo dall’interno. c’è un po’ di sangue, e infine il protagonista riemerge vivo e illeso, uscendo da dentro lo squalo come un eroe – ma non è tutto, con lui c’è anche una ragazza che credevamo morta (era stata mangiata da uno squalo in cielo, mentre era su un elicottero) e che scopriamo essere in perfetta salute. sembra un assurdo numero di magia. questo è cinema. mi viene in mente la mia scena preferita di Zombi 2 di Fulci, tra l’altro non voluta e non girata da Fulci, cioè quella della lotta subacquea tra uno zombie e uno squalo (surrealismo puro). nota: io Sharknado lo metterei anche tra i primi grandi film degli anni 2000 che parlano di cambiamenti climatici, perché la causa degli strani fenomeni che si vedono nel film viene spiegata in quel modo. quindi grazie Asylum, quando dovrò convincere qualche scettico dell’urgenza di preoccuparsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici gli dirò “aspetta, hai visto Sharknado?”.

Grazie per la cioccolata (2000) – ricordo molti anni fa, ero appena maggiorenne credo, stavo guardando La pianista di Haneke con un amico di 20 anni più grande di me. a me era piaciuto molto, lui alla fine lo liquidò con una frase: “cinema borghese per i borghesi”. era senza dubbio vero, ma – ormai si può dire – io ho un fetish per questo tipo di cinema, come ad esempio quello di Chabrol, che come Haneke ha passato buona parte del suo percorso artistico a distruggere la famiglia borghese, anche se in modi diversi. questo è uno di quei film poco ricordati, e invece è bellissimo, e tra l’altro la grande protagonista – si scopre lentamente guardando il film – è proprio la divina Isabelle Huppert, come ne La pianista (che è dell’anno dopo) e anche in quello che forse è il mio film preferito di Chabrol, Il buio della mente (film-bomba, chi non lo conosce lo recuperi). tutto parte con un pretesto abbastanza facile e anche poco credibile, ma poi si insinua qualcosa di indecifrabile, come è indecifrabile il personaggio di Huppert. sembra quasi un giallo, o un thriller, ma non succede niente, nessuno muore, niente viene rubato, eppure tutto è sottilmente minaccioso. c’è una delle scene più semplici e cinematografiche di sempre: quasi all’inizio, la Huppert prepara una cioccolata, ma poi, pensando di non essere vista, la rovescia a terra senza motivo, fingendosi maldestra. perchè? ogni suo gesto da lì diventa ambiguo e minaccioso, è una scena che sarebbe piaciuta a Hitchcock, sul quale – ricordiamo – Chabrol scrisse assieme a Rohmer un saggio mica oggi, che è facilissimo dire “grande Hitchcock”, ma nel 1957. la Huppert è come al solito inquietante e bravissima in particolare quando non parla (che magari non sembra ma è un complimento – lo so, forse potevo dirlo meglio), ma non è da meno la giovane co-protagonista Anna Mouglalis.

Miracolo a Le Havre (2011) – non l’avevo mai visto. di solito la dimensione favolistica nel cinema mi irrita, penso soprattutto a tanti film italiani più o meno recenti dove sembra obbligatorio che tutto sia una favola. però se a farlo è uno come Kaurismaki è tutta un’altra faccenda. praticamente è come un film dei Dardenne, ma senza il realismo e la macchina a mano, per quanto questa definizione possa apparire paradossale. che poi sarebbe da approfondire: tutto quello che vediamo può sembrare strano, irrealistico, tutte queste persone che si aiutano, soprattutto i più poveri ed emarginati (come in tutti i film di Kaurismaki dopotutto), che vogliono aiutare l’immigrato, c’è perfino lo sbirro buono, può sembrare una scelta politico-poetica, come se il film dicesse: ok, magari non è così che va, ma è così che dovrebbe/potrebbe andare. epperò c’è da dire che realtà così esistono davvero, di persone che si fanno il culo per aiutare immigrati, poveri e persone in situazioni di difficoltà (tanti esempi, penso ad es. a Baobab Experience a Roma), insomma sicuri che questo mondo così bello mostrato da Kaurismaki sia solo una fantasia? non lo so. poi ovvio che noi vorremmo la lotta, la gente che si aiuta, certo, ma che si incazza e inizia a occupare posti, lanciare molotov, bruciare macchine della polizia, ma sto divagando. comunque è l’ennesimo suo piccolo grande film, semplice, con nessun attore sotto i 50/60 tranne il bambino immigrato, alcol, sigarette, vecchi rocker, anacronismi che sembrano raccontare quasi una realtà parallela e una cura per i dettagli, per gli oggetti, per i vestiti, per le inquadrature, che in altri registi viene molto esaltata (penso a Wes Anderson) e che magari qua si nota meno, ma è proprio l’anima del film: quella famosa cosa che spesso riassumiamo con “atmosfera”. bellissimo il protagonista André Wilms, visto in alcuni altri grandi film, elegante e romantico lustrascarpe. per certi versi mi ha ricordato – seppur con le dovute differenze – un film italiano che appunto un po’ mi ha irritato, Io capitano di Garrone, proprio per la dimensione favolistica e la situazione giovane migrante.

I giorni del cielo (1978) – quando era ancora normale fare film narrativamente e visivamente grandiosi dalla durata di un’ora e mezza. solo due anni dopo arriverà I cancelli del cielo di Cimino, tre ore e mezza, ma quella è un’altra storia. comunque: il film di Malick ha una situazione torbida e intrigante che riprende in parte il mood dell’esordio capolavoro Badlands (uno dei miei film preferiti in di sempre, lo rivedo in continuazione), anche se non ha la magia di quel film irripetibile. comunque entrambi i film parlano di giovani poveri che cercano in qualche modo la libertà. ma è la parte visiva che lascia senza parole: si intravedono già cose che si vedranno ancora di più nei film post pausa di 20 anni (ricordo che Malick non ha fatto film dal 1978 al 1998), in primis The tree of life. quasi tutto girato al tramonto, ha una sequenza da storia del cinema, quella dell’invasione di locuste con successivo incendio, miracolo poetico-tecnico. musiche di morricone belle, ma in realtà, diciamo la verità, a restare in testa è Il carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, presente anche nei celebri e stupendi titoli di testa fatti con vecchie fotografie.

L’uomo senza passato (2002) – io credo che Kaurismaki possieda un potere speciale, perché certi suoi film in mano ad altri registi, anche bravi, non verrebbero bene così, verrebbero dei film qualunque, da dimenticare subito dopo la visione. invece i suoi ti restano addosso a lungo – magari non a tutti, a me sicuramente sì. questo è uno dei suoi migliori, forse proprio il migliore. idea semplicissima, il resto è tutto atmosfera, dettagli, musiche, colori, sigarette, recitazione innaturale. è come se Kaurismaki raccontasse storie minime per dire qualcosa di grande: che anche nel buio totale, la luce può ancora filtrare, magari da una finestra rotta, magari da una canzone rockabilly suonata male in una roulotte, magari tra i gesti di fratellanza e amicizia tra sfigati.

Enzo, domani a Palermo! (1999) – cosa posso dire, è uno dei miei film italiani preferiti di sempre. sembra un film con attori talentuosi  e molto credibili, e invece è un documentario. Ciprì e Maresco (ma si può dire che il film è molto mareschiano, infatti assomiglia in tutto ai suoi film da solo) seguono per anni un impresario di pompe funebri che è anche un organizzatore cinematografico che ha procurato attori e comparse per decenni alle produzioni che hanno girato in sicilia. sue collaborazioni con Tornatore, Pasolini, Coppola, De Sica, ecc. solo che viene condannato per una rapina organizzata dalla mafia. mafia che lui, come tutti gli altri protagonisti del documentario, non sa nemmeno cosa sia. il film è fatto di interviste, feste di piazza, cantanti e attori improbabili, cene, premiazioni, tutto rigorosamente a Palermo. la mia scena preferita è quando Maresco chiede al piccolo Totò Cascio “disgustato?”. ma anche Castagna che dirige l’Oscar siciliano dal balcone di casa perché è agli arresti domiciliari. il film è pieno di immagini stupende, a volte che durano anche solo pochi istanti. stranissimo l’equilibrio che si crea tra lo sguardo apparentemente cinico, perfino crudele, di Maresco e i personaggi del film. li sta sfruttando? sta ridendo di loro? questo dopotutto è l’equivoco dietro a tutta la produzione di Maresco, da Cinico tv fino agli ultimi film. in questo film io non credo sia così. sì, ci sono le gag (l’intervista ripetuta decine di volte perché il protagonista non sa pronunciare canterbury o perché dice Pasolino invece di Pasolini), ma a me non sembra ci sia cattiveria, anche perché Maresco queste persone le conosceva personalmente, abitava a Palermo, le avrà viste anche dopo, aveva rapporti con loro. qua l’equivoco è maggiore perché non sono attori – come nelle altre opere – ma persone che dalla strada sono finite in un documentario. è uno sguardo su una realtà che è effettivamente così: se sembra uno sguardo deformante e distorto, è perché è una realtà di per sè deformata e distorta. io credo che Maresco guardi questi personaggi/persone con una sorta di malinconica partecipazione, forse perfino una tenerezza che si nasconde sotto il sarcasmo. lo sguardo non è mai davvero totalmente di scherno, ma piuttosto di una constatazione dell’assurdità del mondo, tragico e comico insieme. a parte la considerazioni morali, sulle quali si può discutere, resta un film indefinibile, non-genere, e un documento eccezionale di certi quartieri di Palermo di metà anni ’90.

Il posto delle fragole (1957) – non il mio film preferito di Bergman (ho tutta una lista di film che vengono prima di questo: Fanny e Alexander, Monica e il desiderio, L’ora del lupo, La fontana della vergine, Sussurri e grida, Persona) ma senza dubbio un capolavoro. non l’ho mai letto da nessuna parte ma a me sembra evidente che abbia influenzato Fellini per Otto e mezzo – è così, nessuno mi farà mai cambiare idea. comunque è tra i film visti perché era tra quelli da vedere nel gruppo cinema del collettivo, a dire la verità ce l’ho messo io, in quanto fotografa un certo tipo di cinema di quel periodo e un tipo di sensazione, tra il sogno e il ricordo, che insomma, che gli vuoi dire. scritto in ospedale, e lo stesso anno aveva fatto anche Il settimo sigillo e varie opere a teatro. stronzo quanto vuoi Bergman, ma non gli puoi dire che perdeva tempo.

Dracula di Bram Stoker (1992) – non ricordavo di averlo visto nonostante avessi la vhs a casa quando ero piccolo. anzi forse l’avevo visto ma ricordavo solo la scena dell’orgia (che dura pochi secondi e non si vede niente di che). rivedendolo oggi: film fuori di testa, stupendo, che si ispira all’espressionismo ma va molto oltre, con una regia gotica, psichedelica e oscura, piena di idee. ogni singola immagine contiene tante idee di cinema. veramente bello, direi sottovalutato. alla fine è uno dei film migliori di Coppola.

Wrong Cops (2013) – immaginiamo Il cattivo tenente (quello di Herzog però, non quello di Ferrara) come se fosse un film della Troma, o magari di John Waters feat Lynch, però fatto da un francese. quindi un film trash d’autore, demenziale ma anche stranamente politico. poliziotti marcissimi, tutti, che costantemente abusano della loro autorità, ossessionati dai soldi e dal sesso, tutti dei totali idioti psicopatici che fanno qualsiasi cosa nella più totale impunità, convinti di essere “all’inferno, schiavi solo della natura”, in un mondo completamente sbagliato e disperato. sì, in pratica – nonostante il gusto surrealista di Quentin Dupieux – questo film è praticamente un documentario. a tratti divertente, a tratti semplicemente strano e disturbante. io me lo ricordo quando è uscito Rubber, nel 2010 (citato anche in Wrong Cops): era un oggetto filmico non identificato, perché l’idea di avere come protagonista uno pneumatico era inedita, quindi ricordo la fatica per trovarlo… il film poi non era granché (non lo so, dovrei rivederlo), ma da lì in poi Dupieux ha fatto tutta una serie di film strani, creando un mondo cinematografico tutto suo che assomiglia a poche altre cose in giro, cosa che lo rende uno dei registi francesi più interessanti. tra i tanti, ricordo due ottimi film: l’incredibile Doppia pelle, e il successivo Mandibules. poi, in tempi più recenti, Yannick è perfino uscito nelle sale italiane, era in concorso ai festival, Cahiers du cinéma gli ha dedicato un numero, insomma ormai viene riconosciuto il suo talento e anche la sua perserveranza nel portare avanti un’idea di cinema molto diversa. la trama più interessante, tra le tante che si intrecciano, è senza dubbio quella dell’unico sbirro che non agisce per soldi, che non fa male a nessuno, completamente ossessionato dalla musica elettronica che produce nel salotto di casa e che non viene apprezzata da nessuno. a un certo punto un personaggio gli dice “ma chi vuoi che voglia ascoltare la musica di uno sbirro?”. nonostante il suo aspetto deforme (ha un tumore in testa e una benda sull’occhio) è l’unico normale, vive all’inferno ma ha la passione per la musica come unica ancora di salvezza. curiosità: il film è nato come breve cortometraggio, poi il regista ha aggiunto altri episodi man mano che otteneva finanziamenti, infine al montaggio ha mischiato tutto ed è venuto fuori quello che vediamo.

Film rosso (1994) – uno dei più grandi film degli anni ’90, e uno dei più grandi film di sempre. Kieslowski ho l’impressione che sia un regista un po’ dimenticato, non lo so, celebratissimo all’epoca, poi è morto giovane, ma adesso non lo vedo mai citato da nessuna parte. della trilogia dei colori, Film rosso è il capolavoro. tutti dicono Film blu, ma io non sono d’accordo. va visto più volte, un cinema misterioso, allusivo, raffinato. se n’era accorto perfino Tarantino – che una volta su due dice una cazzata – che a Cannes pare avesse detto che Film rosso meritava di vincere la palma d’oro,  che poi invece vincerà Pulp Fiction. film costruito in modo abilissimo, alternando vite parallele che invece, si scopre, più che parallele sono intrecciate. è difficile spiegare di cosa parla: va visto. la famosa immagine finale lo rende un oggetto poetico e misterioso. ci sarebbe da dire molto ma non dico altro, perché mi dilungherei oltre misura. voto 10.

Film blu (1993) – vedi sopra, il primo film della trilogia è quello più famoso ma non il più bello. cioè, bello, ma non all’altezza della fama. odio quando qualcuno dice che un film è “invecchiato male”, ma temo che Film blu sia invecchiato male. ovviamente parliamo di Kieslowski, un grande artista, quindi ci sono momenti altissimi, ma è il più scontato della trilogia, il meno potente. ripeto: stiamo parlando di Kieslowski, quindi anche una sola scena, una sola sequenza, vale più di intere filmografie (sì, mi piace Kieslowski). però è inevitabile fare dei paragoni con gli altri della trilogia dei colori, e Film blu lo metto all’ultimo posto.

Film bianco (1994) – dei tre è il più bizzarro, sicuramente lo preferisco a Film blu. più simile al Decalogo. uno strano film comico, ovviamente – essendo scritto da Kieslowski e dal fidato Krzysztof Piesiewicz – tutt’altro che semplice. scena memorabile quando il protagonista arriva in polonia dentro una valigia, rubata da una piccola banda di ladri, esce fuori, viene malmenato, rotola giù da una collina e guardandosi intorno, in un paesaggio bianco e desolato, dice “finalmente sono a casa”. da lì parte una storia assurda di trasformazione, totalmente imprevedibile. non so, vedo a volte nei canali social dedicati al cinema commenti tipo “ah, allora guardati un film polacco” contrapposti al cinema mainstream di solito statunitense, come dire “guardati un film palloso”. ma perché? Kieslowski non è molto più avvincente di un qualunque film della marvel? e Skolimowski? e Rybczyński? non ho mai capito perché nell’immaginario collettivo “polacco” è sinonimo di palloso. vabbè, a parte questo, Film bianco è divertente e ovviamente, essendo scritto da due che sapevano scrivere, ha una sua imprevedibile profondità. i protagonisti, dopotutto come quelli di Film blu, appaiono nel celebre finale di Film rosso, a chiudere la trilogia.

Trap (2024) – profezia: Shyamalan subirà il percorso critico di Hitchcock, da personaggio-intrattenitore di film giocattolo molto ben fatti, a autore rivalutato da tutti. non dico identico, ma qualcosa di molto simile sì. lo so, ora mi date del pazzo, ma ne riparliamo tra 20 anni. detto ciò, dopo i circa 10 anni di film orrendi (2006/2015), dal gioiellino The visit in poi ha fatto solo film belli. questo Trap è uno di quei film, come altri di Shyamalan, che rispondono alla domanda: è possibile che un film sia pieno di parti non credibili e incoerenti e scene improbabili ed essere comunque molto bello? decisamente sì. è pieno di film così e di solito io li amo, i famosi “film imperfetti”. hanno un fascino che il film perfettino acclamato dalla critica proprio per la sua geometrica perfezione non avrà mai. Trap è di questi adorabili e indimenticabili film imperfetti e bellissimi. la prima ora a dire la verità è perfetta, è un altro di quei film che sicuramente sarebbero piaciuti a Hitchcock, anche perché almeno fino a un certo punto è costruito tutto su un’idea di suspense geniale e una regia impossibile da criticare. situazione tipo Omicidio in diretta di De Palma, ma per tutto il film siamo portati a tifare per un serial killer (spoiler? non lo so, ho scoperto che tutti lo sapevano perché si vedeva nel trailer e dopotutto si scopre dopo pochi minuti – io però non lo sapevo). il film dalla parte dell’assassino ovviamente rimanda ancora a Hitchcock, solo che qua è veramente un bravo papà che vuole bene a sua figlia – o sembra, forse no, perché è anche uno psicopatico. come ha giustamente notato qualcuno – credo lo stesso regista – siamo anche in zona Unbreakable: potresti scoprire che tuo padre è un super eroe, oppure un super cattivo. di cose belle da dire ce ne sono tante, è un film che da alcuni è stato sottovalutato e ridotto a “Shyamalan che fa Shyamalan”, ed è così, ci mancherebbe. infatti peccato per gli ultimi 40 minuti, dove Shyamalan non resiste al suo più grande vizio, cioè i colpi di scena (stavolta non ce n’è uno enorme, classico suo marchio di fabbrica, ma tanti piccoli e inutili) e il film diventa un mezzo delirio, per non parlare della spiegazione psicologica, vabbè. sono inezie, di fronte a un film così potente. dopotutto l’intera idea si basa su un’azione davvero poco credibile (per chi l’ha visto:  i biglietti del concerto…), ma te ne freghi completamente, esattamente come in molti grandi film di Hitchcock. il cinema non dev’essere sempre plausibile. dopotutto immaginate di fare un sogno bellissimo, di quelli proprio potenti che ti ricordi per anni, non è che dopo ti chiedi “aspetta, però esattamente come iniziava? perché mi trovavo seduto lì?”. siamo in zona MacGuffin insomma. Josh Hartnett, il protagonista, funziona benissimo, quasi sempre ripreso in primo piano, ma a sorpresa anche Saleka Night Shyamalan, figlia del regista, cantante e attrice, che per la prima ora di film è quasi una figura di sfondo che non ti aspetti abbia qualche rilevanza a parte cantare canzoni pop, e invece poi passa a un ruolo attivo fondamentale.

Ho visto la tv brillare (2024) – qualche giornaletto avrà già scritto “il Donnie Darko queer”? non ho cercato, ma scommetto di sì. allora, lo ammetto, avevo qualche pregiudizio, perché dalle poche cose che sapevo – veramente poche – sembrava l’ennesimo film A24 (presentato ovviamente al Sundance) con un certo tipo di musica, un certo tipo di colori, un certo tipo di protagonisti, e infatti è così. il titolo originale è I saw the tv glow, e glow si può tradurre con luminosità, incandescenza, bagliore, brillare, cose di questo tipo. quindi il film, sia nelle musiche sia nella fotografia, ha un’estetica quasi vaporwave, con una scelta piuttosto facile e prevedibile verso il rosa, il blu e quindi il viola e le varie sfumature, tutto abbastanza acceso, stile neon. però non è un passato idealizzato e confortante, è più un passato inquietante: lo stesso protagonista non è un emarginato/disturbato come Donnie Darko che in realtà era un super figo – no, questo è veramente uno sfigato. però il film è cool in tutto, i titoli di testa, le scritte, l’ha prodotto Emma Stone, l’ha distribuito l’A24, insomma è costruito per essere qualcosa di cool – scusate, sembro cinico, è una cosa che odio – ma in realtà, so che sembra contradditorio, è anche un film sentito, autentico, ispirato. è un film che parla di questioni identitarie in maniera non del tutto – un po’ sì – didascalica, ma sceglie intelligentemente una strada criptica, simbolica, misteriosa – siamo anche dalle parti di Lynch, per capirci, ma anche del telefilm Buffy. questo è un aspetto che lo rende interessante, però, nonostante i buoni propositi, non capisco l’enorme entusiasmo per questo film. addirittura anziani come Scorsese e Schrader si sono espressi parlandone benissimo. forse proprio perché su questi temi è difficile fare film originali, e questo sicuramente c’ha provato. non so. probabilmente diventerà un cult per trans e persone queer cresciute negli anni ’90 primi 2000, oppure sarà ricordato come un capolavoro di questi anni, “un film importante” come si sta già facendo. a me non ha particolarmente emozionato, ma mi è piaciuta l’ossessione per una serie tv che diventa più vera della realtà, questo sì.

Pokémon: Detective Pikachu (2019) – un noir fantascientifico surreale, un noir weird, tra Chi ha incastrato Roger Rabbit, Blade Runner e i Gremlins. io non so nulla dei pokemon, non ho mai capito cosa sono, quindi ho visto il film in quanto film e non in quanto film legato al fenomeno mondiale bla bla bla. sì, scelgo i film in modo random, ogni tanto bisogna affidarsi completamente al caso: di solito mi basta un’immagine, una suggestione, e mi dico “perché no?”. la cosa bizzarra è che non me ne sono pentito, e anzi me lo sono visto tutto sentendomi anche piuttosto coinvolto. un difetto enorme secondo me è che l’aspetto più interessante, cioè la convivenza tra pokemon e umani, o comunque il loro rapporto anche conflittuale, viene completamente depotenziato nel film: i due pokemon principali che vediamo (non dico quali, non sia mai che c’è qualche matto che se lo vuole vedere) di fatto sono umani all’interno del corpo-pokemon. quindi quello che sembrava un interessante rapporto tra umano e completamente-altro, si scopre essere un rapporto umano-umano. forse al momento è sembrata un’ottima trovata di sceneggiatura, ma di fatto rovina l’unico vero aspetto interessante. però il film funziona comunque, in qualche modo. per una coincidenza strana, il protagonista è lo stesso di Ho visto la tv brillare, il film che ho visto prima di questo, e che in certo senso parla sempre di persone dentro altri corpi.

L’ultima onda (1977) – alla fine Peter Weir forse in tutta la sua vita ha fatto un solo grande film, Picnic ad Hanging Rock, uno dei miei film preferiti di sempre, nonché sfondo del mio desktop credo per quasi 10 anni. ne ha fatto altri abbastanza interessanti, tipo Mosquito Coast, ma Picnic ad Hanging Rock resta irripetibile. e due anni dopo quello, aveva fatto questo L’ultima onda, oggi credo abbastanza dimenticato – e invece è interessante. tra l’altro, volendo, è anche un film sui cambiamenti climatici: la storia inizia con tutta una serie di eventi climatici estremi (all’epoca se ne parlava già, quindi non è così strano). c’è questo avvocato bianco che si ritrova coinvolto in un caso di omicidio tra aborigeni urbani a Sydney, ma poi inizia ad avere visioni apocalittiche legate a un’antica profezia aborigena. il tutto è raccontato in modo molto misterioso. il film suggerisce che la cultura occidentale non può comprendere del tutto la spiritualità aborigena, che possiede una profondità che sfugge alla logica razionale. è uno sguardo inevitabilmente bianco: questo mondo “misterioso” è misterioso semplicemente perché appartiene a un’altra cultura e parla una lingua che non capiamo. l’atmosfera misteriosa – e indubbiamente suggestiva – può essere vista anche come una forma di esotismo. ma non c’è niente di male, anzi direi che il film forse è proprio su questo, cioè su questo mondo che resta opaco allo sguardo occidentale e sulla tensione tra il bisogno di comprenderlo e l’impossibilità di farlo davvero. in questo senso, il mistero non è nella cultura aborigena, ma nello sguardo che cerca di decifrarla senza appartenervi. in realtà, al netto della pioggia nera, delle rane e delle pietre magiche, non so cosa volesse dire veramente Weir con questo film, la sensazione è che semplicemente sfrutti il potenziale magico e misterioso di una cultura non bianca (come già detto, magica e misteriosa proprio perché vista dalla lente bianca) per sviluppare una sorta di strano thriller apocalittico ossessionato dall’acqua, a volte noioso, a volte ipnotico e onirico, sicuramente affascinante. condivide con Picnic a Hanging Rock l’atmosfera enigmatica, ma lì il vero mistero era la natura, irrazionale e indecifrabile, qua invece è tutto più esplicito, cosmologico (si parla di cicli, di profezie, ecc.) e spirituale, sebbene comunque abbastanza enigmatico. la sensazione, in entrambi i film, è che i bianchi non ci facciano un cazzo in Australia. se Picnic a Hanging Rock raccontava il mistero della natura filtrato dall’inconscio coloniale, L’ultima onda lo riconduce a un discorso spirituale che l’occidente non può comprendere. bella l’ultima immagine, con il protagonista di fronte a una grande onda, forse vera, forse solo una visione. di qualche anno dopo, in tema “aborigeni visti dai bianchi”, interessante anche Dove sognano le formiche verdi di Herzog.


Continua…

(segnalatemi film da vedere – di qualunque tipo, guardo tutto – scrivendo nei commenti oppure in email)

 

5 risposte su “Diario estivo. La necrosi.”

Vediti
Beyond the Black Rainbow
di Panos Cosmatos (probabilmente te l’ho già suggerito)
Adoro che hai citato Rubber, dopo che siamo gli unici ad aver visto Uncle Boonmee <3
Io però non vedo nulla, ma per caso alcune cose folli le ho viste

Qualche titolo:

– Nói Albinói, Dagur Kári, 2003
– 101 Reykjavik, Baltasar Kormákur, 2000
– Attenberg, Athina Rachel Tsangari, 2010
– Rebels of the Neon God, Tsai Ming-liang, 1992
– Made in Hong Kong, Fruit Chan, 1997
– La doccia, Yang Zhang, 1999
– Le mie notti sono più belle dei vostri giorni, Andrzej Zulawski, 1989
– Zusje, Robert Jan Westdijk, 1995
– Herr Lehmann, Leander Haußmann, 2003
– O’Horten, Bent Hamer, 2007
– Kitchen stories, Bent Hamer, 2003
– Lista de espera, Juan Carlos Tabío, 2000
– Lars and the real girl, Craig Gillespie, 2007
– I love you, Marco Ferreri, 1986
– Toni Erdmann, Maren Ade, 2016
– Man on wire, James Marsh, 2008
– El Mariachi, Robert Rodriguez, 1992
– Tillsammans, Lukas Moodysson, 2000
– The Edge of Heaven, Fatih Akin, 2007
– Soul Kitchen, Fatih Akin, 2009
– Cous cous, Abdellatif Kechiche, 2008
– La faute à Voltaire, Abdellatif Kechiche, 2000
– Le prénom, Alexandre de La Patellière, 2012
– La moustache, Emmanuel Carrère, 2005
– Ema, Pablo Larraín, 2019
– Louise-Michel, Benoît Delépine, 2008
– Torremolinos 73, Pablo Berger, 2003
– Samsara, Lois Patiño, 2023
– La Teta Asustada, Claudia Llosa, 2009
– Kamome diner, Naoko Ogigami, 2006
– Hukkle, György Pálfi, 2002
– The cyclist, Mohsen Makhmalbaf, 1998
– At Five in the Afternoon, Samira Makhmalbaf, 2003
– Sisters with transistors, Lisa Rovner, 2020
– Vodka lemon, Hiner Saleem, 2003
– Miesten vuoro, Mika Hotakainen, 2010
– Another round, Thomas Vinterberg, 2020
– Millennium Mambo, Hsiao-Hsien Hou, 2001
– Leave no trace, Debra Granik, 2018
– Evil does not exist, Ryûsuke Hamaguchi, 2023
– Holy spider, Ali Abbasi, 2022
– The square, Ruben Östlund, 2017
– 4 Months, 3 Weeks and 2 Days, Cristian Mungiu, 2007
– Fremont, Babak Jalali, 2023
– Barking Dogs Never Bite, Bong Joon Ho, 2000
– Spaceship Earth, Matt Wolf, 2020
– The Source family, Jodi Wille, 2012
– Estômago, Marcos Jorge, 2021
– Central do Brasil, Walter Salles, 1998
– Honeyland, Tamara Kotevska, 2019
– Interdit aux chiens et aux Italiens, Alain Ughetto, 2022
– The Monk and the Gun, Pawo Choyning Dorji, 2023
– On the Go, Julia de Castro, 2023
– Teddy Bear, Mads Matthiesen, 2012
– PTU, Johnnie To, 2003
– City of wind, Lkhagvadulam Purev-Ochir, 2023
– Der Wald vor lauter Bäumen, Maren Ade, 2003
– Cartas Telepáticas, Edgar Pêra, 2024
– Propaganda, Slavko Martinov, 2012
– L’arrivo di Wang, Fratelli Manetti, 2011
– Celestial Wives of the Meadow Mari, Aleksey Fedorchenko, 2012
– Thomas est amoureux, Pierre-Paul Renders, 2000
– Run Lola Run, Tom Tykwer, 1998
– Caótica Ana, Julio Medem, 2007
– Holy Electricity, Tato Kotetishvili, 2024
– Art College 1994, Jian Liu, 2023
– The story of Looking, Mark Cousins, 2021
– Divinity, Eddie Alcazar, 2023

Sguazzano quasi tutti nella Baia.

grande. alcuni li ho visti, alcuni li ho visti ma 2000 anni fa, ma la maggior parte non li ho mai visti e mai sentiti, quindi ottimo. grazie.

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