La gente lo stagno non riesce a capirlo, c’è poco da fare. Pensano sia una versione scadente del mare, o addirittura lo paragonano al lago, oppure proprio non ci pensano, e forse è meglio così. Lo stagno è diverso dal mare principalmente per due motivi: 1) non ci si può suicidare, o comunque è molto più difficile, perché l’acqua è bassa, non ci sono forti correnti e comunque presto o tardi arrivi alla riva; 2) la notte è talmente fermo e silenzioso da sembrare finto. Ma non è quel tipo di immobilità che fa pensare alla calma, alla pace e alla rilassatezza (ma quando mai): è qualcosa di più vicino alla morte, a una morte apparente. Tutto infatti sembra finto. Le luci della piazza illuminano il canneto e oltre c’è solo questo blu indefinito, come se la scenografia fosse finita lì. Un passo indietro e sei nella piazza, un passo avanti e sei in un racconto di Lovecraft. Il percorso pedonale che il comune ha genialmente pensato di costruire – una sorta di lungostagno – durante il giorno appare del tutto inutile, dato che, a parte contemplare l’acqua sporca e quei froci dei fenicotteri, c’è poco da fare di fronte a una distesa d’acqua di questo tipo, se non cose inutili (baciarsi, prendersi mano nella mano, scattare fotografie, farsi domande sull’esistenza). Ma la notte acquista improvvisamente senso e diventa il cammino tra le pieghe nascoste del paese: tra la civiltà, l’arancione dei lampioni, e il buio blu dell’acqua scura, dove riposano i miei incubi prima di venirmi a svegliare aprendo improvvisamente le ante dell’armadio mentre io dormo o fingo di dormire.
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