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Ma dov’ero io, quando eravate tutti in Grecia?*

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quali torri?” e “ma certo che me lo ricordo, io ero sull’aereo! ero il pilota!” e qualcun’altro “se mi ricordo dov’ero quando è crollato il colosseo? eccome se me lo ricordo, mio figlio era lì, era l’imperatore!” oppure “il giorno che le torri vennero su dalle macerie senza una spiegazione? me lo ricordo, lo vidi in tv! che mistero!” e anche “come no! io ero su una delle torri, sono morto! me lo ricordo bene quando sono morto, che giornata incredibile, prima ero vivo! dopo invece ero morto! mi ero visto giusto quella mattina, non sembravo stare male, parlavo poco ma salutavo sempre, e poi sono morto! com’è questa storia che sono morto?” mentre ci pisceremo e cagheremo addosso senza accorgercene in qualche struttura fatiscente, maltrattati dal personale crudele perché non avremo versato abbastanza contributi inps da poterci permettere il badante robot né un nuovo corpo fornito dal servizio sanitario transumanista, condannati alla confusione mentale perenne e a un eterno accanimento terapeutico statale, tra scarafaggi, nutrie, ratti grandi come orsi e orsi grandi quanto elefanti, che sono più grandi degli orsi, e ci saranno inoltre elefanti cavalcati da ratti diventati intelligentissimi che lotteranno con orsi mediamente intelligenti ma molto ben dotati, tutti segretamente dominati dalle nutrie e dai koala che dormono tutto il giorno, e intorno a noi sconosciuti novantacinquenni rugosi e piagati, persi nei labirinti dell’infermità mentale e nelle allucinazioni, poveretti, pensano di essere in attesa di nascere e dicono con la vocetta “chissà come sarà mia mamma! chissà che aspetto avrò! non vedo l’ora di conoscere i miei amichetti e andare a scuola!” avendo ormai del tutto incasinato i piani temporali, convinti di non essere ancora nati, alcuni con la testa verso il muro come in castigo, altri a fissare sul soffitto macchie di muffa che iniziano a prendere vita, altri a guardare le pareti bianche macchiate di schizzi di feci e sangue, lasciate così dai volontari della struttura perché almeno arredano e rendono meno asettico e impersonale l’ambiente, e dopo un po’ la merda diventa giallina, il sangue arancione, sembrano affreschi antichi e hanno un loro fascino, e altri di noi, quelli messi peggio, sono in un angolo ridotti a fare la collezione di meme anni ’10 del 2000 come un tempo si faceva quella di francobolli e tessere telefoniche, ordinandoli e riordinandoli tutto il giorno senza motivo, prima per ordine cronologico, poi per formato, per dimensione, per categoria di meme, per intensità di layers, tra risatine isteriche e indistinguibili ictus post-ironici, intrappolati in un ghigno sardonico pre-morte ma senza mai morire davvero e i volontari inizieranno a darci supposte di cibo infilate nel culo che poi vomiteremo dalla bocca e ce le rimetteranno in culo e le rivomiteremo dalla bocca, in una continua agonia peristaltica, e ogni tanto qualcuno dirà “e voi dov’eravate quando l’aereo colpì la seconda torre? ve lo ricordate?” e qualcun’altro, poco prima di vomitare, “io stavo guardando la televisione! sembrava un
film!” tra gorgoglii e colate di vomito, e anche, solennemente, “da quel giorno è cambiato tutto, tutte le nostre vite sono cambiate” poco prima del prolasso rettale definitivo, e altri canteranno le sigle dei cartoni animati, tra un attacco diarroico e l’altro diranno “te lo ricordi Holly e Benji, quello con Bud Spencer e Beverly Hills?” con fluidi gelatinosi che escono dal naso, dalla bocca, perfino dalle orecchie trascinandosi pus e scaglie di pelle morta come un fiume che tracima portando flutti di merda e detriti sul pavimento accumulandosi tra i mobili formando piccole isole di residui organici come quelle mega isole di plastica dove si dice che vivano tutti i personaggi famosi che in realtà non sono morti, come Benito Morandi, “e ti ricordi Cristina D’Avena? e facebook? e i bias, vi ricordate i bias che buoni che erano? ci facevamo delle scorpacciate! quando andavamo tutti insieme all’Isis a guardare le vetrine? e vi ricordavate quando andavamo a cliccare il telefono? e tutte le password di una volta, quelle con i caratteri speciali e i numeri, tipo !=H2Jpt`*”rZbFk+ e v*y(38′>??Lukh{U? e quando guardavamo in una giornata tutte le puntate di SCFFFFFFSHSKK con il commissario Frederique Montalbano appena caricate sul televideo mangiando i pop-corn di soia allo zenzero dentro la cloud society di nostra nonna, ma quella di una volta, quella bella, quando era tutto una blockchain con il motorino truccato e ci si divertiva con poco, come nelle canzoni dei Commodore 883, sei un mito, madamina il catalogo è swag, rotta per  casa di Frizzi, il bitcoin magico di pamino e pamela anderson, la famosa diva dell’opera che lottava per i diritti delle nutrie, e vi ricordate che buoni i panini con la carne scomposta e tritata e poi ricomposta in una forma rotonda e inserita all’interno del pane di grano saraceno con il cetriolino che però lo toglievamo e quello ritornava, lo toglievamo e ritornava, ritornava sempre il cetriolino, ci appariva anche in sogno e lo vedevamo quando eravamo fatti di mdma con Walter Veltroni, Alessandro Baricco, Tito Schipa e poi Guè Pequeno con le sue divertenti e istruttive lezioni di fisica e storia in tv, Michele Santoro, Michele Mirabella, Michele Serra, Michele Placido, Michele Misseri, ci fu quel periodo che si chiamavano tutti Michele, ora non si usa più, e allora però ci piaceva Michele e ci piaceva il cetriolino, così come ci piacevano le lezioni di fisica di Guè Pequeno, la sua incredibile cultura e la sua sottile ironia, con quei capelli strani, simpatico e brillante anche quando parlava dell’antica Roma, dell’antica Bari, dell’antica Salsomaggiore, dell’antica Rho, dell’antica Dubai, e di quando a New York c’erano le piramidi al posto delle torri gemelle, faceva ridere ma anche riflettere, era anche più bravo di suo padre Piero Angela Pequeno, uno dei pionieri del sintetizzatore anale, suo nonno era cardinale e per questo aveva fatto carriera, o almeno così si diceva, e allora il cetriolino ci sembrava buonissimo anche quando lo vomitavamo e lo trovavamo intero e lo mangiavamo di nuovo, all’epoca ci piaceva proprio, tanto che ci fu un periodo in cui toglievamo la carne e mangiavano solo il cetriolino! vi ricordate?” e qualcuno indicherà la finestra urlando “attenti! guardate fuori! sta arrivando un aereo! si ripete, si ripete ancora!” come i soldati reduci del vietnam nei film di max pezzali, quelli affetti da disturbo post-traumatico da stress che all’epoca non si chiamava ancora così ma semplicemente “pranzo in famiglia” o “cheratocono” o “telegiornale” o “fare la spesa” o “monetine” o “dichiarazione dei redditi” o “fattura elettronica” o “matrimonio degli amici” o “reimposta password” o “una birra con gli amici al pub”, perché saremo tutti definitivamente rincoglioniti e inizieremo a perderci nel tempo confermando le teorie della fisica contemporanea, con tutti i puntini sovrapposti in un unico indistinguibile punto del tempo convinti di vivere un evento che in realtà non è ancora avvenuto ma che già stiamo ricordando tra una vomitata e l’altra per sfuggire allo straziante dolore inflitto dalla natura e da questi giovani infermieri assunti come volontari, dato che questo lavoro nessuno lo voleva fare, quindi al bando regionale hanno risposto solo i disoccupati più crudeli con tendenze omicide, identici ai cenobiti di Hellraiser, entusiasti di poter seviziare noi sopravvissuti, ma va bene così, anzi per la collettività è meglio perché questi volontari sono individui potenzialmente pericolosi che andrebbero in giro a fare del male agli elementi sani e produttivi della società oppure a suonare la musica barocca, o la trap, o a fare  gli hashtag, oppure a uccidere, stuprare e torturare, non si può sapere, uno di questi potrebbe anche avere del talento come musicista, come influencer o come stupratore e torturatore, o tutte queste cose insieme, dunque meglio non rischiare e canalizzare il loro talento in questi istituti per anziani dove invece trovano uno sfogo alle loro pulsioni su noi vecchi indifesi, cosa ci vuoi fare, va così, non è più come un tempo quando era tutto un Don Matteo da tutte le parti, che poi i volontari sono degli aguzzini senza cuore, è vero, ma alla fine, quando li conosci meglio, bisogna dire che questi ragazzi non sono poi così cattivi , davvero, ad esempio il puntaspilli fa tanto paura ma in realtà è il suppliziante più gentile di tutto l’undicesimo piano, con la supposta ci dà uno zuccherino e noi lo ringraziamo cantando le sigle dei cartoni animati e lui ci infila aghi sotto le palpebre, ma per scherzo, perché è un burlone e a volte dentro lo zuccherino ci mette un amo da pesca arrugginito e allora c’è la sorpresina, “come l’ovetto Hitler-Jugend, te lo ricordi l’ovetto Hitler-Jugend? dentro c’era la sorpresina, in motorino sempre in due! rotta per casa di Auschwitz, che non ci ricordavamo mai come ci scriveva e lo cercavamo su bing.com, quante belle canzoni che c’erano madonna, che tempi!”, invece il suppliziante obeso è un povero stupido, è cattivissimo, ma proprio pazzo, si passa in continuazione la lingua sui denti e fa dei versi animaleschi, è veramente il più malefico di tutti, a volte ci legge i titoli degli articoli di Vice e IlPost.it e noi ci mettiamo a urlare e più urliamo e più lui sbava e ci legge altri titoli, e la stanza si riempie di fluidi corporei nei quali ogni tanto uno di noi che tenta di alzarsi ci scivola sopra, cade e resta a terra in agonia anche per diversi giorni tra sangue, bava, gelatina, diarrea, catarro, altre sostanze che non si sa da dove vengono, finché puntaspilli lo solleva e lo rimette sulla poltrona o sulla barella, o lo appende al muro come un capotto, gli fa un’iniezione transvitreale e poi passa tutto, e allora quello inizia a cantare la sigla di Art Attack, poi urla “non sono più una crisalide sospesa a un filo sericeo!”, si convince di essere una farfalla e si mette a battere le ali alzando le braccia su e giù, cosa che gli provoca subito un rigurgito gastrico, altri fluidi sul pavimento, vomitate effetto domino, “e vi ricordate enrico mandela mentana, quando venne imprigionato sull’isola dei famosi? poi diventò presidente!” spesso l’appendiabiti cede, si stacca dal muro e il vecchio pazzo cade a terra, continuando ad alzare le braccia su e giù, allora si convince di essere una creatura marina e nuota nei fluidi del pavimento, anzi più che altro sembra un anfibio, dato che il livello dei fluidi raramente supera la caviglia, dunque striscia nella fanghiglia di scarti umani finché non lo trova il suppliziante obeso che lo rimette a posto dopo averlo torturato un po’ leggendo vecchi titoli di thevision.com, come vi credevate intelligenti e invece facevate schifo, vorrebbe dire l’obeso, ma non può parlare, può solo esprimersi in versi bestiali che noi traduciamo, ciascuno in modo diverso, “e l’astronave gesùcristoforetti affondata al largo dell’isola del giglio, ve la ricordate? e ken shiro foretti, il nokia 3310 foretti, roberto baggio foretti, lady oscar foretti e soprattutto Jeff Bezos Foretti, l’idolo delle ragazzine che faceva i concerti dentro l’acceleratore di particelle e poi un gi
orno è misteriosamente scomparso, com’era andata a finire quella storia?”, e tutto questo sarà solo una parte del dolore futuro, perché poi ci ritroveremo soli, in una stanza dalle pareti bianche silenziosa, senza nemmeno il diversivo dei supplizianti che alla fine facevano compagnia, anche quando ci spalmavano sulla faccia le nostre feci, o quelle di qualcun’altro, lo facevano per punirci ma in realtà ci faceva piacere, era comunque un contatto umano, soprattutto quando le feci erano appena uscite dal corpo erano calde e quel calore era un dolce abbraccio, come quando eravamo giovani e cliccavamo tutti insieme, invece niente, non ci sarà proprio nessuno, solo un orrendo silenzio e un dolore infinito, lacerante, insopportabile::::::::::::::::: ::::::::;::::::::::: ::::::::;;;;;;::::::;::::::: :::::::::::ccc::ccc’..’…………..’…:OKo;:::::::::::::::: ;:;;::::;;;;::::::::::::::::;: :;;:::::::::::::;;;;:;;;;;;;;,’………. ………………………………’…….’…….. :;;;:::::::::cc::;::::::::::: ::cc::::cc:ccc:::::::::: ::::::::::::::;::::::::;: :::::::;:;;::::;;; ;;;;:::::::::::::::::::cc:::cccc:c::c:, ,,……………..

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Una dolce melodia

Colonna sonora:

Nel 2021 il direttore creativo di H&M incaricò il misterioso e leggendario musicista Kenjai Hi Soo di comporre le musiche da utilizzare come sottofondo nei loro negozi di abbigliamento sparsi in tutto il mondo. Nel giro di poche settimane il musicista consegnò le musiche che vennero considerate “eccezionali” da tutta la direzione, dagli assistenti, dai consulenti, da tutti i creativi e anche dal direttore in persona. A dire la verità nessuno le ascoltò integralmente. Il direttore chiese un parere al suo assistente, che le fece sentire a sua volta a un suo collaboratore che ne ascoltò pochi secondi e poi disse “tanto è tutta uguale”, e una volta che il direttore diede parere positivo anche tutti gli altri si allinearono e dissero “fantastiche, eccezionali, perfette!” pur non avendole sentite. Dunque si decise di sperimentarle subito in uno dei negozi principali della catena.

Come test venne scelto un venerdì prima delle feste, uno dei giorni con maggiore afflusso di clienti, soprattutto giovani. Le persone entravano nel negozio e si lasciavano ammaliare dalla melodia ambient che li accoglieva e abbracciava accompagnandoli dolcemente tra gli scaffali pieni di vestiti. Dopo qualche minuto dall’apertura, una ragazza che scherzava con un’amica mentre si provava un cappello, di colpo cambiò espressione, prese una sciarpa, se la legò al collo, andò nel camerino e si impiccò. L’amica trovò il corpo e si mise a urlare, per poi dare testate contro il muro fino a cadere a terra senza vita. Nello stesso momento una commessa che sorrideva a una cliente si tagliò la gola usando delle forbici e nel giro di pochi minuti quasi tutti i presenti nel negozio si uccisero in qualche modo. Chi non ci riuscì venne trovato a terra in preda a convulsioni.

Inizialmente si pensò che a indurre le persone a comportamenti violenti e irrazionali fosse stato un gas nell’aria, si ipotizzò un attentato da parte di qualche organizzazione eversiva, forse una forma di avvelenamento, ma tutte le ipotesi più banali vennero escluse e i sospetti si concentrarono sulle musiche di Kenjai Hi Soo. In un test condotto in laboratorio in condizioni di sicurezza i tecnici del reparto di ricerca di H&M scoprirono che le composizioni dell’artista risultavano particolarmente rilassanti nei primi minuti, ma dopo portavano a uno stato di angoscia letteralmente insostenibile. Solo alcune commesse che ascoltavano altra musica con gli auricolari (benché espressamente vietati dal regolamento interno del negozio) si erano salvate, e questa fu la conferma che la causa di quel disastro erano proprio le musiche di Kenjai Hi Soo. Le commesse sopravvissute vennero licenziate per aver violato il regolamento. Il bilancio fu di 57 vittime, molte delle quali minorenni, e 21 persone ricoverate in psichiatria in uno stato di confusione irreversibile.

In quella che a molti sembrava una situazione disastrosa per l’immagine del brand il direttore di H&M intravide invece un’opportunità. Durante una riunione in cui regnava la depressione e il disfattismo, di colpo alzò il dito indice e disse: “Fermi, non tutto è perduto”. Il business dell’eutanasia stava infatti iniziando a crescere, così il direttore ebbe l’intuizione geniale di trasformare l’H&M cittadino in una clinica dove andare a morire nel modo più cool. In realtà bastò cambiare solo l’insegna e la pubblicità, ma di poco: infatti scoprirono che molti dei messaggi restavano validi, così come le foto dei modelli inespressivi utilizzate per la collezione primavera estate. Chi aveva sempre amato fare shopping, poteva entrare nel suo negozio preferito e riempire le buste finché la musica non faceva effetto, in media al settimo/ottavo minuto. A quel punto sentiva l’impulso di morire, ed erano facilitati da una serie di oggetti che l’azienda lasciava appositamente a disposizione, tra questi grucce appuntite, tacchi a spillo affilatissimi, collane stritolatrici e siringhe glitterate con un’iniezione letale per i più sbrigativi. I corpi venivano immediatamente rimossi dalle commesse, fornite di tappi per le orecchie e cuffie antirumore, che si occupavano anche di pulire il pavimento, le pareti e gli specchi.

Intervistato sui presunti problemi etici di una simile iniziativa, il direttore ricordò che la sua azienda vendeva capi incredibilmente cool a prezzi molto bassi, e che aveva semplicemente ampliato l’offerta rendendo accessibile l’eutanasia anche a chi non poteva permettersela. “La nostra mission è soddisfare i desideri delle persone, di tutte le persone” spiegò. Poco dopo venne lanciata una collezione donna special limited edition dal nome “L’ultimo outfit”. In quei pochi minuti a disposizione prima di uccidersi le clienti potevano scegliere l’ultimo vestito da indossare. Per ovvi motivi il pagamento avveniva all’entrata, prima di scegliere i capi, che di fatto non venivano realmente acquistati. Una volta conclusa l’esperienza di shopping il vestito veniva consegnato alla famiglia della defunta per seppellirla o cremarla con quello indosso, come da suo ultimo desiderio. Inoltre chi voleva poteva lasciare il proprio corpo all’azienda: una volta imbalsamati, i clienti venivano vestiti con i capi scelti da loro stessi durante l’ultima seduta di shopping, per poi essere esposti nelle vetrine del negozio. Diventò una vera e propria moda e anche personaggi celebri, vip, attori, ma anche politici depressi o in età avanzata, iniziarono a scegliere H&M come luogo dove morire. “E’ un brand che ho sempre sottovalutato, ma è la cosa più cool del momento” dichiarò una celebre influencer poco prima di entrare nel negozio, essere accolta dalle dolci note di Kenjai Hi Soo e morire in diretta Instagram.

Il problema è che a seguirla c’erano 150mila persone, e quasi tutte morirono pochi minuti dopo, chi lanciandosi dalla finestra di casa, chi contro un treno, chi tagliandosi le vene o sparandosi un colpo di pistola in testa. H&M diffuse immediatamente un comunicato dove spiegava che si era trattato di un banale errore tecnico e da quel giorno vietò la registrazione e la diffusione delle musiche di Kenjai Hi Soo. Questo evento rese il negozio ancora più cool e altre catene di abbigliamento tentarono di seguire la tendenza e realizzare musiche in grado di portare l’esperienza dello shopping a un livello superiore, mistico e trascendentale. Kenjai Hi Soo venne contattato da molte delle più grandi aziende al mondo, ma si rifiutò di ripetere l’esperimento, ufficialmente per motivi etici, ma in molti sostenevano che in realtà si trattasse di motivi economici (una particolare clausola del contratto che lo legava ad H&M), oppure, dicevano i più maligni, perché non più in grado di ripetere una composizione eccezionale come quella. Questo non fece altro che far crescere ulteriormente l’attrazione dei clienti verso H&M, dato che i patetici tentativi delle aziende concorrenti di seguire il brand su quella strada, si rivelarono tutti fallimentari.

Intervistato molti anni dopo da un giornalista di una rivista musicale, Kenjai Hi Soo confessò di non aver mai riascoltato quelle composizioni senza titolo ma che non si era assolutamente pentito di averle realizzate. “Io sono solo un musicista, ho fatto il mio lavoro e sono stato regolarmente pagato, il resto non è una mia responsabilità” disse. Qualche giorno dopo venne trovato impiccato nella camera di un hotel: indossava degli shorts a pois e un top femminile a costine proveniente dalla collezione primavera-estate H&M. La foto del suo suicidio venne immediatamente utilizzata come campagna pubblicitaria dall’azienda, così come previsto da una clausola del contratto firmato da Kenjai Hi Soo, giusto in tempo per il lancio della nuova collezione.

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Telefonate e SMS con mio padre

8.30 del mattino

(sottovoce, con tono da maniaco) – Pronto?
– Eh, sono io.
(sempre sottovoce) Dimmi.
– Disturbo? Perché parli così?
– Sono… sono dentro un cespuglio…
– Perché?
– Niente, sono appostato. Aspetta che mi sposto. Un attimo.

(rumore di passi su erba, rami e foglie)

(poi, con tono leggermente più forte) – Ecco, dimmi.
– Ma cosa facevi dentro il cespuglio?
– Ah niente, stavo osservando un uccello raro.
– Un uccello raro?
– Sì, molto raro. Perché hai chiamato?
– Volevo sapere quanto paghi il GPL a litro, a casa.
– Mah, l’ultima volta c’era un’offerta a 0,80 a litro.
– Ok, scusa il disturbo.
– No niente, figurati.

(rumore di passi su erba, rami e foglie)

– …allora ci sentiamo. Ciao.
– Grazie. Ciao.

altro giorno, 13.00 circa

(tono alto, quasi urlato) – SI PRONTO!
– Sono io
– SI’ DIMMI
– Cos’è questo rumore? il mare?
– SONO SOPRA UNA CASCATA SU UNA SCOGLIERA
– Cioè??
– SONO SU UNA SCOGLIERA, C’E’ UNA CASCATA CHE FINISCE IN MARE! (rumore di vento)
– Bello?
– EH?
– E’ BELLO?
– MOLTISSIMO!

altro giorno, 16.00 circa

– Sì dimmi.
– Disturbo? Volevo chiederti una cosa.
– No dimmi.

(rumore di passi su erba, rami e foglie)

– Ma se ti disturbo…
– No no, sono a cercare orchidee rare.
– Eh?
– Abbiamo scoperto un posto dove è pieno di orchidee.
– Abbiamo chi?
– Con Franco

(nota: non so chi è Franco)

– Cosa volevi sapere?
– Ancora sul GPL. Penso che mi stiano fregando
– Mh.
– Non so, mi sembra di pagare troppo. Ho controllato su internet e i prezzi in effetti sono quelli. Ma sarà la dispersione della casa, non lo so. Volevo capire se…
– Aspetta, non prende bene qua.
– Ah no?
– Ci sono delle orchidee bellissime.

SMS, 19.00

ERO NELLA GALLERIA CHE  TI AVEVO DETTO. POSTO ASSURDO! ERA BUIO E PIENO DI PIPPISTRELLI! NON RIUSCIVO A USCIRE! ERA PIENO DI PIPPISTRELLI! ERANO ENORMI! FRANCO E’ VOLUTO TORNARE DENTRO PER FOTOGRAFARLI! CIAO!

altro giorno, 21.00

– Oh, ascolta.
– Ciao, dovevi dirmi qualcosa?
– Allora, hai dimenticato un libro qua.
– Un libro? Che libro?
– Aspetta, devo trovarlo, non mi ricordo l’autore…
– Ma è mio?
– Penso di sì, l’ho trovato e l’ho letto. E’ STUPENDO!
– Sì?
– E’ bellissimo, straordinario. Mi ha fatto riflettere! C’è tutto un ragionamento sul pianeta, anche sull’ambiente, è bellissimo.
– Ma che libro è?

(rumore di fogli e libri)

– Lo sto cercando. Pensa che avevo sonno e invece l’ho letto tutto d’un fiato!
– Sono curioso.
– Straordinario. Voglio cercare altri libri di questo autore.
– Ma chi è? Che libro è?
– L’ho trovato. Allora è…
– Sì?
– Aspetta.
– Ok
– E’ di Ballard.
– Ballard?!
– Sì, Ballard. Si chiama Il mondo sommerso. Bellissimo!
– Ah ma è famoso, è un autore famoso. Cioè è morto. Ma era considerato un grande scrittore.
– Ah sì? E’ bravissimo. C’è il mondo distrutto, insomma…
– Sì, è post-apocalittico diciamo.
– Come?
– Post-apocalittico. Cioè il mondo dopo… dopo la distruzione diciamo.
– Bellissimo romanzo.
– In casa ci sono altri libri suoi credo.
– Pensavo di comprarli.
– Sì ma qualcuno in casa c’è. Cercali.
– Allora li cerco. Ma dove?
– Nella libreria, tra i miei libri. Dovrebbe essere vicino a Philip Dick.
– Mh.
– Philip Dick, sempre fantascienza.
– Ho capito.
– Bene.
– Niente, volevo dirti che l’avevi dimenticato.
– Ma non l’ho dimenticato, è sempre stato lì nella libreria. Ce ne sono anche altri.
– Li leggerò.
– Ok.

SMS, 7.00

VOLEVO SAPERE SE POSSO DARE IL TUO NUMERO A UNA PERSONA CON CUI HO PARLATO

Dipende, chi è? Cosa vuole? Lavoro?

E’ ESPERTO DI LUPI.

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La tigre

Superato il cavalcavia del porto industriale ci si trovava improvvisamente in una distesa infinita di campi, stagni e stradine sterrate. Non c’era un allontanamento progressivo: era come uscire dalle mura di una città medievale e trovarsi subito fuori dalla civiltà, nell’aperta campagna, lontani da tutto, in una grande piattaforma grigia attraversata da canali di scolo e tralicci dell’alta tensione.

La Uno grigia di Antonio procedeva a 130 km/h, una velocità che si poteva definire piuttosto sostenuta, soprattutto considerate le condizioni dell’auto. Gerardo era seduto al posto del passeggero e con l’aria seria osservava dal finestrino la sua porzione di territorio. Campi incolti, più che altro, interrotti da qualche piccolo stagno. Non c’era nient’altro, a parte i pali della luce e qualche rudere diroccato. Tutto il resto era grande vuoto e luce grigia.

“Qui, a destra” disse piano Gerardo.

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Gatto Silvestro, la morfina e le melanzane fritte

Prima di partire vado a trovare mia nonna. La chiamo e le dico “Se arrivo tra 5 minuti sei in casa?” e lei, secca e sbrigativa, con voce cupa, mi risponde “Sì… come vuoi”. Forse è offesa con me? Forse non mi sono fatto vedere abbastanza mentre ero qui e questa visita al volo poco prima di partire puzza di senso di colpa? Appena entro in casa però capisco che l’odore è un altro. E’ odore di fritto. Nonna sta friggendo, ed ecco perché era così trafelata al telefono. Ha il grembiule. Andiamo subito in cucina e vedo la padella sul fuoco con l’olio bollente, e vicino decine di melanzane, patate, pomodori, fettine di carne e di pane pronte a essere impastellate e fritte. Sono predisposte in fila, a a gruppi di tre, capienza massima della padella, pronte a essere giustiziate con l’olio bollente. “Ogni tanto il fritto ci vuole” mi dice. Penso che abbia invitato qualcuno, forse una vicina. Non me, perché non mi aspettava, ha saputo del mio arrivo poco fa al telefono e  non può aver allestito tutto questo in meno di cinque minuti. Dev’essere qualcun altro. Ma poi noto che la tavola è apparecchiata per una sola persona. “Sono sveglia dalle quattro, sono andata a dormire a mezzanotte perché non avevo sonno, poi mi sono svegliata tre volte. Alle due e mezza ho preso la pastiglia e sono riuscita a dormire un po’”. Tra una frase e l’altra continua a friggere. Quando immerge un gruppo di melanzane lo sfrigolio si fa così forte da sovrastare le nostre voci. “Io prendo quella da 75, non di più” urla. “Franco invece prende quella da 100. Ma lui prende anche la morfina e una volta al mese va in ospedale a farsi fare una puntura di ***”. Da come ne parla capisco che ha la massima stima per Franco, perché è uno che resiste alla sofferenza. Come lei, dà per scontato che la vita sia fatta di dolori insopportabili, insonnia e brevi pause di benessere chimico dove ad esempio si può friggere. Come se leggesse i miei pensieri dice “Cosa devo fare, bollirle?” agitando una fettona di melanzana viola impastellata che poi lancia con rabbia nell’olio bollente. “Sì sì, lui prende oppiacei e antidolorifici molto forti, ma fa tutto! Ha ricostruito il motore della Vespa, ha rifatto il pavimento di casa sua, ha messo il parquet. Lui prende la pasticca e fa tutto, non dorme mai, non si ferma mai. A parte qualche volta che ha dolori troppo forti e passa la giornata a letto, al buio, a soffrire. Ma non si lamenta mai… No no. Lui non si lamenta, non come certi che si lamentano di tutto”. A questa frase io ovviamente mi sento chiamato in causa, come sempre quando si parla di lamentarsi, ma forse non si riferisce a me. “Guarda, ho comprato tre fichi” mi dice poi. “Sono i primi dell’anno, sono buonissimi. Le ciliegie le hai viste? Hai visto il colore? Assaggiane una. Io ormai non vedo più da un occhio e vedo poco anche dall’altro. Ora devo fare la visita per capire se riescono a salvarlo. L’anno scorso mi hanno fatto le iniezioni transvitreali. Prima leggevo molto, ora non ci riesco. Ma al dottore gli ho detto: a me basta che mi salvi un occhio, me ne basta uno. Comunque io non mi lamento”, e una fetta di pomodoro cuore di bue, grande quanto una bistecca, viene fatta annegare nell’olio bollente. E’ sincera quando dice che le basta un occhio, anzi, credo che le andrebbe bene perderli anche entrambi ma riuscire ancora a sentire i suoni e gli odori. Sono convinto che anche se perdesse un braccio, o una gamba, o tutte e due, non si lamenterebbe. “La vita è così” aggiunge tirando fuori il pomodoro ora diventato una crosta rotonda gialla e croccante, e non si capisce se si riferisce all’occhio, alle iniezioni transvitreaeli o al pomodoro fritto. Tutto è diventato allusivo.

***

Più tardi, sulla nave. Siccome sono arrivato al porto tre ore prima della partenza, appena possibile decido di imbarcarmi e trovare un posto dove stare nelle successive ore fino all’arrivo. C’è un enorme cartello con la scritta “IMBARCHI”, lo seguo e mi ritrovo ai controlli di sicurezza, identici a quelli degli aeroporti. Per me è una novità, un tempo si saliva senza problemi. Ora no. C’è anche lo pseudo-sbirro che si comporta da super-sbirro, con tono secco e antipatico che mi dice di far passare i bagagli dentro le macchine dei raggi X (per curiosità: ho controllato e su Alibaba una di quelle macchine costa circa 10mila dollari, nel caso qualcuno la volesse mettere all’ingresso di casa). Senza volerlo passo con il telefono in tasca, lo pseudo-sbirro è seccato ma non perde la calma, mi fa tornare indietro e ripetere il passaggio senza telefono. Alla fine mi dice “può andare” e io penso che anche questa volta l’ho scampata, non sarò picchiato, umiliato e stuprato. Si aprono le porte scorrevoli e sono fuori, a qualche metro dalla banchina. La nave non è ancora arrivata, intanto però passano le decine di auto che si mettono in fila per essere imbarcate. Misteriosamente loro non vengono controllate, né le auto né le persone che le guidano; vengono chiesti solo i documenti. Per qualche motivo che mi sfugge, uno come me, con lo zaino e un sacchetto di plastica con i panini e l’acqua, viene attentamente controllato, ma un camper che può contenere un laboratorio di anfetamine no, passa semplicemente mostrando per mezzo secondo dal finestrino abbassato un passaporto che potrebbe anche essere una pagina del calendario di Frate Indovino piegata a metà.

***

Sulla nave salgo fra i primi e mi lancio (che è un modo per dire che mi perdo e vago a caso ma arrivo comunque) sul ponte, quello dove ci sono le sdraio, la piscina e il bar. Mi guardo intorno: ci sono solo io, qualche coppia di turisti stranieri giovani di quelli che appena arrivano in un posto si siedono per terra e sembrano così a loro agio come se avessero sempre vissuto lì, e qualche motociclista di mezza età, quelli che i giornali chiamano i centauri, di quelli che ogni tanto ne muore uno e si legge sul giornale che era una brava persona e poi organizzano un torneo di calcio dedicato a lui. Stare lì mi sembra fattibile, quindi mi rilasso, ma qualche minuto dopo dopo arriva la massa, cioè tutti quelli che dovevano parcheggiare o che non riuscivano a trovare il ponte. Italiani, molti, soprattutto milanesi, romani e napoletani. Stranieri, moltissimi. Dei primi mi colpisce questo gruppo: famiglia composta da quattro persone, padre, madre e i due figli credo 16enni, un maschio e una femmina. Tutti a loro modo interessanti, ma il vincitore è lui, il padre: arriva di corsa, si fionda su una sdraio quasi sfondandola e occupa le due sdraio ai lati con una borsa e un marsupio, anche se il resto della famiglia è due passi dietro di lui. Quindi capisco subito che la sua visione del mondo comprende l’ipotesi praticamente certa che qualcuno ti possa rubare il posto anche se ci sei davanti ormai nell’atto di sederti. E’ abituato così, e probabilmente ha ragione. Una volta sistemata la famiglia si sente al sicuro – le sdraio dovrebbero essere occupate in maniera stabile – quindi si alza e con uno scatto velocissimo si toglie la maglietta, come se non ne potesse più di indossarla, mostrando un corpo da 45enne che fa un lavoro fisico; muscoloso ma un po’ decadente, abbronzatissimo, con catenina d’oro ed enorme croce tra i pettorali. Mette le mani sui fianchi come Verdone quando faceva il personaggio del coatto e attraverso gli occhiali a specchio anni ’70 si guarda intorno per studiare la situazione. Parla da solo, la moglie e i figli lo evitano in tutti i modi. Quando lui dice qualcosa loro fanno finta di non sentire e guardano altrove. Nel frattempo arrivano molti altri turisti, compresi due inglesi marito e moglie che avranno il ruolo dei turisti stranieri che commentano fra loro divertiti il comportamento del caratteristico italiano da stereotipo. Soprattutto quando il tizio con la catenina tenta in tutti i modi di spostare la sdraio in direzione del sole – immagino per una più corretta abbronzatura – con sforzi e bestemmie e sudore, per poi scoprire – cosa che gli altri avevano capito tutti subito – che le sdraio del ponte sono fissate con una corda, dunque non possono essere spostate. Sorriso sotto i baffi degli inglesi, figli e moglie che ignorano tutto e guardano dall’altra parte, lui che infine, esausto, si mette sulla sdraio, si volta verso di me e mi dice “Hanno messo la cordicella”, come se l’avessero fatto apposta per lui, per dispetto. Quando dagli altoparlanti si sentono i messaggi di sicurezza che parlano dell’eventualità di un incidente in mare il tizio mi guarda in cerca di un pubblico, poi fa uno scatto verso una sbarra di ferro, e con una mano tocca quella e in contemporanea con l’altra mano si tocca le palle e dice “Tiè!”. Io annuisco sorridente, dato che ha fatto una notevole combo – palle e sbarra di ferro – e penso che la protezione copra anche me, dunque mi sento al sicuro.

***

Una volta che la nave parte, vado dentro perché fuori fa troppo caldo. Dentro ovviamente fa troppo freddo. E questa è una caratteristica dei traghetti diurni estivi: non c’è un posto dove si sta bene, non esiste, ovunque è disagio e scomodità, e questa ovviamente è una metafora della vita. Ai tavoli del bar prevalgono i turisti nordici, tutti alti e grossi con fisici da nuotatori, di solito senza peli, molto belli, hanno sempre tra le braccia bambini recentemente venuti al mondo, e siccome loro sono enormi questi bambini sembrano ancora più minuscoli e leggeri, e loro sono molto fighi mentre girano per la nave con i figli, mentre le mogli hanno il ruolo della giovane mamma bellissima che sta seduta in qualche posizione elegante e confortevole – non stravaccata, non rigida, ma totalmente a suo agio – con un sorriso perenne di benessere e tranquillità che si accende quando da lontano vede il compagno con il bambino/bambina che fanno ciao ciao con la mano, sane, con la pelle perfetta, prive di problemi di postura, belle ossa, denti puliti, capelli perfetti. E’ pieno di gente così. Mi fanno sentire fisicamente inadeguato e inizio a fare confronti su singole parti del corpo, almeno su quelle scoperte, e calcolo a occhio che un mio polpaccio è grosso quando un loro avambraccio. Dopo un po’ inizio a essere invidioso anche dei loro organi interni, senza dubbio meglio dei miei. Probabilmente sono anche più giovani di me ma sembrano inseriti nelle cose del mondo da decenni, come se ogni gesto che compiono l’avessero già fatto migliaia di volte e ormai non è neanche più questione di esecuzione ma solo di stile. Ma la cosa che invidio di più sono le scarpe. Mi piacciono sempre le scarpe degli altri. In particolare dei nordici.

Per fortuna però c’è anche l’equipaggio, ovviamente napoletani, ovviamente appena usciti da Freaks di Tod Browning, almeno rispetto ai turisti nordici statuari. Tutti troppo bassi troppo magri troppo brutti troppo alti troppo calvi troppo strani, comunque mai normali. Molti grassoni, uno in particolare è meraviglioso, ha la forma di un uovo e i colleghi quando passano lo salutano toccandogli la pancia. Immagino sia una cosa scherzosa tra colleghi, tipo che hanno deciso che la sua pancia porta fortuna. Lui comunque non sembra infastidito, anzi sembra indifferente a tutto. Hanno tutti facce da teatro, da poveri, che è l’unica cosa che li accomuna. Per il resto nell’equipaggio regna una diversità che non c’è fra i turisti nordici, che invece si assomigliano tutti, tutti schifosamente fighi e simpatici, ti sorridono se incroci il loro sguardo perché pensano che tu stia guardando i loro figli (ed è così, ma distogli immediatamente lo sguardo e fingi di guardare il mare fuori dal finestrino).  Mezz’ora dopo la partenza arrivano però i due eroi dell’equipaggio. Prima appare lui: il Tossico, faccia da Sert sgamatissima, tatuaggio di un pugnale sul collo, si presenta dicendo a tutti “buon pomeriggio” un po’ femminile, un po’ ambiguo, un po’ di THC prima di iniziare il turno, e dietro appare Gatto Silvestro. Il costume è molto grosso e fatica a muoversi. Inoltre, nonostante l’aria condizionata a -22, credo che dentro al costume faccia molto caldo. La strana coppia passerà tutte le, boh 6/7/8 ore di viaggio a girare per la nave presentandosi ai bambini dicendo “buon pomeriggio” e facendosi delle foto insieme a loro. Il tossico tratta Gatto Silvestro come se fosse davvero una creatura non umana ed è talmente convincente che anche io vedendolo non penso a un tizio infilato dentro a un costume da animali dei cartoni, ma a una strana e mostruosa creatura felina, un incrocio terribile frutto di un esperimento eticamente discutibile. Dettaglio che rende tutto inquietante, Tossico accarezza Gatto Silvestro sulla schiena in continuazione, anche quando non ci sono bambini. Anche quando nessuno li sta guardando.

***

Siccome, errore strategico, mi sono seduto sulle poltrone dell’area giochi per bambini, passo buona parte del viaggio a sentire i bambini giocare e gridare. Un bambino di, chissà, 6/7/8 anni, urla a un altro bambino più piccolo: “La gente ti odia! La gente ti odia… perché hai fatto sesso!”. Il piccolo resta interdetto e confuso e io più di lui. Ogni tanto passa Gatto Silvestro, e se ai primi passaggi i bambini erano timidi e anche un po’ spaventati, ora sono senza vergogna, vanno dietro il poveraccio, gli tirano su la coda, cercano il culo, gli danno calci, tutto in un’atmosfera scherzosa – “No bambini, non si danno calci ai gatti! Ai gatti non piace! Ecco vedete, ora Gatto Silvestro piange!” – ma si capisce che dentro quel costume c’è un napoletano sudato che sta bestemmiando santi, madonne, martiri e cose che quei bambini non hanno mai sentito – tranne forse quello che accusa gli altri di aver fatto sesso. Dopo migliaia di foto e migliaia di buon pomeriggio, quando siamo quasi arrivati in porto la coppia Tossico & Gatto Silvestro fa un ultimo giro per salutare i bambini e i genitori. Passano davanti a me e Tossico dice “Saluta il signore Gatto Silvestro, ciao ciao! Ciao ciao!”, e Gatto Silvestro mi saluta con la sua manona pelosa, io probabilmente faccio qualche espressione imbarazzata che non controllo e poco convinto saluto muovendo solo il polso, agitando la mano morta come se avessi il resto del corpo paralizzato.

La nave è ormai in porto, ma il problema è che i bambini non ne vogliono sapere di mollare Gatto Silvestro, nonostante Tossico precisi che “Per Gatto Silvestro ormai è tardi, i gatti devono dormire” tentando di allontanarsi. Ma i bambini continuano a seguirli, e capisco che loro devono semplicemente trovare un modo non violento di uscire dalla situazione, Silvestro deve infilarsi in qualche porta di quelle con la scritta “VIETATO L’ACCESSO”, e finalmente togliersi il costume che indossa da ore e prendere un ansiolitico. I bambini però hanno capito: i più piccoli forse vorrebbero vedere la tana di Gatto Silvestro, vedere cosa mangia, cose così; i più grandi invece mi sembrano sgamati e vorrebbero vedere il tizio che si nasconde sotto il costume e prenderlo per il culo, crudelissimi. Ci sono dunque dei momenti di tensione, con i genitori che intervengono e dicono “Bambini lasciamo andare Gatto Silvestro e il suo amico a riposare”, e alla fine i due riescono a dileguarsi e spariscono nei corridoi. Io guardo fuori: attraverso il finestrino sporco di salsedine il mare sembra olio bollente.

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Italia, anno 2021

In un momento di noia Elon Musk, con una spericolata manovra finanziaria, acquisisce l’Italia e la trasforma in Italy Boring Company. L’ormai obsoleto premier-intelligenza artificiale S.I.L.V.I.O., software di proprietà di Mediaset-Pornhub Spa, viene aggiornato alla versione 6.66. I lavori della TAV vengono accelerati trasformando la linea Torino-Lione nel primo HyperLoop europeo: i profughi, su pagamento di 1200 bitcoin a testa agli scafisti-hacker, possono fare dall’Italia alle altre nazioni in 35 secondi e l’intera Europa diventa una specie di flipper impazzito: tutte le città sono attraversate da tunnel dove famiglie di immigrati africani sfrecciano a 2000 km/h  da una parte all’altra senza sosta.

Musk, che nel frattempo in un momento di noia ha cambiato sesso, ritaglia per sé il ruolo di sottosegretaria all’Agricoltura e Imperatrice Spaziale (con delega alle infrastrutture), e sposta Palazzo Chigi in una stazione orbitale che compie 15,7 orbite al giorno. Toglie l’obbligo vaccinale e introduce l’LSD obbligatorio dai 3 anni in su; poi elimina l’ora legale, l’ora solare, infine l’orario in generale e il concetto di Tempo. Non contento, elimina anche il concetto di “concetto” e le virgolette.

Nel frattempo, la setta Cinque Stelle, i cui adepti vivono in clandestinità nelle fogne di Roma, utilizzando una stampante 3D, un tablet Huawei, la batteria di una macchina e un preparato omeopatico tenta di riportare in vita Roberto Casaleggio trasformandolo in una intelligenza artificiale che li guidi verso una rivoluzione. Il marchingegno però non funziona alla perfezione e i messaggi del guru sono indecifrabili, anche se il sacerdote Sfera Ebbasta li trasforma in pezzi trap da utilizzare durante le cerimonie della setta.

La coppia monarchica Salvini-Ferragni vive in esilio al centosettantottesimo piano di una villetta a schiera di Dubai, ormai dimenticati da tutti, salvo da un gruppetto di monarchici irriducibili che, aggrappandosi a droni fatti in casa, tentano quotidianamente di raggiungere la coppia sopra le nuvole. Ne muoiono 12,3 al giorno, e ogni mattina vengono recuperati dagli operai comunali di Dubai. Mummificati e ricoperti d’oro vengono esposti al Museo Galattico della città, il cui direttore è Banksy, che sostiene di portare avanti l’annientamento del capitalismo dall’interno (stipendio mensile: 100 milioni di bitcoin netti, circa 2 miliardi delle vecchie lire).

In un momento di noia Elon Musk diventa la prima presidente della Repubblica donna, l’account Twitter del Quirinale diventa la sede ufficiale, mentre il palazzo viene trasformato in Incubatore di Imprese. Si tratta di un rito introdotto da Musk durante il quale aspiranti imprenditori, grazie alla realtà virtuale, possono lanciare startup e viverle esclusivamente nella loro testa, avere successo, fare la scalata, drogarsi e pubblicare storie su Instagram con donne e yacht, per poi fallire e morire nella povertà assoluta, vivendo un vero e proprio incubo economico-esistenziale, senza però prendersi i rischi reali fuori dall’incubatore.

Netflix produce il nuovo film di Paolo Sorrentino: “D’Io”, dove il protagonista è lo stesso Sorrentino interpretato da Toni Servillo. La trama è quella di un film post-apocalittico in cui muore solo Sorrentino e l’umanità sopravvive. Durante la visione si scopre che Toni Servillo in realtà è sempre stato Paolo Sorrentino, e viceversa. Alla fine del film appare un ippopotamo – interpretato da Toni Servillo e dunque da Paolo Sorrentino, e viceversa – che caga diamanti dentro al Colosseo, con la colonna sonora di Arvo “Skrillex” Part, pseudonimo di Peppe Servillo, che in realtà è sempre Toni Servillo, e viceversa.

Una sera, in un momento di noia, il neo-ministro (ha ricambiato sesso) all’Istruzione e il Divertimento Elon Musk sta nuotando nel suo deposito di bitcoin grazie a un casco per la realtà virtuale mentre mangia una pizza, quando sente suonare il campanello. In pantofole, indossando un’antica vestaglia monarchica risalente al primo regno Salvini-Ferragni, va ad aprire la porta. Di fronte a lui appare (non con il teletrasporto, si era nascosto nel pianerottolo per fare un’entrata teatrale) Jeff Bezos, CEO di Amazon-Vatican-Melegatti.

“Elona” dice Bezos. “No, ora mi chiamo di nuovo Elon” risponde subito Musk. “Ah ok”. Dopo una breve pausa utile alla battuta successiva, Bezos si avvicina a Musk (fuori si sente un tuono, inizia a piovere) e sussurra: “C’è una persona che vuole parlare con te. E’ importante”. Sul pianerottolo appare Clemente Mastella. Non ha più un corpo di carne, ma una riproduzione sintetica sostenuta da una struttura robotica in argento e carbonio, senza gambe, cingolato. “אני כאן” dice Mastella. E gli occhi del ministro Musk diventano lucidi (aveva fumato basilico OMG! e da troppe ore indossava il casco per la realtà virtuale). “Sua Santità, si accomodi. Vuole un caaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaffè?”. “לא” dice Clemente Mastella, cingolando all’interno della stanza, seguito da un Bezos cupo e visibilmente preoccupato. “Elon”, dice avvicinandosi all’orecchio di Musk, “il momento è arrivato”.

(fine della prima puntata)

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I più grandi registi italiani viventi

Su Twitter ho scritto una cosa che è diventata virale in poche ore (1 retweet, 2 mi piace – mi hanno telefonato subito dalla sede di Twitter), quindi la ripropongo qua:

“Ferreri più grande regista italiano vivente, anche da morto”

Era per dire che ci sono registi italiani del passato che sono più vivi di quelli di oggi, che ridere. Quindi ho pensato subito “aspetta, quali?” e anche “ho un sacco di lavoro da fare… oppure potrei fare un post” dunque ho fatto una lista di registi morti che sono più vivi dei vivi.

non tutti i loro film sono “invecchiati bene” come si dice, ma alcuni sembrano tuttora correre su un altro binario rispetto a quello che il resto del cinema ha preso.

  • no registi che hanno fatto un solo film meritevole (non perché sia contro, è che la lista diventerebbe troppo lunga)
  • no solo registi “di genere” perché anche basta
  • no cinema d’avanguardia/sperimentale perché è proprio un altro gioco (ma un giorno magari si fa anche quella), ma il cinema che andava al cinema, insomma nelle sale, le cui idee però sono tuttora vive e originali rispetto al terribile e paludoso presente tutto-uguale.

io faccio i miei nomi, i primi due posti sono da classifica, gli altri a caso. quelli che MA COM’E’ POSSIBILE CHE NON CI SIANO!!! o me li sono dimenticati, o non avete capito che lista è, oppure non ho mai visto un loro film.

I più grandi registi italiani viventi

  • PETRI
  • FERRERI
  • GERMI
  • LEONE
  • TAVIANI*
  • BAVA**
  • FULCI
  • ROSI
  • PASOLINI***
  • SALCE
  • DE SETA

* uno è vivo, l’altro è appena morto, quindi vale

** mario

*** sì, prendetemi pure a schiaffi: non cambio idea

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Io so ciò che nessuno sa

L’altra notte mi è apparso Mario Monti. Mi ha detto: “Io so ciò che nessuno sa, e cioè che non hai mai finito un album degli Autechre”.

Era nudo.

Sul petto aveva tatuata la frase “Io ♥ riciclo”.

E sulla pancia la scritta “Istruzioni per costruire uno scaffale salvaspazio” con una freccia che puntava verso il pene, mah.

“Un momento!” ho detto a voce alta, da solo, nel bagno di un ospedale, tutto rosso, preso dallo sforzo. “Questo non è vero! Mario Monti non mi è apparso, sto inventando tutto!”

“È vero, però lo stai pensando” mi ha risposto l’altro me dentro lo specchio di fronte (sì, ero seduto sul water; cagavo. Ho messo la carta igienica sulla tavoletta, mi sono lavato le mani per 30 secondi e uscendo ho aperto la porta con il gomito. La notte ho pregato).

L’ospedale era così grande che ho attraversato decine di sale d’attesa tutte uguali; mi sono perso, varie volte. Tornavo indietro e le persone sedute cambiavano, forse perché era arrivato il loro turno, dunque non riuscivo a orientarmi, l’arredamento e la struttura delle stanze erano gli stessi, ma gli unici possibili punti di riferimento, cioè le persone, mutavano forma e colore, allora ho pensato di prendere come riferimento il bagno dove ero appena stato, ma ho scoperto che ce n’erano due identici in due sale d’attesa identiche, e in entrambe c’era la stessa signora con gli occhialoni e il cappotto rosso! La signora si dev’essere spostata, forse si è accorta di aver sbagliato ambulatorio, forse voleva complicarmi le cose.

***

A proposito dei sogni:

Mi capita a volte di svegliarmi con idee geniali in testa, convinto di aver fatto sogni superiori al normale materiale onirico grezzo di routine quasi sempre noioso. Sogni con personaggi, intrecci e atmosfere sublimi, che vorrei poi tradurre in racconti, e già mi immagino a spiegare a qualcuno che mi chieda ma come ti è venuta quell’idea, è davvero stupenda, eh guarda, se te lo dico non ci credi, no dai, dimmelo, e va bene: mi è venuta in sogno! Ehhhh la madonna, ma che mondo onirico affascinante, che meraviglia, e io che minimizzo, ma che vuoi che sia, sapessi, anzi i sogni migliori non li ricordo, ho sognato capolavori ma sono andati perduti, che peccato. Solo che la verità è un’altra. La verità però è che la notte soffro spesso di insonnia e dunque ascolto audio libri, ma spesso me ne dimentico, allora quando mi sveglio ho in mente queste storie scritte da Cechov, Gogol, gente così, e mi ci vuole qualche ora, a volte qualche giorno, per ricordarmi di averle sentite.

***

La maggior parte delle mie riflessioni filosofiche hanno come base l’esperienza sociale in pizzeria. Ad esempio: ho notato che quando si mangia la pizza in compagnia e si addenta la prima fetta tutti abbiamo la tendenza a dire o che è buona o che “non è male”, anche quando non è vero. Poi, finita la pizza, c’è sempre qualcuno che per primo dice “comunque questa pizza non era un granché” oppure che era scarsa, o che faceva proprio schifo, e gli altri – magari non tutti, ma buona parte – concordano, annuiscono (anche Mario Monti fa sempre così). Perché non lo diciamo subito? Un’ipotesi potrebbe essere che non abbiamo abbastanza informazioni: una fetta è solo una fetta, è troppo presto per dare un giudizio, e quindi la valutazione reale è quella finale, quando abbiamo mangiato tutta la pizza. Ma ragionando così dovremmo dire se è un vino è buono solo dopo averne bevuto una bottiglia intera (io faccio così, in effetti) o che un partito non era male dopo che ha completato due legislature. Oltretutto la prima fetta di pizza ci dà una soddisfazione immediata, perché avevamo fame, perché ha quel mix di sapori che riconduciamo all’esperienza pizza – cioè ad esperienze-pizza precedenti e piacevoli – e quindi non stiamo dicendo che quella pizza è buona, ma che mangiare la pizza è buono, anzi, stiamo dicendo in generale che mangiare è buono, perché biologicamente ci allontana dalla sofferenza e dalla morte. Ma la spiegazione non è nemmeno questa. Secondo me questo fenomeno si spiega così: anche se la prima fetta ci fa schifo, non lo diciamo subito per non prenderci la responsabilità di rovinare l’esperienza agli altri. Primo, perché agli altri potrebbe piacere. Secondo, perché magari sono gli altri ad aver scelto la pizzeria e dire che la pizza non è buona è come dire che è colpa loro; ma il discorso vale anche se la pizzeria l’abbiamo scelta noi: non vogliamo ammettere l’errore. Invece quando la pizza è finita e l’esperienza è conclusa, ci sentiamo di poterlo dire, ormai, cazzo te ne frega. Non abbiamo più la responsabilità di rovinare l’esperienza durante, ma dopo. E qui è facile l’obiezione: ma anche dirlo dopo vuol dire rovinare l’esperienza, ma non è vero, perché ormai è passata e sappiamo che presto ce ne sarà un’altra, dato che prendiamo la pizza spesso, perché siamo italiani e abbiamo i baffi e le tasche piene di camorra.

***

Non mi sento quasi mai “italiano”, a parte quando sono in piedi davanti a una pentola di acqua bollente con un mazzo di spaghetti in mano e con sguardo matematico chiedo a qualcuno “quanta fame hai?”.

E anche quando mi lamento dell’aria condizionata e della gente che non sa fare la fila, ma intanto pure io provo a saltarla, perché “se semo stufati di esse boni e generosi”.

 

 

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Recenti acquisizioni del M.A.I.

A breve le relative analisi.

 

 

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Proposta di rivoluzione materica

Le discese ardite e le risalite, cari compagni e compagne, ma pur sempre da compiere in forma umana. Molti di noi hanno maturato una presa di coscienza che ormai non ha più motivo d’essere tenuta tra bisbigli e messaggi telepatici, ma va condivisa con il resto dell’assemblea: il problema è la carne umana. Noi vogliamo andare oltre, cari compagni e care compagne, ma non in una infantile e già superata idea transumanista, ma in qualcosa di più, o di meno, o di uguale: in una vera rivoluzione spirituale, interiore, ma anche fisico-materica. Noi non vogliamo più essere noi. Noi siamo per lo stato gassoso. Non vogliamo più essere forme di carne, ma diventare gas. Vogliamo abbattere la coesione tra forze interatomiche e intermolecolari. Vogliamo essere volatili. Noi, intesi come corpo, movimento e materia, ci facciamo schifo: ci guardiamo allo specchio e proviamo repulsione, consci che anche agli occhi degli altri – altri specchi – provochiamo reazioni simili se non identiche. E dunque basta: vogliamo passare ad altri stati della materia, abbandonare questa inutile massa di carne e sangue che abitiamo, verso l’azzurro del cielo.

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Non c’è tragedia peggiore di non trovare lavoro, a parte trovarlo

Nel frattempo si fanno i colloqui. Nuovo audiovisivo approvato dal Comitato Disperazione.

https://youtu.be/3G5wPXQwF88

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Horror Evaqu

Notevole installazione involontaria che gioca, come da sempre fa l’arte, sul concetto di pieno e di vuoto. Già si parla, nei corridoi del M.A.I., di corrente del riempitismo. Natura abhorret a vacuo, diceva quello, ma osservando questo raccoglitore di medicinali scaduti ci viene in mente prima di tutto la famosa storia zen dell’allievo che va a trovare il maestro. La conosciamo tutti, ma la ricordiamo comunque: l’allievo va a trovare il maestro zen, il maestro gli offre del tè e lo versa nella tazza fino a farla traboccare, provocando lo sconcerto dell’ingenuo allievo, per poi concludere (più o meno; andiamo a memoria): ecco, tu sei come questa tazza, e ho detto tutto! Ma prima di addentrarci nell’analisi dell’opera osserviamola e descriviamola: il contenitore è pieno al suo interno, ma questi apparenti limiti fisici non hanno impedito agli anonimi artisti – presumiamo si tratti di opera collettiva – di riempire il contenitore al di fuori. Dunque contenuto e contenitore non esistono più, è come voler ostinatamente colorare “fuori dai contorni”, contrariamente a quanto c’è sempre stato insegnato. Il risultato è una riflessione provocatoria nei confronti dell’Autorità, ma anche di quei preconcetti che portiamo dentro di noi, dell’Autorità che vive e vigila dentro ciascuno di noi. Un primo cartello sul muro avvertiva “contenitore pieno, non lasciare più sacchetti!”, ma non è servito a niente: enigmatici, provocatori e silenziosi proprio come i maestri zen, gli anonimi riempitori (o riempitisti, in letteratura non è ancora chiaro come si debbano appellare), probabilmente approfittando dell’oscurità notturna, hanno continuato a portare medicinali scaduti in questo totem farmaceutico. Qui, qualche giorno dopo, è stato appeso il secondo cartello, stavolta più vicino agli occhi di chi si avvicina all’installazione, con la scritta di colore rosso maestrina/rabbia/allarme: “BASTA, contenitore PIENO”. Inutile dire che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e involontaria, dunque al secondo avvertimento è seguita un’ulteriore aggiunta di farmaci scaduti, e pare che il fenomeno sia tuttora in corso. Perché non c’è limite, non c’è confine, sky is the limit, ma nemmeno: anche lo spazio profondo potrebbe essere riempito di medicinali scaduti. Una volta che l’Autorità stabilisce un limite – le dimensioni del raccoglitore – l’Artista è obbligato a superarlo, possibilmente in maniera esponenziale, aumentando il volume di questo blob di tachipirine e antibiotici senza fine, inglobando financo il mondo intero. In questo senso possiamo dire che “la via è vuota: nonostante l’uso, non si riempie mai”, ma anche,  con un’inevitabile calembour, che “la vita è vuota: nonostante l’uso, non si riempie mai”. Ecco perché non c’è una cura per la malattia: perché la prima è finita, limitata, mentre la seconda è infinita e in espansione. I riempitisti ci ricordano questo.

Contenitore pieno, installazione, 2017, vista a Forcoli (PI)

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La fotografia

(recuperando bozze)

Il sole era alto, era quasi ora di pranzo, ma lui non avrebbe mangiato prima del pomeriggio, quando sarebbe tornato all’ovile. Si era dimenticato di portarsi da mangiare e, anche se ora aveva fame, ormai non poteva fare altro che aspettare. Le pecore brucavano l’erba intorno a lui e per un attimo immaginò di fare la stessa cosa. Ma odiava mangiare l’insalata, figurarsi l’erba. Per fortuna aveva dell’acqua, almeno quella. Il vecchio di certo non sarebbe passato a controllare come stava. Si faceva vedere raramente. Nell’ultimo mese però era passato diverse volte, forse perché gli doveva due paghe arretrate e voleva controllare che lui per vendetta non rubasse qualcosa. Ma c’era poco da rubare, solo le pecore. Nella catapecchia dove dormiva, non lontano dal campo dove pascolava le pecore, c’erano soltanto una branda con un materasso sottile sottile, delle bottiglie d’acqua, un pentolino, qualche attrezzo da cucina, un fornello a gas e una torcia per la notte. Ci fosse stato altro, allora sì che l’avrebbe rubato.

L’ultima volta, due giorni prima, il vecchio era venuto che era quasi buio. Aveva visto i fari della macchina da lontano, poi l’aveva visto scendere da solo con una borsa in mano. Era molto vecchio, più vecchio di suo zio, forse aveva settant’anni. Avrebbe potuto colpirlo, rubargli i soldi, rubargli la macchina. Ma il vecchio aveva sempre un fucile nascosto sotto il sedile. Lo sapeva perché gliel’aveva fatto vedere lui. “Non si sa mai cosa può capitare” gli aveva detto ridendo mentre guidava, la prima volta che l’aveva portato in campagna. Lui aveva capito. Era un avvertimento. Lui aveva solo un coltello, ma era più giovane e forte di lui.

“Ti ho portato un cambio di vestiti” aveva detto il vecchio porgendogli la borsa. “Qui tutto bene?”
Si era guardato intorno: a parte l’ovile, non c’era nulla per chilometri, non sapeva nemmeno dov’era. Una volta si era fermato un furgoncino di turisti che gli avevano chiesto delle indicazioni per raggiungere il paese vicino, ma lui non gliele aveva sapute dare. Quelli erano rimasti sorpresi, gli avevano detto che erano certi che il paese fosse molto vicino, gli avevano anche mostrato una cartina. “Ci sono segnate tante strade ma non capiamo in quale siamo” avevano detto. Lui aveva guardato la cartina, ma non aveva riconosciuto nessuna strada. Aveva ripetuto “Non so” ed era tornato dentro, all’ombra.

“E manco mi dici grazie?” aveva detto il vecchio mentre lui prendeva la borsa. “C’è anche pane, le sigarette e un po’ di peperoni che ha fatto mia moglie…”
“E i soldi?” gli aveva chiesto lui.
“Ohi, ancora! Ti ho detto di aspettare qualche giorno, tu intanto lavora, poi i soldi arrivano. Che fretta hai? Dov’è che vuoi andare?”
Voleva andare al paese, qualche volta. Diciamo almeno due volte al mese. Voleva lavarsi come si deve, entrare in un bar e bere birra, giocare alle macchinette, fare un giro, magari telefonare a suo cugino. Aveva finito il credito sul cellulare da qualche giorno, aveva chiesto al vecchio di comprargli una ricarica ma quello se ne dimenticava sempre. “Oh, hai ragione” gli aveva detto. “Ascolta, la ricarica te la offro io, te la compro domani. Anzi no, domani non posso che devo andare a fare una cosa… Comunque te la compro, tu stattene buono.”

A conti fatti, gli doveva mille e trecento euro. E ogni giorno rimandava. Si sentiva in trappola, come abbandonato in quel posto di merda dove non vedeva mai nessuno, solo pecore e cani. A volte fumava una sigaretta con qualche altro pastore, ma per la maggior parte del tempo era solo. Non poteva scappare, almeno non finché non riusciva a recuperare le paghe arretrate.

Il vecchio era andato via e quella notte, dopo aver mangiato pane e peperoni e fumato un paio di sigarette, aveva dormito fino all’alba, quando si doveva alzare per fare uscire le pecore. Il lavoro non era difficile, solo molto noioso. Il vecchio gli aveva dato una radiolina da portarsi in giro per non annoiarsi, ma si era rotta subito. Aveva provato a cambiare le batterie mettendo quelle della torcia, ma non funzionava lo stesso, era proprio rotta. Passava anche due o tre giorni senza vedere anima viva e senza parlare mai. Ogni tanto parlava da solo, oppure insultava le pecore e i cani, che a volte picchiava se lo facevano innervosire. Per il resto erano bravi cani. Piccoli, bianchi, abbaiavano tanto ma non erano cattivi. Certo, anche loro sapevano morsicare.

Una notte si era sentito male, forse per qualcosa che aveva mangiato. Secondo lui era l’acqua che dopo un po’ diventava cattiva. Quando apriva le bottiglie di plastica sentiva puzza di marcio, e una notte gli era venuto un forte mal di pancia. Era corso fuori, dietro la capanna, dove si era svuotato completamente. O almeno così pensava. Ma era corso fuori altre quattro volte. Sudava freddo, stava malissimo, pensò di morire lì da solo in mezzo al nulla. Nessuno se ne sarebbe accorto per molte ore, il vecchio l’avrebbe trovato morto e allora forse avrebbe chiamato i carabinieri. O forse l’avrebbe buttato nella fossa, come aveva fatto con una pecora e un cane.

“Secondo quelli io dovrei prendere, chiamare, un casino, la solita burocrazia di merda” gli aveva spiegato. “Io metto sempre tutto in questa fossa e chi s’è visto s’è visto, capito?”
Non sapeva cos’era la burocrazia, ma quella notte si era immaginato anche lui in quella fossa, a marcire sotto il sole del giorno dopo con formiche e mosche a mangiargli la lingua e gli occhi. Chissà se suo cugino l’avrebbe saputo.

Allora aveva preso il cellulare per chiamare il vecchio, voleva dirgli che stava male e che aveva bisogno di un dottore. Ma quello non aveva risposto. Alla fine anche quella notte era passata e il giorno dopo stava meglio. Non era morto. Ma si era sentito abbastanza solo da poter morire senza che nessuno lo sapesse, solo i cani e le mosche.

Si sdraiò all’ombra dell’ulivo, poggiando la schiena contro il tronco. Una leggera brezza muoveva i rami sopra di lui e nonostante l’ora si stava bene. Quello era il punto migliore per controllare il gregge, era all’ombra e da lì poteva vedere tutto il campo. Da autunno a primavera era un grande campo di carciofi, ma da maggio in poi le piante si seccavano e lui poteva portarci le pecore.
Aveva gli occhi socchiusi e si stava per addormentare, quando sentì i cani abbaiare. Non abbaiavano mai senza motivo, quindi alzò la testa per guardare.

Il campo era costeggiato da un canale di irrigazione e da una fitta recinzione di canne e rovi. Era impenetrabile, come un muro. Da fuori era impossibile vedere dentro e da dentro era impossibile vedere fuori. C’era solo un’entrata, di solito sbarrata dalla rete di un letto arrugginita, e qualche spiraglio nella vegetazione. I cani abbaiavano verso la strada, una delle tante stradine di campagna dove non passava mai nessuno, solo qualche macchina ogni tanto. Abbaiavano e avanzano, come se seguissero qualcosa che percorreva quella strada. Non era una macchina, andava troppo piano, forse era una bicicletta? Una volta, era mattina presto, aveva visto un vecchio col motorino fermarsi per tagliare delle canne.

Si alzò e si incamminò in quella direzione. Non richiamò i cani, li lasciò abbaiare, prima voleva vedere di cosa si trattava. Aveva quasi attraversato il campo quando vide i cani fermarsi. Qualsiasi cosa stessero seguendo, anche la cosa dall’altra parte delle canne si era fermata. Si avvicinò lentamente, senza fare rumore, e si nascose dietro le pareti del canale di irrigazione. Tra le canne riusciva a vedere la strada, ma non la cosa che la stava percorrendo. Però sentiva. Erano delle risate, voci di ragazzi e ragazze.

Non erano del posto, questo lo capì subito, forse erano dei turisti. Poco dopo li vide arrivare: andavano in bicicletta, di tanto in tanto si fermavano, ridevano e facevano dei suoni con la bocca per richiamare i cani. Si fermarono proprio di fronte a lui, ma non lo notarono perché era ben nascosto dalle canne e guardavano dall’altra parte, dove c’erano more e fichi d’India lungo tutta la strada.
“Dai Fede, fammi una foto con i fichi d’India!”
Tre ragazze e due ragazzi, avevano più o meno la sua età, venticinque anni o poco più. Uno dei ragazzi stava facendo un video con un cellulare, mentre una delle ragazze scattava fotografie con una grossa macchina fotografica nera. Indossavano pantaloncini molto corti, infradito e canottiere. Le ragazze erano molto belle e allegre, una di loro aveva un grosso cappello di paglia.
In quel momento prese la decisione.

Non sarebbe stato difficile: i ragazzi non sembravano dei duri, doveva solo prenderli di sorpresa. Avrebbe afferrato una delle ragazze, le avrebbe messo un braccio intorno al collo e con l’altro avrebbe puntato il coltello minacciando gli altri di ucciderla.
Avrebbe urlato: “Datemi tutto o la uccido!”.
E si sarebbe fatto dare tutto: cellulari, macchina fotografica, soldi. Poi li avrebbe fatti spostare tutti da una parte e col coltello avrebbe bucato le ruote delle biciclette. A quel punto sarebbe scappato via, non gliene fregava niente del gregge. Nessuno si sarebbe accorto di niente, là intorno non c’era anima viva. Si sarebbe potuto fare cinque, seicento euro o forse anche di più. Non poteva sapere quanti soldi avevano quei ragazzi nei portafogli, e non sapeva nemmeno quanto valeva la macchina fotografica. Ma sapeva che i soldi gli servivano. Con quei soldi sarebbe potuto andare in paese, da lì prendere il treno e raggiungere suo cugino nella città, comprarsi dei vestiti, andare a mangiare come si deve. Non ne poteva più della campagna e del vecchio che non lo pagava.
“Perché non raccogliamo le more?” disse uno dei ragazzi assaggiandone una. “Cazzo, sono buonissime. Raccogliamo le more!”
“E poi dove le mettiamo? Quelle macchiano, mica puoi metterle in tasca.”
“Le mettiamo nel cappello della Fede.”
“Non credo proprio, la prossima volta ci portiamo una busta.”
“Ma non ripasseremo mai più in questa strada!”
“Questo è vero…”
“Comunque non saranno le uniche more di tutta l’isola, no?”

Risalirono sulle bici. A quel punto capì che doveva fare in fretta. Anche senza correre sarebbe arrivato prima di loro all’entrata del campo, ma non doveva perdere tempo. Passò attraverso le pecore prendendole a calci per farle spostare velocemente. Tirò fuori il coltello dalla tasca dei pantaloni. L’aveva affilato da poco. Non avrebbe voluto ferire qualcuno, ma l’avrebbe fatto, se fosse stato necessario. Se tutto fosse andato bene non ce ne sarebbe stato bisogno. I ragazzi sarebbe andati via a piedi, la casa più vicina era a quindici minuti, e nel frattempo lui sarebbe scappato, anche se non sapeva bene dove. Ma non era importante: poteva nascondersi da qualche parte per la notte e poi trovare una strada che portasse al paese.

Si avvicinò alla parete di canne e rovi. Poteva sentirli, stavano arrivando. Ogni tanto si fermavano per scattare fotografie e si sentiva qualcuno dire: “Allora? E basta! Andiamo avanti!”.
Pedalavano lentamente e qualcuna delle ragazze restava sempre indietro. Per qualche metro lì segui camminando parallelo a loro, separati solo dalla vegetazione. Accelerò il passo per arrivare all’entrata prima di loro, ma la ragazza con il cappello di paglia si mise a correre sui pedali e lo superò, arrivando all’entrata del campo quando lui era ancora a qualche passo di distanza.
“Noooo!” la sentì urlare. “Ragazzi c’è un gregge di pecore qua, è un posto bellissimo! Venite a vedere!”

Si immobilizzò. Se doveva farlo, doveva farlo ora: poteva prendere la ragazza e minacciarla. Solo che così gli altri sarebbero potuti scappare via. Dovevano essere tutti insieme: o così o niente. Non sapeva cosa fare. Nel frattempo gli altri ragazzi raggiunsero la ragazza con il cappello e si fermarono davanti alla rete che sbarrava l’entrata del campo.
“Bellissimo, guarda quell’ulivo lì! Troppo figo, guarda quante pecorelle…”
“E’ un tipico paesaggio sardo.”
“Molto tipico!”
I cani abbaiavano, ma non facevano paura e i ragazzi li ignoravano. Lui era nascosto dietro un cespuglio, con il coltello in mano. Stava sudando ma non era agitato, non lo era mai.
“Ma se entriamo per fare qualche foto? Secondo me si può, che problema c’è?”
“E se il pastore si incazza?”
“Ma figurati, ci parliamo, chiediamo il permesso. Se non si può pazienza.”
I ragazzi decisero di entrare. Posarono le biciclette a terra, al lato della strada, e scavalcarono la rete arrugginita. A quel punto capì che doveva uscire dal cespuglio, ormai loro erano dentro. Non aveva ancora deciso cosa fare o cosa dire, ma non ebbe il tempo di pensare perché la ragazza con il cappello di paglia, vedendolo, parlò prima di lui. “Ciao!” disse. “Scusa se siamo entrati… Sono tue le pecore? Possiamo fare qualche foto? Ti prego dimmi di sì!”
Gli altri lo salutarono più timidamente mentre si guardavano intorno e cercavano di avvicinare i cani che nel frattempo si erano fatti più docili.

“Va bene” rispose. Il suo viso era inespressivo. Si spostò a un lato come per farli passare, in modo da stare alle loro spalle e poterli controllare. La ragazza gli fece un grande sorriso: “Grazie! No davvero, se disturbiamo le pecore ce ne andiamo” disse. “Diccelo se disturbiamo, vogliamo solo fare qualche foto. Questo posto è una figata.”
“Guarda quest’ulivo” disse uno dei ragazzi. “Cazzo, avrà un secolo, forse anche di più.”
Le ragazze erano tutte snelle e carine. I due ragazzi non erano grossi, uno aveva la barba e gli occhiali, l’altro i capelli lunghi e dei tatuaggi sulle braccia. Se avesse voluto avrebbe potuto prenderli alle spalle, accoltellarli e poi buttarli nella fossa dove il vecchio buttava tutto. Se però fosse passata qualche macchina avrebbe notato le biciclette lungo la strada. E poi le ragazze erano tre: e se fossero scappate in direzioni diverse? Sarebbe stato impossibile rincorrerle tutte.
“Beeeeeee!”
Uno dei ragazzi si mise a quattro zampe davanti a una delle pecore.
“Beeeeeee! Eddai rispondi!”
“E smettila di fare lo scemo, Mauri” disse una delle ragazze. “Così le spaventi e poi magari non fanno il latte. Queste le usate per fare il latte, vero?”
Gli avevano fatto una domanda, ma lui non rispose. Aveva rimesso il coltello in tasca e guardava per terra. Li sentì ridacchiare, forse lo prendevano in giro.
“Ma capisci l’italiano? O parli solo il sardo?” chiese una delle ragazze.
“Ma allora è vero che i sardi sono molto silenziosi…” disse un’altra.
“Non sono sardo” disse.
“E di dove sei?”
“Rumeno.”
“Ah” disse la ragazza con il cappello di paglia. Si guardò intorno come se pensasse a qualcosa da dire e poi gli chiese: “E ti piace questo posto? Ti piace lavorare qui?”
“Sì” rispose lui, perché era la risposta più semplice da dare.
“Diego, fammi una foto con l’ulivo” disse un’altra delle ragazze.
Lui si allontanò, andò in mezzo alle pecore, ne prese una e finse di controllarle una zampa, ma in realtà continuava a guardare i ragazzi. Avevano vestiti buoni, molto puliti, e ridevano a ogni frase. Erano sempre molto allegri, le ragazze sembravano molto felici. Tutte quelle risate lo mettevano a disagio. Notò che la ragazza con il cappello di paglia lo stava osservando e poco dopo si avvicinò da lui.
“Cosa facevi a quella pecora?” chiese.
“Controllavo la zampa” rispose.
“Perché? Cos’ha?”
“Sembrava…” fece un gesto con la mano perché non gli veniva la parola. “Ferita. Ma non è ferita.”
“Come ti chiami?”
La domanda lo prese alla sprovvista. Decise di non dire il suo vero nome.
“Stefan” rispose.
Era il nome di suo cugino.
“Bel nome” disse la ragazza. “Io mi chiamo Federica. Loro sono Stefi, Silvia, Diego e Maurizio”. Gli indicò i ragazzi che in lontananza scherzavano con i cani intorno all’ulivo.
“Siamo in un bed and breakfast qua vicino, siamo usciti per vedere la campagna. Così, per vedere la famosa campagna sarda! E’ molto bello qui. E poi non possiamo stare sempre in spiaggia.”
Non sapeva cos’era un bed and breakfast e non aveva capito nemmeno tutto quello che aveva detto la ragazza, quindi annuì distrattamente e riprese a guardare per terra.
“E’ da molto tempo che sei qui?” chiese lei.
“Da stamattina presto.”
Lei si mise a ridere. “No, intendevo qui nel nostro paese.”
“Un anno.”
“Però parli bene l’italiano. Bravo!”
“Così così” disse lui.
Lei si girò per scattare una foto a una pecora. Aveva un corpo molto bello, ma non gli era piaciuta la sua risata.
“Quante sono?” chiese la ragazza indicando le pecore.
“Centoventi” rispose lui.
“Uh, molte! Cioè, non lo so. Sono molte? Ma non sono tue, vero?”
“No.”
“E gli hai dato dei nomi?”
Non capì la domanda. “Cosa?”
“Alle pecore, hai dato dei nomi alle pecore?”
“No.”
“Fede! Fede!” Gli altri ragazzi la chiamavano. Lei tornò da loro, lui si avvicinò per sentire meglio cosa si dicevano, anche se non riusciva a capire tutto.
“Facciamoci una foto tutti insieme in mezzo alle pecore” disse il ragazzo con i capelli lunghi. “Dai cazzo, fa morire! Poi la mettiamo su Facebook e scriviamo ‘Saluti dalla Sardegna’.”
“Ah ah!”
Gli altri scoppiarono a ridere e dissero che era una bellissima idea.
“Stefan!” disse la ragazza con il cappello di paglia. “Ci puoi fare una foto con le pecore? Scusa eh, poi ti prometto che non ti rompiamo più e ce ne andiamo, giuro!”
“Va bene” disse.
Andarono in mezzo alle pecore, lei gli passò la macchina fotografica e gli spiegò come usarla. Non ne aveva mai usata una prima. Aveva fatto delle foto con il cellulare di suo cugino, qualche volta, ma questa era una vera macchina fotografica, nera, lucida, pesante, con un obiettivo bello grosso e un sacco di tasti.
“Scattane due o tre, poi vediamo come sono venute e nel caso ne facciamo un’altra, ok?” disse la ragazza.
“Va bene” disse lui.
I ragazzi si misero in posa tra le pecore. Non sapeva come tenere la macchina fotografica in mano. Chissà quanto vale, pensò. Guardò nel mirino e schiacciò il tasto come le aveva detto la ragazza.
“Tienilo premuto leggermente, quando senti il bip schiaccia forte!” disse la ragazza.
Le pecore però scappavano, perché i ragazzi non stavano fermi e muovendosi le spaventavano.
“Fermi” disse.
Quando le pecore si calmarono scattò due foto. La ragazza si avvicinò per guardarle e disse che andavano benissimo.
“Stefan, ora sei una fotografo.”
“Bella Stefan, il pastore fotografo!” disse uno dei ragazzi.
Lui restò inespressivo e disse solo “Va bene”.
“Aspetta, aspetta” disse il ragazzo con la barba. “Ora dobbiamo farne una con lui. Scusa è stato così gentile, facciamoci una foto tutti insieme con Stefan. La faccio io, dai.”
“C’è l’autoscatto” rispose la ragazza con il cappello di paglia.
“Dai, figata” disse un’altra delle ragazze.
“Va bene” disse anche questa volta.
Non sapeva cosa dire. Loro parlavano sempre per primi e lui non faceva in tempo a rispondere. E poi erano sempre sorridenti e sembrava che avessero sempre ragione.
Sistemarono la macchina fotografica sopra una pietra, si misero in posa e la ragazza con il cappello arrivò di corsa dicendo “Scatta tra dieci secondi!”.
Lei si mise al suo fianco, mettendo un braccio sopra alle sue spalle.
“Sorridi, Stefan.”
E lui sorrise. Non sorrideva da molto tempo: chissà come verrò nella foto, pensò.
“Fatta” disse la ragazza. Prese la macchina fotografica e tutti la circondarono per vedere com’era venuta la foto. Dissero che era venuta bene. Lui nel frattempo si era allontanato.
“Stefan! Non vuoi vedere la foto?”
“Va bene.”
La ragazza gli mostrò la fotografia nello schermo riparandola con una mano per coprire il riflesso della luce. Sembravano un gruppo di amici, erano tutti abbracciati e sorridenti, come se si conoscessero da molto.
“Beh, almeno non abbiamo le solite foto di spiagge e mare azzurro” disse uno dei ragazzi. “Di quelle ne abbiamo fatto tremila e sono tutte noiose, questa invece è bella.”
“Vere pecore sarde” disse una delle ragazze.
I ragazzi dissero che era ora di andare a mangiare.
Lo salutarono, ringraziandolo per la pazienza. Scavalcarono la rete arrugginita, salirono sulle bici e si allontanarono.
Lui restò per qualche secondo in piedi. Nel campo c’era di nuovo silenzio. Tornò sotto l’ulivo, si coricò per terra, poggiò la schiena e la testa al tronco. Tolse il coltello dalla tasca perché gli dava fastidio e lo poggiò sull’erba. Poi chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò.

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Uno studente fuorisede

Interessante opera segnalata ai curatori del MAI dall’amico GD, uomo di scienza ma anche attento osservatore delle più recenti avanguardie artistiche involontarie. In questo caso introduciamo per la prima volta il concetto di fuorisedismo, corrente artistica che appare sovente sui quotidiani a corredo di articoli sull’università, gli affitti, i giovani. Intanto, ecco l’opera, anonima e in bassa qualità come prevede il regolamento del MAI:

La scritta è l’originale scelta dal quotidiano che l’ha pubblicata ed è parte integrante dell’opera, dunque non è da considerarsi semplice didascalia. Segue l’accurata analisi socio-antropologica dell’amico GD, con una nota finale dei curatori del MAI.

Analisi di GD:

Avremmo potuto capire che si tratta di uno studente fuorisede anche senza il titolo (o, addirittura, senza il contesto dell’articolo): arredamento Ikea, lettino singolo che sbatte contro la porta, vasetto da 250g di nutella adibito a portapenne, stampante HP probabilmente in offerta a 49,99 da Mediaworld, cianfrusaglie sparse nelle mensole tranne una matrioska disposta a bella posa (probabilmente un regalo della mamma), stelle fosforescenti adesive di fianco al letto. uno studente che potrebbe benissimo avere 32 anni seduto al PC (non si capisce, ma quasi sicuramente un Acer, anche questo in offerta da Mediaworld).

Questa foto trasmette il più inquietante senso di miseria e disperazione. è come guardare una tomba in un cimitero di guerra: alzi lo sguardo e ce ne sono altre mille identiche, regolarmente disposte e a perdita d’occhio.

Estetica e composizione si richiamano al fuorisedismo, una corrente relativamente stabile sia dal punto di vista geografico sia storico – cambiano magari le forme dei mobili, ma non la sensazione che suscitano; inoltre molte case per fuorisede sono state ristrutturate e arredate per l’ultima volta negli anni ’70.
Altri temi cari al fuorisedismo: la droga, i cani, l’erasmus, il treno, il discount, Bologna, i soldi che ti mandano i tuoi mentre per mantenerti fai il cameriere e sei fuori corso da 2 anni.

Nota finale dei curatori del MAI

Risulta evidente (e altresì commovente) il tentativo di riprodurre la cameretta di casa, quella dove il soggetto ipotizziamo sia nato e vissuto fino a lasciare la propria “sede”. L’opera parla anche di questo, di crescita: il letto e la sedia appaiono perfino sproporzionati se si osservano le spalle grosse di questo bambino troppo cresciuto, e temiamo che la postura gli provocherà presto o tardi problemi alla schiena. Ma proprio questa postura sgraziata fa pensare al concetto di “fuorisede”… dov’è la sua sede? Il soggetto è stato spostato, forse perfino contro la sua volontà. E’ scomodo, di spalle, come a nascondersi. Non sappiamo dov’era, non sappiamo dov’è. Ormai non esiste più una sede adatta a lui. Ma è mai esistita? Non siamo forse tutti fuorisede nel momento in cui compiamo un passo e occupiamo il suolo davanti a noi fino a quel momento libero e condiviso da altre persone? Insomma: tante domande, tutti involontarie, come sempre nella grande arte proposta dal MAI. Anche se da curatori ignoravamo questa corrente artistica ammettiamo che il fuorisedismo è senza dubbio interessante e stimolante sia a livello antropologico (come segnala l’amico GD) sia a livello esistenziale, giacché pone interrogativi profondi che, per vivere una vita serena e tranquilla, sarebbe buona norma evitare; ma l’arte è anche questo: essere trafitti da domande che avremmo voluto non sentire.

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Scopare il vento

Secondo me una delle cose più belle che si possono vedere a occhi aperti è quando gli uccelli fanno il cosiddetto “spirito santo” cioè quella posizione tipica dei rapaci in cui restano quasi immobili nell’aria anche per diversi minuti. Trovo molto bello anche il nome che si è dato al comportamento in italiano, mentre ho scoperto che in sardo si dice “coddabentu”, che sarebbe “scopavento/fottivento”. Il riferimento è all’idea che in quel momento l’uccello (con l’ovvia ambiguità del termine) si starebbe “scopando il vento”, che forse è meno bello e un po’ volgare, ma in fondo altrettanto poetico. Che poi ci sono due modi di fare lo spirito santo, con vento e senza vento, come spiegato qui http://www.ebnitalia.it/QB/QB007/terminologia.htm Dunque è possibile scopare il vento anche senza vento, ma si fa più fatica.