Categorie
Post

E’ giunta mezzanotte

ma no, non sono nemmeno le undici. ma è il momento del Manifesto dell’atto creativo come atto di rivalsa. Overtura:

[musica]

1. E’ evidente che è ha senso realizzare solo opere radicali motivate da odio, vendetta e rancore. E’ necessario perciò abolire il pensiero e lasciarsi andare: abbandonarsi agli eventi, alle casualità, a se stessi. Nient’altro sarà interessante. Tutto ciò che non sarà abbandono e naufragio rappresenterà intrattenimento, ovvero partite ben giocate ma perse. E l’obiettivo non è giocare bene, ma battere l’avversario, cioè: l’altro, l’altra, la vita, se stessi, il mondo intero. Dunque: bandire l’attualità, dimenticarsi del tempo, interdire gli affetti semplici e ancor più quelli complessi, rincorrere i propri fantasmi, denudarli, inchiodarli, scuoiarli, bruciarli. Ogni opera dovrà simbolicamente sostituire un atto di violenza, poiché Dio ha creato l’universo e all’artista spetta distruggerlo. Compito dell’arte non è la corretta digestione né l’arricchimento spirituale. Compito dell’arte è il suo annientamento.

(Domenico Modugno, lettere private)

2. mia nonna mi ha raccontato che quando era piccola il venerdì che moriva gesù sua nonna (mia Xnonna) le diceva che ora che non c’era più gesù il diavolo prendeva il comando. questo fino alla risurrezione. quindi siccome per tre giorni in casa ci sarebbe stato il diavolo, la mattina, quando si alzavano, passavano un paio d’ore a sbattere le cose, le porte, i cassetti, gli armadi, questo per mandare via il diavolo, che a quanto pare è tipo che si spaventa facilmente. mi ha raccontato anche che i preti ora non riescono più a benedire le case di persona – perchè c’è troppa gente, e nessuno che parli di pianificazione delle nascite – quindi mandano la boccetta d’acqua santa e ognuno se la benedice da solo. le ho chiesto perchè il prete non benedisse direttamente l’acquedotto, così l’acqua benedetta uscirebbe dai rubinetti e avremmo risolto il problema. ma non è una buona idea per due motivi soprattutto: 1) ci si può lavare il culo con l’acqua benedetta, e non va bene, è spreco; 2) l’acqua arriverebbe anche ai non credenti, che oltre a non volerla perchè sono cagacazzo, non se la meritano neppure.

3. Si fa per dire. Letteralmente. Mi accorgo che metà è urgenza fisica, metà è per poi dire di averlo fatto. Un’altra metà (150%) è evitare il suicidio. Quando le due ragazze di O. mi hanno chiesto perché stavo per dire la verità, poi mi sono ricordato le volte che c’ho provato. Evitare.

4. con A. ragioniamo sul fatto che quello che facciamo lo facciamo anche per vendetta. vendetta nei confronti di chi ci stima ma non ci ama, di chi nemmeno ci stima, di tutti i vaffanculo ricevuti, i 4 di picche, i 64 di picche, le mail stronze, i colloqui di lavoro inutili, i figli di papà, i lavori di merda, i milanesi (tranne quelli che sganciano soldi, quelli sono bravi) ecc. ecc. l’arte come vendetta nei confronti della vita, ecc. ecc.

5. galleggiare dolcemente: a G. dormiamo in un b&b spettacolare. la proprietaria è una bellissima cicciona entusiasta. appena la vedo mi innamoro, la vorrei sposare, ma è già sposata, e comunque lei mi rifiuterebbe. una lacrima invisibile scende sulla mia guancia, si ferma nella barba, dove coltivo patate, pomodori e brutti pensieri. lei ha entusiasmo per ogni cosa, soprattutto per le cose brutte. il wifi non va, te lo dice con entusiasmo. non si trova parcheggio perchè c’è un funerale, lei è iper entusiasta: “c’è molta gente perchè è morto un giovane!” mi dice. veramente: da abbracciare.

6. fare una doccia in questo posto è un piacere. decido di non lavarmi mai più. è molto meglio di casa mia a C., e anche A. ne conviene. decidiamo di fare docce e cagate tattiche, solo in posti così accoglienti. A. resta così colpito dal posto che decide di registrarsi su trip advisor e recensirlo: ma non gli dà il massimo, perchè dice che se no sembra un voto finto, e poi a volte il wifi non andava. ha ragione, ma il senso di colpa peserà su di lui per sempre. forse la cicciona meritava il massimo. A. dice che il massimo è Casa, io gli faccio notare che casa mia a C. non si merita più di uno e mezzo, mentre casa dei miei… toh, forse 3.

7. ad un attimo di amore che mai più, ecc. ecc.

8. capre, capre, ancora capre. penso titoli idioti: capre diem. decido di comprare una capra e mettermela in giardino. sono animali splendidi e inizio ad amarli. poi però stronzate burocratiche, possibilità di vicini che rompono le palle – soprattutto una – quindi per ora rimando. ma il metodo è questo: avere 10 problemi, per risolverli aumentarne il numero, crearsene di nuovi, mischiare le soluzioni, stare a guardare. girare. non a caso si dice girare un film. si tratta appunto di girare, girare su stessi.

9. sulle sponde del lago l’attesa è lunghissima. ogni tanto mi accuccio nell’erba umida, come in stalker. l’erba umida è perfino più accogliente del b&b di G. dovrei recensire questa su trip advisor. A. si annoia, però ha internet e quindi resiste. poi sento che ha una certa fiducia in me, e comunque è sempre meglio di ammazzarsi. su questo punto – fondamentale – siamo d’accordo. io insisto su alberi e cortecce. parto con pipponi e spiegazioni, lui mi caga poco, non capisco se è stanchezza o se proprio non mi vuole ascoltare. spero nella seconda, perchè posso anche capire che non mi voglia seguire nei miei discorsi, ma per me è importante che mi segua fisicamente. se ho scelto lui, tra i vari motivi, c’è anche la sua resistenza fisica, mi attirava molto il fatto che facesse le maratone. i maratoneti sono una specie interessante di malati mentali. correre non è naturale, è naturale camminare. correre per un po’ può essere divertente, fino al trentesimo chilometro, quando, mi ha spiegato A., più o meno tutti i maratoneti entrano in crisi. ora, lì il corpo si dovrebbe fermare e godersi la stanchezza, invece loro vanno oltre per altri 12 km. sono questi 12 km che mi interessano ed è per questi 12 km che A. mi piace. il fatto stesso che provi queste sensazioni mette in secondo piano il prodotto finale. potremmo anche non girare, potremmo anche non aver registrato un singolo secondo.

10. nella nebbia, con il vento, con il sole. raramente ci fermiamo. è tutto fatto di benzina, penso che il petrolio, inquinamento a parte, è davvero meraviglioso. brutto quando si tira fuori, poi si trasforma in plastica meravigliosa, liscia e colorata, oppure film. faccio assaggiare la burrida, le ostriche e le otziadas ad A. ci tenevo, per me il cibo è condivisione. uno dei pochi momenti. gli faccio assaggiare anche il costamolino di argiolas, che raramente non piace. mangiamo assieme a S. e T., un americano che ha fatto anche l’attore porno. mi piace subito, andiamo d’accordo. dice eja, vaffanculo, porco dio, si ubriaca subito, mi tocca seguirlo nonostante il voto di castità. ma almeno una cosa che mi fa male devo farla, non posso rinunciare a tutto contemporaneamente. poi l’americano mi piace davvero. è come un bambino. insiste sul suo cazzo, forse vuole che gli si facciano delle domande, tipo se è grosso ecc., domande che evito accuratamente. mi chiede se voglio funghi, intendendo quelli allucinogeni. troppo tempo è passato, dico di no, anche perchè sarebbe più sensato chiedere ai funghi se vogliono me.

11. non è vero che siamo gli unici animali che vivono sapendo di morire: siamo gli unici convinti di essere gli unici in qualche cosa. il lombrico è oltre il sapere o non sapere una cosa. in bagno ho varie illuminazioni e giochi di parole puerili, tipo cubo del culo. a lei sarebbero piaciuti? pensare a lei in bagno mi sembra una giusta fine, o un giusto inizio.

12. bach-gammon: quando gioco da solo a backgammon e ascolto bach. le partite a backgammon con mia madre sono l’unica cosa che mi manca di casa, assieme all’acqua calda, i gatti, la libreria, i divani, il frigo pieno, il corriere simpatico della sda. è un gioco che purtroppo viene male da soli, non è come gli scacchi. oltretutto è molto meglio degli scacchi, solo che la gente non lo sa. negli scacchi vince la strategia, nel backgammon la strategia può andare a farsi fottere in un secondo perché è tutto imprevedibile e insensato, come nella vita. puoi farti i piani che vuoi, fare tutte le mosse giuste e anticipare tutte quelle dell’avversario, poi però i dadi e la geometria decidono che devi morire. negli scacchi hai l’illusione del controllo. se perdi, è perchè l’altro è stato più bravo, o perchè hai commesso un errore. per rendere il gioco più interessante dovrebbe esserci la possibilità che in un momento qualsiasi la scacchiera esploda. così sarebbe una riproduzione più fedele della realtà. ogni piano è il piano di un fallimento, tentato, rimandato, sfiorato, compiuto. in questi giorni non gioco a backgammon e mi dispiace.

13. è arrivato il quadro, ora non resta che appenderlo, ovvero appoggiarlo per terra per 4 anni rimandando di giorno in giorno l’acquisto di chiodi e martello. è molto bello, soldi ben spesi. è l’unica cosa che ho comprato per questa casa assieme alla spazzola per il cesso. per me è un’immagine fondamentale.

14. peperoni alla griglia: ho l’impressione che i gialli siano più buoni dei rossi, non so perchè. i verdi non li prendo nemmeno in considerazione.

15. cinema d’opposizione, di vendetta, di rivalsa. bisogna farlo contro qualcosa, non per qualcosa. contro le ex, contro i cinema d’essai, contro la vita, contro se stessi. l’energia dell’odio è infinitamente più produttiva dell’energia dell’amore. ovviamente ci sono le eccezioni, vedi schumann, che quando ha iniziato a chiavare ha sfornato centinaia di bei pezzi all’anno, ma lui era sofferenza e felicità allo stesso tempo, un professionista dello stare meglio stando male. non è cosa per me. io ho un campanello nella testa.

16. quindi partiamo, facciamo da berchidda verso giù, verso nuoro, centinaia di km di curve, nebbia, pioggia, musica insensatamente alta. ci fermiamo in un posto isolato, inizio a parlare con uno, lo intervisto, mezz’ora dopo siamo a casa sua a bere vino (10. 20), lui bacia la statua di san giuseppe e nella stanza a fianco si sente la madre ammalata che chiede chi c’è, la madre ha il fuoco di sant’antonio. immagino che questo tradimento sia motivo di discussione in famiglia, dove san giuseppe sembra al di sopra di tutto. lui dice che l’amore non gli interessa, le donne non servono a niente, ha 68 anni – anche se ne dimostra 48 – e vive da sempre con la madre. mi chiede il mio numero di telefono e mi dà il suo. gli chiedo di raccontarmi un sogno, ha sognato san giuseppe ma non si capisce bene cosa gli ha detto. giusto così.

17. poi ci spostiamo ancora, non so dove voglio andare, A. non fa domande (idolo), ma capisce che bisogna andare. per strada un vecchio che zoppica si ferma a parlare, gli si è fermata la macchina, lo accompagno nel suo paese, prima ci porta in un bar, poi a casa sua e ci offre formaggio, pane e salsiccia. vive solo, al posto del lampadario ha salami, anche lui non è interessato all’amore, dice che è stato fidanzato per 2 anni e poi basta. buio e odore di chiuso misto a salami. tutta una vita senza donne, che non servono a niente. alla fine ci mostra una pergamena del 1400 a cui tiene molto. ci racconta un po’ della sua vita e poi andiamo via. gli compro un casizolu. molto buono.

Categorie
Post

San Michele aveva un gallo

In questi giorni sono più o meno così:

Categorie
Post

Vatican Leaks

Mio caro Jorge,
da ieri a oggi non ho fatto altro che pensare a te. Quante Ave Maria ho dovuto recitare! Ma non basterebbero cento, mille o centomila Ave Maria per togliermi quel pensiero! Più dolci del vino sono le tue carezze, più inebrianti dei tuoi profumi. Tu stesso sei tutto un profumo; vedi, le ragazze si innamorano di te! Prendimi per mano e corriamo. Portami nella tua stanza, o mio re. Godiamo insieme, siamo felici. Il tuo nome è più dolce del vino!
Che dolore sapere che siamo così vicini eppure così lontani.
Tuo,
Joseph

Mi amor!
Non volevo scriverti, ma come posso ignorare questa tua lettera? Oggi non facevo altro che inciampare, sussultare, balbettare. Troppe emozioni, troppo sentimento; nel mio cuore non c’è mai abbastanza spazio. I tuoi occhi son come le vasche di Hesebon alla porta di Bathrabin, il tuo naso quasi una torre da Libano che guarda a Damasco. E che dire dei tuoi piedi? Oh, galeotta lavanda! Mio Joseph, dovrei dirti di essere forte e dimenticare, ma come posso dirti questo se io pure da ieri non faccio altro che pensare a te? Sono al buio e penso a te; chiudo gli occhi e penso a te.
con dolore e mucho amore,
Jorge

Mio Jorge,
come mi piace quando mi parli in quella tua lingua così maliziosa! El Corazón tu mi fai battere. Non avrei voluto dirtelo, ma ormai la penna è sul foglio e dunque lasciamoci andare: ieri notte, dopo il nostro incontro a Castel Gandolfo, ho sognato noi due insieme nell’orto dei Getsemani. Si correva spensierati, poi stremati ci buttavamo tra i fiori e abbracciati guardavamo le nuvole passare. Sciocche fantasie, lo so! Io prego perché questa notte sia più breve di quella di ieri, per quanto ogni nuova alba è un nuovo dolore finché io sono lontano da te.
Che sia breve questa notte,
Joseph

Categorie
Post

Nel frattempo a Castel Gandolfo…


Joseph prese la mano di Jorge. Jorge sentì come un sussulto al cuore; forse arrossì, ma cercò di non perdere il controllo. “Preghiamo insieme” disse malizioso Joseph. I due si inginocchiarono vicini. Erano così vicini che l’uno poteva sentire il respiro dell’altro come se fosse il proprio. Sull’inginocchiatoio la mano di Jorge andò lentamente a cercare quella di Joseph, che continuò a pregare a occhi chiusi, senza però ritrarla. Come se avesse avuto il permesso, Jorge a quel punto decise di osare: prese la mano di Joseph e la portò tra le sue gambe. Solo a quel punto Joseph smise di pregare, aprì gli occhi e disse: “Jorge, ho il cuore pieno di gioia”. Jorge sorrise, le labbra si avvicinarono e si unirono in un bacio appassionato e liberatorio. “Lo so cosa ti piace” sussurrò Joseph, come se ancora stesse pregando. Con movimenti lenti e maliziosi si liberò della sua scarpetta rossa e porse il piede a Jorge. “E’ passato così tanto dal 1962…” accennò Jorge e poi iniziò a baciare lentamente il piede di Joseph. “Il tempo dell’amore è eterno” disse Joseph chiudendo gli occhi e buttando la testa all’indietro.

Categorie
Post

La giornata di Papa Rocky VI

Rocky si alza alle cinque. Ma era già sveglio, lo capiamo dalla velocità con cui ferma la sveglia.

Poi un secondo dopo fissa le sue due tartarughe e gli dà da mangiare. Questa è una di quelle inquadrature che valgono film interi, praticamente perfetta. Si sveglia, fissa l’acquario, e lo vediamo di spalle. Non c’è bisogno di dire o suggerire altro.

Poi lancia delle cose dalla finestra. Non ho capito bene cosa, ci sono anche delle caramelle. Forse cibo per gli uccelli. Rocky un po’ come San Francesco, ma silenzioso. Con gli animali non ci parla, si limita a cibarli. Bravo.

Veloce bevuta di tazza di caffè, sicuramente lungo e senza zucchero.

Subito dopo il caffè fa qualche sollevamento alla sbarra. Chiunque di noi dopo aver bevuto il caffè e uno sforzo così si cagherebbe addosso e dovrebbe tornare dentro a cambiarsi. Ma non Rocky.

E poi si siede in cimitero. Basta così: la giornata è finita, si può tornare a dormire.

Categorie
Post

La depressione non è una malattia e questo non è un post

Neanche rompere il cazzo è una malattia, eppure se ci fosse una raccolta fondi per trovare una cura per i rompicazzo io ci butterei tutti i soldi. Da dove iniziare?

[premessa: questo post-sfogo l’ho scritto in uno dei periodi più felici e tranquilli della mia vita, molti mesi fa. perché lo pubblico ora? perché sì. comunque alla maggior parte delle persone risulterà noioso, quindi suggerisco alla maggior parte delle persone di evitare la lettura. per mantenere la freschezza iniziale, rileggendolo a distanza di mesi l’ho modificato pochissimo: ho solo corretto un paio di errori ed eliminato qualche paragrafo eccessivamente imbarazzante.]

Argomento che ho sempre evitato, in forma scritta e in qualsiasi altra forma, ma mi sono veramente rotto i coglioni di sentire questi scemi che pensano di mettere i puntini sulle i dove i puntini ci sono già e sono grandi quanto il sole.

Allora.

Ci sono quelli che la prendono da un punto di vista filosofico: cos’è davvero la malattia, chi decide chi è malato, cosa vuol dire essere malato. Una questione che potrebbe anche essere interessante, se solo non usassero quel tono da editor di wikipedia che ti ricorda che il delfino è un mammifero, non un pesce.

Eppure secondo me è abbastanza semplice. Io sono per il punto di vista del malato quando coincide con il punto di vista del medico.

Qualche esempio: la malattia intesa come patologia medica, ovvero quando tu scopri di averla solo perché ti viene diagnosticata. Alcuni complottisti non sarebbero d’accordo perché ci vedono un pericoloso ampliamento del campo del patologico con lo scopo di favorire quella che chiamano big pharma: più malati, più clienti. E certe pubblicità in tv, tipo quella che inizia con una voce che dice “la cellulite E’ UNA MALATTIA”, hanno chiaramente questo scopo e sembrerebbero dare ragione ai nostri cari amici pazzi.

L’altro punto di vista è la malattia come vissuto del malato: cioè la percezione, l’esperienza soggettiva di anomalia nel normale stato di salute. Facile, no? Sento di essere malato, ma ovviamente non è detto che lo sia realmente, anche se ne sono totalmente convinto. Poi se ho capito bene a quel punto il cervello può perfino convincere il corpo che è così, ma qui si va in un ambito scientifico che sfioro ma non tocco. Restiamo in superficie, guardiamo dall’alto. Se si va in profondità si perde in ampiezza.

La depressione, nell’immaginario collettivo (che se volete potete leggere anche come “nell’ignoranza della gente”) si colloca a metà tra questi due tipi di malattia: sì, effettivamente stanno male, ma sono davvero malati?

Quindi le domande sono ancora quelle: cos’è la malattia, quando sei davvero malato, chi decide cosa.

Quando sei malato? Cento anni fa forse avrebbero risposto “quando caghi nero” o “quando sputi sangue” o “quando il diavolo è dentro di te”. La zia di mio padre, una donna adorabile e diffidente che si curava il diabete con il dentifricio, avrebbe risposto “quando vai dal dottore”.

Ma c’è un modo ancora più semplice di rispondere, ed è semplicemente andare a controllare cosa ne pensa l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Potrete anche considerarli una specie di Spectre del mondo medico, se volete, e potete pensare che il loro scopo sia controllare le nascite e consigliarvi inutili esami rettoscopici con l’intento di installarvi microchip nel culo per poter controllare i vostri corpi e le vostre menti e fare delle statistiche delle vostre funzioni intestinali.

Oppure, potete ammettere che sanno qualcosa sulle malattie, forse perfino qualcosa più di voi.

E cosa dice l’Oms della depressione? Che è una malattia. Anzi che è una delle malattie più diffuse e che in futuro sarà una vera piaga sociale.

Ricapitolando: ha vari sintomi, chi ce l’ha si sente ammalato, il mondo scientifico la considera una malattia. Quindi diciamo che possiamo affermare con un accettabile grado di sicurezza che la depressione è una malattia.

Eppure è molto diffusa, soprattutto tra le menti semplici, ma anche fra certi medici, l’idea che la depressione non possa fregiarsi del titolo di “vera” malattia. Questo credo riguardi più in generale un certo modo di vedere i disturbi mentali.

Siccome di come funziona il cervello non sappiamo ancora tutto (ma molto sì) allora è un campo un po’ vago, perché a essere malato è lo stesso organo che ci fa capire di essere malati. Quindi è solo nella tua testa, ti dicono. Un po’ come se uno avesse il cancro al fegato e gli dicessero “non è una malattia, è solo nel tuo fegato”. Poi muore e i parenti dicono “ma è strano, non era malato”, che è quello che capita davvero con molti depressi.

Hanno sicuramente contribuito a questo atteggiamento generale anche la grande diffusione del termine “psicosomatico”, che è diventata la non-spiegazione per qualsiasi cosa, gli psichiatri pazzi che danno psicofarmaci ai bambini e l’aspetto di coolness di certi atteggiamenti maledetti legati alla malinconia (“non è depresso, è una posa”).

Possibili soluzioni, da prendere in considerazione solo se effettivamente c’è il problema: psicoterapia – pure per questa c’è diffidenza e ironia diffusa, ma esiste e ha un suo senso – oppure sbroccate mistico-religiose oppure, ancora, farmacoterapia.

Il mio voto va all’ultima, anche se ho sempre sognato una sbroccata mistico-religiosa.

Per gli adulti che stanno male per lunghi periodi, la chimica può essere un aiuto utile così come può esserlo un decongestionante per il raffreddore. Non vuol dire che non ti verrà mai più, ma almeno allieva i sintomi ed eviti di buttarti contro un treno.

A volte ho provato a spiegare la depressione a chi la confondeva con “la tristezza”, che può anche non c’entrare un cazzo, dato che la tristezza è una sensazione, un’emozione, mentre qua al massimo si parla di umore (“disturbi dell’umore”, è così ce la chiamano ed è così che la chiamo io se ne parlo con qualcuno, una mia forma di autocensura. La chiamano anche disturbo affettivo, anche se mi piace meno, perché così sembra che abbia a che fare con i sentimenti, anche se è vero che, nel suo essere invalidante, crea problemi con gli affetti, quando non sono gli affetti a creare il problema: mi ha mollato la ragazza).

[nota: non mi aveva ancora mollato!]

Ci sono anche gli adorabili ingenui che ti dicono che la tristezza fa parte della vita e che bisogna accettarla. Assolutamente d’accordo, penso anch’io che sia così. Fosse per me a scuola andrebbe insegnata la cultura del dolore e della sofferenza. Ma, ancora una volta: questo non c’entra niente con la depressione, che molto spesso non è legata al ciclo felicità/tristezza.

A volte ho provato a spiegare la depressione con degli esempi. A volte invece ho provato a spiegarlo con parole semplici e sincere: ma non serve. Ho notato che più sono sincero e meno sono creduto. Se invece mento, non mi credono comunque, forse perché non sono molto bravo a dire bugie.

Ma nonostante questo, rivolgersi in modo gentile e sincero a un pubblico che superi la singola unità, per quanto auspicabile, resta una totale perdita di tempo, almeno nella maggior parte dei casi.

Eppure ho scoperto che una delle spiegazioni che a volte davo (le rare volte in cui ne parlo, quasi mai) usavo le stesse identiche parole usate da uno scrittore che non mi piace particolarmente ma che su questo argomento sapeva il fatto suo. David Foster Wallace, ebbene sì, proprio lui, l’idolo delle ragazzine.

Molti lo amano perché scriveva molto bene, una cosa che a me ricorda sempre l’amore di certe vecchie zie per Mike Bongiorno perché “senti come parla bene” o, in tempi più recenti, per Nichi Vendola (mia nonna lo dice sempre che “parla troppo bene”, sottinteso: “per essere frocio e comunista”). Ricorderò per sempre un’intervista a due vecchi che al giornalista che chiedeva “ma perché guardate il Tg4 di Emilio Fede?” loro rispondevano “perchè scandisce bene le parole”.

Ecco, tranne rare eccezioni, a me gli scrittori “che scrivono troppo bene” di solito non piacciono, sono come i porno patinati in HD, ma ciò non esclude che a volte anche loro abbiano delle cose interessanti da dire, soprattutto quando dicono cose che io dicevo prima di loro (anche se non cronologicamente, ma se intendiamo il tempo come un concetto soggettivo e relativo, allora sì, io queste cose le dicevo prima di loro).

David Foster Wallace si è suicidato.

E questo per un depresso è sempre un buon curriculum. (C’è poi la questione che se non ti uccidi non sei davvero depresso, ma su questo magari ci torno dopo.)

E cosa diceva Foster, e io prima di lui? Che la depressione non c’entra niente con emozioni e stati d’animo, ma che viene percepita come qualcosa di FISICO e che è più o meno come avere la nausea in tutto il corpo. Una nausea totale, completa, in ogni cellula del corpo, che sfugge al vostro controllo e influisce sul vostro essere, sul vostro percepire il mondo e soprattutto sulla vostra forza di contrastare la malattia stessa.

E tutto diventa putrido.

Ecco perché si mettono lenzuola scure alle finestre nelle belle giornate di sole. Affanculo il sole. Ricordate? Il putriarca è qui a putriarti. (Non ve lo ricordate, lo so.)

Ora, in queste condizioni orribili dove ogni boccata d’aria è faticosa e sembra di respirare nella sabbia (un altro sintomo terribile è questa tendenza all’essere lirici nel tentativo di spiegare le cose) appare uno stronzo qualunque che ti dice “ma guarda che non è una malattia”. Oppure – nella variante sottilmente più antipatica – “ma guarda che non è una VERA malattia”. Come dire che te la stai inventando. E questa cosa – lo stronzo non lo sa – il vostro cervello ve la suggerisce quasi subito. Sei sicuro di essere malato? Non è che sei solo… triste?

No. E vi spiego perché. Perchè non sono triste. Anzi ho vari motivi per non esserlo [NOTA: scritto quando ero abbastanza felice, vi ricordo]. So che non dovrei esserlo. Anzi non lo sono proprio. Per me l’assurdità della domanda è sempre quella, la stessa della domanda “sicuro di non essere solo triste?” rivolta a una persona con la broncopolmonite. Ma che cazzo dici, non lo vedi il catarro? Guarda: GUARDA IL CATARRO!

Ecco, nel caso della depressione purtroppo non puoi mostrare il catarro, e questo non aiuta a renderla reale. Per te lo è, ma per gli altri non tanto (altri = chi non ne sa un cazzo) e col tempo ritornano i dubbi pure a te, se mai ti sono passati.

Un altro che sapeva di cosa parlava, il grandissimo Giuseppe Berto, ha scritto bene cose che pure io avevo detto e scritto – sempre per la storia che il tempo è un concetto soggettivo e relativo – a proposito dell’avere malattie di nervi, come si diceva al tempo, e del provare vergogna.

[qua ci doveva essere un pezzo tratto da un libro di Berto, solo che non sono riuscito a trovare la pagina, leggetevi tutto il libro]

Quindi, diciamo che la depressione non è una malattia.

Ne consegue che non esiste una cura.

E quindi non si può guarire.

Bella notizia, eh? Mi piace come si passa dall’ottimismo dell’enunciato – non è una malattia – al pessimismo assoluto del passo logico successivo – quindi non si può guarire.

Ma questo è solo un modo di vederla. Un furbo sillogismo.

Un altro modo di vederla è che la depressione non è una malattia e quindi non sei malato e quindi non devi guarire. Poi però muori. Beh di qualcosa si deve morire, inutile pensarci tanto. E la gente dirà: strano, non era malato. I vicini di casa diranno che eri normalissimo, solo un po’ taciturno. Introverso. Questo è il modo di vedere degli scemi, di quelli che pensano che tutti abbiamo problemi e che prima o poi capita a tutti.

Un altro modo di vederla, il mio, è che la depressione è una cazzo di malattia odiosa che ti rovina anni di vita e ti rende dieci volte più stronzo di quanto non saresti stato, ma che ti fa anche capire delle cose che magari non avresti capito e ti fa apprezzare cento volte di più i momenti in cui stai bene, soprattutto se impari a tenerla sotto controllo, cosa che devi assolutamente imparare a fare, anche perché guarire del tutto è improbabile.

E qui veniamo all’ultimo esempio, questo proprio a misura di scemi totali.

Per me, dato che fin qui non sono morto – poi in futuro chissà, nel caso vi prego di non passare questo post a Studio Aperto – la depressione è come il diabete. Ovviamente non intendo in senso organicista, è solo un paragone tra come vive la malattia il diabetico e come vive la malattia il depresso.

Di diabete si può morire o diventare ciechi. Ma, se si interviene nel modo giusto, è una malattia solo leggermente fastidiosa con cui si può convivere tranquillamente. Basta tenere a bada i livelli di glicemia, seguire una certa dieta, abituarsi a qualche malessere.

Per alcuni depressi, quelli che forse “sono solo tristi”, può servire lavorare, avere obiettivi, amare, avere amici, fare sport. La vita normale. Di solito questi sono i consigli che ti danno i bravi padri di famiglia, coloro per cui la vita scorre su certi binari. In realtà sono i consigli che darei anch’io: lavora, lavora, lavora, cerca la compagnia anche se ti fa schifo, fai cose, muoviti.

Anche Reik, l’allievo di Freud, dopo anni di studi era arrivato alla stessa conclusione dell’uomo della strada o di quelli che rispondono nelle rubriche delle lettere dei giornali.

Qual è il segreto di una vita felice?

Lavorare e chiavare.

Diceva più o meno così, in Eros e lussuria: “Abbiamo notato come a volte l’individuo che si trovi in questo stato di sofferenza tenti di superare l’interna disarmonia mediante raggiungimenti, ovvero compiendo alcunché d’importante per sé e per gli altri. Un’altra via che si offre per soddisfare le interne esigenze, è quella di allargare e arricchire l’ego mediante l’amore. Se ambedue le strade risultano bloccate, l’individuo è destinato ad ammalarsi psichicamente, dal momento che, per rimaner sani, occorre essere in grado di lavorare e di amare. ”

(Non lo cito perché sono un intellettuale che ha studiato, anzi sono più o meno il contrario. E’ che confido nella saggezza dei morti e non trovando soluzioni nelle persone vive, le ho cercate nelle persone morte. Cioè nei libri. E a dirla tutta non le ho trovate neanche lì, ma almeno ho passato del tempo.)

Per alcuni può funzionare. Dai, quanti ne abbiamo conosciuto che erano tristi finché non hanno trovato una ragazza o fatto un figlio o trovato un lavoro figo o hanno iniziato a fare volontariato in Africa?

Per altri invece la vita normale è completamente inutile. Non dico che sia inutile in sé – in una visione più ampia sì, ma questo è un altro discorso – ma inutile nei confronti della malattia.

Se hai il diabete, ce l’hai comunque, anche se hai tanti amici, un lavoro e una donna o un uomo che ti ama. Ti assumono in un lavoro strafigo dove non devi fare un cazzo in cambio di miliardi di dollari, ma continui ad avere il diabete. E nessun medico direbbe mai “Lei ha il diabete: si trovi un bel lavoro e faccia qualche viaggio di tanto in tanto”.

L’importante, da quel che ho capito finora, è evitare il dolore fisico persistente, avere un’ampia casistica di esperienze interiori spiacevoli e avere una certa stabilità nella vita. Ma non in quel senso che intendete voi.

Ecco cosa intendo io per stabilità: sapere sempre dove e come uccidersi.

E’ quella sensazione di sicurezza che ti dà una via d’uscita sicura, come sapere dov’è l’uscita di sicurezza più vicina, o almeno sapere che c’è. E’ come la capsula di cianuro dei nazisti. Se ti catturano, sai che non sarai torturato, perchè stringi i denti e ti uccidi. E fotti tutti.

Sull’utilità del pensiero del suicidio credo di aver scritto altri post, lo do per scontato, ma riassumendo per l’ennesima volta il concetto: serve a rimandare di giorno in giorno la realtà, perché finché il pensiero è presente, e resta un pensiero, la realtà è rimandata, sei salvo, sei normale, puoi condurre una vita tranquilla. A meno che il pensiero non diventi persistente e stai tutto il giorno a pensare alla morte. Allora sei pazzo. A me è capitato ed era orrendo.

Concludo con un aneddoto simpatico a proposito della stabilità di cui parlavo. Cioè sapere dove e come.

Per anni ero convinto di avere la tecnica giusta e il posto giusto. Ricordavo di aver fatto delle prove, ma probabilmente ero ubriaco, e avevo sbagliato i calcoli. Un giorno avevo deciso. Un giorno qualunque, un momento qualunque, non ero disperato, anzi. Ero come molto stanco, sentivo un peso sulla testa, una sensazione simile alla sinusite, ma dentro di me c’era un silenzio assoluto. In quel momento ho scoperto – immaginate voi come – che il punto che avevo da sempre scelto come uscita di sicurezza non andava bene. O il pavimento si era alzato di mezzo metro, o io ero cresciuto senza accorgermene.

E’ stato destabilizzante. Era la mia uscita di sicurezza, la mia via di fuga certa. E non ce l’avevo più.

Lo so, non è proprio un aneddoto simpatico, ma a me fa ridere il fatto che per anni avevo sbagliato i calcoli senza rendermene conto. Quelli veramente divertenti magari li racconto un’altra volta, se ci sarà.

Concludo con una certezza: non esiste stare bene o stare meglio, esiste solo stare male in modi nuovi, modi migliori, più produttivi, più divertenti. Amen.

NOTA: se sei arrivato qui da google e stai pensando di suicidarti, tieni conto di un paio di cose: non sono un medico, non sono uno psichiatra, non sono un esperto e soprattutto non voglio avviare nessuna discussione. Nel post uso un tono colloquiale, ma non è volontario: mi viene fuori quando scrivo su internet. Non voglio parlare con te. E di certo non voglio parlare di suicidio. Se ti vuoi uccidere, prima parlane con qualcuno, possibilmente con uno sconosciuto. Poi procedi come vuoi. Ma, ti prego, non rivolgerti a me, non lasciare commenti disperati qua sotto, davvero. Un’ultima cosa: se veramente hai deciso di farlo, cancella quel cazzo di profilo Facebook dove metti le tue poesie preferite e il tuo punto di vista sulla crisi economica. Lo sai cosa succederà: i giornalisti ci si tufferanno come topi nella melassa. Non hai mai visto topi nella melassa? Nemmeno io. A dire la verità non so nemmeno cosa sia la melassa, forse è una specie di crema, ma è la prima immagine che mi è venuta in mente. Comunque cancella tutto, non lasciare tracce, non lasciare niente. Scoprirai che anche solo con questo semplice atto ci si sente più liberi e puliti e pronti a ripartire. Una volta ho scritto un racconto sul suicidio – ho scritto decine di racconti sul suicidio – dove il protagonista, per potersi impiccare, doveva prima aggiustare una sedia rotta, solo che poi passava del tempo con chiodi e martello, si impegnava in quell’attività, scopriva la bellezza del mondo partendo dalle cose semplici e alla fine non si uccideva. Una cagata di racconto, orribile e ingenuo, e infatti l’ho cancellato, anche se forse avrei potuto rivenderlo a una rivista di bricolage. Comunque non parlarne con chi non capisce. E’ inutile, lascia perdere. Se senti qualcuno rispondere “a tutti capita di avere problemi” o “a tutti capita di essere un po’ tristi”, allontanati velocemente da quella persona e cercane un’altra. Magari leggi un libro, oppure aggiusta una sedia. Ciao.
Categorie
Post

RRRRRRRRRRRRRRRRRRiiiidii

sempre sul rispondere “bene”, oggi la farmacista mi ha chiesto come stavo. farmaciste, meriterebbero un discorso a parte. nel senso che è meglio metterlo da parte e non farlo. appunto: le pizze al taglio fanno quasi sempre cagare, buone solo se hai fame. il fatto: mi hanno dato un potente sonnifero al posto di un altro farmaco e sono andate in panico quando ho spiegato l’errore. io l’ho raccontato molto divertito, “ma quindi cosa ha fatto?” “ahah, niente, ho dormito!”. volevo minimizzare, ma il fatto che lo trovassi divertente le ha terrorizzate il doppio. una delle tante conferme che la commedia è il modo giusto di raccontare le tragedie, di esaltarle. avrei voluto anche intonare: tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto, in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor. ah, riiiidi, pagliaccio, sul tuo amore infranto! ridi del duol, che t’avvelena il cor! ma c’era la vecchia dietro che premeva, lei aveva preso il biglietto ma io c’ero prima, un classico.

Categorie
Post

Ad un sogno mai sognato

http://www.youtube.com/watch?v=GqrCygtYNn0

Bruciamo i fiori sui davanzali.

Categorie
Post

Calore umano

Abbracciami.

Categorie
Post

Un delfino

(una storia per i più piccoli)

C’era una volta un delfino.
Lui non lo poteva sapere, perché era morto, ma molto presto a nessuno sarebbe più importato di lui.
Il suo corpo spiaggiato era stato motivo di interesse nelle prime ore di sole, quando prima gli anziani e poi le famiglie con bambini arrivavano sulla spiaggia. Era la novità del giorno: c’era chi si avvicinava subito a guardarlo, altri invece all’inizio fingevano disinteresse, ma poi anche loro cedevano a quello spettacolo. I bambini, come hanno sempre fatto, lo toccavano con una canna o un bastoncino, per constatare l’effettiva morte e verificarne la consistenza.
Il delfino è tra i più sfortunati tra gli animali perché da morto gli resta come un sorriso che più che suscitare tenerezza lo fa diventare ridicolo agli occhi di chi lo guarda. Gli occhi erano chiusi, ma appariva ancora vivo, apparentemente intero, molto liscio, senza graffi o tumefazioni.
“Guarda papà! Un delfino” disse la bambina. “Guarda papà! Un delfino!”
“Lo vedo, lo vedo…”
“Com’è morto?” chiese la bambina.
Il padre non rispose subito, perché c’erano altri adulti e non voleva dire cose inesatte davanti a sua figlia. Prese tempo, nella speranza che qualcuno rispondesse al posto suo.
“Forse una busta di plastica l’ha soffocato” disse un vecchio con un cappello di paglia.
“Ma non si vede nessuna busta.”
“Forse l’ha ingoiata.”
La bambina guardò il padre per avere una risposta definitiva.
“La natura…” cominciò il padre, senza finire.
Gli altri lo guardarono, ormai incuriositi.
“Non ci si può fare niente” disse il vecchio, mettendo fine alla conversazione.
Qualcuno chiamò i vigili urbani per informarli della presenza di un animale morto su una spiaggia frequentata da famiglie e bambini. Quest’ultimo dettaglio, la presenza dei bambini, venne sottolineato più volte, ma non bastò a turbare la proverbiale serenità dei vigili urbani.
“Non è di nostra competenza” risposero.
E a metà mattina del delfino già non importava più a nessuno. Qualche nuovo arrivato si avvicinava e lo fotografava. Ma era chiaro a tutti che l’interesse non era più lo stesso di qualche ora prima. Una motovedetta della polizia si avvicinò alla riva.
“Non potete portarlo via voi, o avvisare qualcuno?” chiese un ragazzo che lo stava fotografando.
“No” rispose il poliziotto dalla barca, “non spetta a noi. Ma qualcuno verrà. Ce la fai una foto?”
I due poliziotti si misero in posa sulla barca e il ragazzo dalla riva gli scattò una foto. I poliziotti misero in moto e andarono via ridendo.
Prima dell’ora di pranzo tutti ignoravano il delfino. Qualcuno giocava a racchette, altri facevano il bagno o prendevano il sole.
Verso sera un cane ci pisciò sopra. Da lontano il padrone lo chiamò, ma il cane non ubbidì immediatamente perché attirato da quegli strani odori che il delfino aveva iniziato a produrre stando tutto il giorno sotto il sole estivo. Il padrone chiamò il cane una seconda volta, quello pisciò di nuovo e poi andò via. L’urina del cane si mischiò con la carne moribonda del delfino formando nuovi colori e nuovi odori.
Il giorno dopo il delfino iniziava a decomporsi.
Le persone si erano tenute a distanza, ma un insidioso venticello portava la puzza tra gli ombrelloni. Qualcuno chiamò di nuovo i vigili, ma di nuovo risposero che non era di loro competenza, imperturbabili ad ogni intervento esterno alla loro realtà. Verso l’una arrivò una macchina misteriosa dalla quale scesero due ragazzi con una borsa nera.
Si avvicinarono al delfino e presero dei campioni. Un vecchio curioso chiese informazioni e i due ragazzi dissero che lavoravano per un centro di ricerca.
“Prendiamo dei campioni per studiarlo.”
“Ma non lo portate via?”
“No.”
“Ma puzza” disse il vecchio.
“Non sappiamo cosa dirle, noi li studiamo. Qualcun altro verrà a prenderlo.”
Poi andarono via.
Il giorno dopo, e quello dopo ancora, il delfino continuava a decomporsi.
Prima diventò più chiaro e opaco, come se si seccasse, poi si gonfiò e diventò viola con chiazze rosse.
Ora non era più bello da vedere e nessuno lo fotografava più. Due uomini lo allontanarono usando dei bastoni. “Dobbiamo allontanarlo anche dall’acqua” disse uno, senza sapere perché.
Il giorno dopo passò una macchina della forestale. Qualche bagnante segnalò la presenza del delfino putrescente, gli uomini della forestale scesero a controllare ma dissero che non era di loro competenza.
“Sì ma questa è una spiaggia frequentata dai bambini” disse una mamma “e questo delfino non è igienico”.
I forestali si guardarono tra loro e uno di loro pensò che era vero, la morte non era una cosa igienica, ma non lo disse a voce alta.
“Signora, manderemo qualcuno.”
“Mamma cosa vuol dire putrescente?” chiese la bambina.
“Non lo so” rispose la mamma a bassa voce.
Il giorno dopo arrivarono due operai del comune con delle transenne.
“Dovete portarlo via?”
“No, dobbiamo transennarlo per questioni igieniche” rispose l’operaio. “Poi verrà qualcuno a prenderlo.”
Dopo qualche giorno quel che restava del corpo del delfino era ricoperto di vermi. La sera i pescatori andavano direttamente dal delfino a prendere i vermi per usarli come esche.
La notte le coppie si appartavano a pochi metri dallo spettacolo della putrefazione. All’alba una brezza leggera faceva svolazzare cartoni della pizza e preservativi secchi.
Dopo dieci giorni del delfino non restava molto. Era difficile riconoscerne la forma. Si capiva che una volta c’era stato qualcosa di vivo, ma non si poteva dire cosa. Gli operai del comune tornarono con una ruspa e un camioncino.
“Lo portate via?” chiese il vecchio con il cappello di paglia.
“Sì, lo devono studiare.”
“Studiare? Ma non è rimasto quasi nulla.”
L’operaio alzò le spalle e continuò il suo lavoro.
Dove una volta c’era il delfino era rimasto il segno della pala meccanica, ma la notte una mareggiata cancellò tutto e il giorno dopo la spiaggia tornò come prima. Non c’era più nessun segno del delfino, solo il ricordo. Ma anche quello durò poco.
“Dove avranno portato il delfino?” chiese la bambina al padre mentre pescavano.
Ma siccome c’erano altri adulti e il padre non voleva dire inesattezze o essere corretto da estranei di fronte a sua figlia, non disse nulla e continuò a pescare.

Categorie
Post

Saldi di primavera

Scambio stima e “ottimo lavoro, complimenti” in cambio di sesso e amore.

Categorie
Post

E poi c’è anche il cinema

a volte me la prendo con il cinema italiano, sbagliando, perché me la dovrei prendere con il cinema tutto. per dire, non è che i giapponesi o i turchi non facciano cagare: fanno cagare anche loro. è questo il punto: fanno cagare tutti. perché il cinema è sempre cinema confortante, consolatorio, quello che io chiamo la carezza del papa, o della mamma, la mamma che ti racconta la favola prima di dormire e poi ti dà una carezza e ti dice adesso dormi, buonanotte. e tu dormi, sogni, e non hai paura del buio perché sai che i mostri sono una finzione. in pratica dal giorno dopo del treno dei lumiere in poi il cinema si è assunto il ruolo di mamma che ti racconta la storiellina della buonanotte* (in generale: e vissero felici e contenti), quando avrebbe potuto avere il ruolo di zio pazzo e un poco pedofilo che lancia sguardi inquietanti sugli abissi umani e l’insensatezza della vita. quindi mai un cinema che ti dia schiaffi in faccia, pugni negli occhi, un film che ti faccia vedere la realtà da un nuovo punto di vista, un film che torni a casa – se sei così pazzo da uscire, ma diciamo che lo sei – e hai dubbi sull’esistenza: forse devo uccidere il mio vicino, o me stesso, o diventare un asceta, scopare le capre, leccare il pavimento, iniziare a parlare con le piante, o accoltellarle. (parentesi sull’accoltellare le piante: una volta l’ho fatto, poi un pomeriggio mi dondolavo su un ramo dell’ulivo e sono caduto su quella che chiamano cuscino di suocera, l’echinocactus grusonii, ma in questo caso la suocera ero io e quindi molte molto molte spine nel culo, tolte una ad una da mia madre, con grande sollazzo e divertimento. la vendetta delle piante grasse. ecco un film che andrei a vedere: la vendetta delle piante grasse. con bruce willis. chiusa parentesi.) quindi, quando si trova un capolavoro contemporaneo, forse è il caso di dirlo: working man’s death, quello che il cinema virgolettissime documentario dovrebbe/potrebbe essere, non quella merda noiosa che si vede nei festival. abbastanza tradizionale, tecnicamente perfetto, osa il tanto giusto, purtroppo non di più, ma rimane un capolavoro. austriaco, non italiano. perché facciamo cagare tutti, ma qualcuno più degli altri.

*che poi c’è anche storiellina e storiellina: per dire, ne le mille e una notte c’è molto più cinema di quanto non si sia visto negli schermi negli ultimi cento anni. provare per credere. ma non prendete l’edizione per bambini, prendete o scaricate quella grossa, con i pezzi normalmente non inclusi. quella sì che.
Categorie
Post

Isolamento: uno dei tanti pro

Ad esempio essere l’unico al mondo, o uno dei pochi assieme a un contadino bretone e una famiglia del Malawi, a non seguire in diretta l’elezione del papa, non avendo nè tv nè internet nè acqua potabile (l’acqua non c’entra niente ma volevo dirlo). Stamattina poi compro il giornale e riesco a saltare la prima pagina andando direttamente al mio articolo – unico motivo per cui ho comprato il giornale – quindi nemmeno in quel momento scopro che è stato eletto il papa. Lo scopro solo alle 9.00 quando, vedendo la donna delle pulizie un po’ su di giri, le chiedo:

– Ma hanno eletto il papa?

– Sì!

– Negro?

– No.

– Ah.

FINE.

 

Categorie
Post

Sonno pomeridiano

Fate della morte la vostra certezza; così la morte o la vita saranno più dolci. Ragionate così con la vita: se io ti perdo, perdo una cosa a cui solo gli sciocchi posson tenere: un soffio tu sei, schiavo di tutte le influenze del cielo, che affliggono d’ora in ora quest’abitazione ove tu dimori. Tu non sei altro che lo zimbello della morte; ché questa t’affatichi d’evitare con la tua fuga, e non fai che correrle incontro. Non sei nobile, ché tutti gli accorgimenti che generi sono allevati dalla bassezza. Non sei affatto valorosa, perché temi la molle e tenera forca d’un povero rettile. Il tuo migliore riposo è il sonno, e questo sovente tu sfidi, eppure grossamente temi la tua morte, che non è niente di più. Non sei te stessa, poiché tu sussisti di molte migliaia di granelli che escon dalla polvere. Felice tu non sei, perché ciò che non hai, ti sforzi sempre di conseguire, o ciò che hai, dimentichi. Non sei stabile; poiché la tua complessione svaria a strani effetti, secondo la luna. Se sei ricca, sei povera; poiché, come un asino la cui schiena si curva sotto le verghe dell’oro, tu non porti la tua pesante ricchezza che per una giornata, e la morte ti scarica. Amico non hai alcuno, ché le tue stesse viscere, che si dicon tue figlie, mera effusione dei tuoi propri lombi, maledicon la gotta, la serpigine, e il catarro, perché non ti finiscon più presto. Tu non hai giovinezza né vecchiaia, ma come un sonno pomeridiano, in cui sogni d’entrambe; poiché tutta la tua beata giovinezza diventa come annosa, e chiede la limosina della vecchiaia paralitica; e quando sei vecchia e ricca, tu non hai né calore, né affetto, ne nerbo, né beltà, per rendere gradita la tua ricchezza. Che c’è dunque in questa cosa che reca il nome di vita? Altre mille morti ancora si celano in questa vita, eppure temiamo la morte, che livella tutte queste disuguaglianze

Categorie
Post

Ok

9mila abitanti, 500 bar, 80 pizzerie, 0 librerie.