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La giornata di Papa Rocky VI

Rocky si alza alle cinque. Ma era già sveglio, lo capiamo dalla velocità con cui ferma la sveglia.

Poi un secondo dopo fissa le sue due tartarughe e gli dà da mangiare. Questa è una di quelle inquadrature che valgono film interi, praticamente perfetta. Si sveglia, fissa l’acquario, e lo vediamo di spalle. Non c’è bisogno di dire o suggerire altro.

Poi lancia delle cose dalla finestra. Non ho capito bene cosa, ci sono anche delle caramelle. Forse cibo per gli uccelli. Rocky un po’ come San Francesco, ma silenzioso. Con gli animali non ci parla, si limita a cibarli. Bravo.

Veloce bevuta di tazza di caffè, sicuramente lungo e senza zucchero.

Subito dopo il caffè fa qualche sollevamento alla sbarra. Chiunque di noi dopo aver bevuto il caffè e uno sforzo così si cagherebbe addosso e dovrebbe tornare dentro a cambiarsi. Ma non Rocky.

E poi si siede in cimitero. Basta così: la giornata è finita, si può tornare a dormire.

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La depressione non è una malattia e questo non è un post

Neanche rompere il cazzo è una malattia, eppure se ci fosse una raccolta fondi per trovare una cura per i rompicazzo io ci butterei tutti i soldi. Da dove iniziare?

[premessa: questo post-sfogo l’ho scritto in uno dei periodi più felici e tranquilli della mia vita, molti mesi fa. perché lo pubblico ora? perché sì. comunque alla maggior parte delle persone risulterà noioso, quindi suggerisco alla maggior parte delle persone di evitare la lettura. per mantenere la freschezza iniziale, rileggendolo a distanza di mesi l’ho modificato pochissimo: ho solo corretto un paio di errori ed eliminato qualche paragrafo eccessivamente imbarazzante.]

Argomento che ho sempre evitato, in forma scritta e in qualsiasi altra forma, ma mi sono veramente rotto i coglioni di sentire questi scemi che pensano di mettere i puntini sulle i dove i puntini ci sono già e sono grandi quanto il sole.

Allora.

Ci sono quelli che la prendono da un punto di vista filosofico: cos’è davvero la malattia, chi decide chi è malato, cosa vuol dire essere malato. Una questione che potrebbe anche essere interessante, se solo non usassero quel tono da editor di wikipedia che ti ricorda che il delfino è un mammifero, non un pesce.

Eppure secondo me è abbastanza semplice. Io sono per il punto di vista del malato quando coincide con il punto di vista del medico.

Qualche esempio: la malattia intesa come patologia medica, ovvero quando tu scopri di averla solo perché ti viene diagnosticata. Alcuni complottisti non sarebbero d’accordo perché ci vedono un pericoloso ampliamento del campo del patologico con lo scopo di favorire quella che chiamano big pharma: più malati, più clienti. E certe pubblicità in tv, tipo quella che inizia con una voce che dice “la cellulite E’ UNA MALATTIA”, hanno chiaramente questo scopo e sembrerebbero dare ragione ai nostri cari amici pazzi.

L’altro punto di vista è la malattia come vissuto del malato: cioè la percezione, l’esperienza soggettiva di anomalia nel normale stato di salute. Facile, no? Sento di essere malato, ma ovviamente non è detto che lo sia realmente, anche se ne sono totalmente convinto. Poi se ho capito bene a quel punto il cervello può perfino convincere il corpo che è così, ma qui si va in un ambito scientifico che sfioro ma non tocco. Restiamo in superficie, guardiamo dall’alto. Se si va in profondità si perde in ampiezza.

La depressione, nell’immaginario collettivo (che se volete potete leggere anche come “nell’ignoranza della gente”) si colloca a metà tra questi due tipi di malattia: sì, effettivamente stanno male, ma sono davvero malati?

Quindi le domande sono ancora quelle: cos’è la malattia, quando sei davvero malato, chi decide cosa.

Quando sei malato? Cento anni fa forse avrebbero risposto “quando caghi nero” o “quando sputi sangue” o “quando il diavolo è dentro di te”. La zia di mio padre, una donna adorabile e diffidente che si curava il diabete con il dentifricio, avrebbe risposto “quando vai dal dottore”.

Ma c’è un modo ancora più semplice di rispondere, ed è semplicemente andare a controllare cosa ne pensa l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Potrete anche considerarli una specie di Spectre del mondo medico, se volete, e potete pensare che il loro scopo sia controllare le nascite e consigliarvi inutili esami rettoscopici con l’intento di installarvi microchip nel culo per poter controllare i vostri corpi e le vostre menti e fare delle statistiche delle vostre funzioni intestinali.

Oppure, potete ammettere che sanno qualcosa sulle malattie, forse perfino qualcosa più di voi.

E cosa dice l’Oms della depressione? Che è una malattia. Anzi che è una delle malattie più diffuse e che in futuro sarà una vera piaga sociale.

Ricapitolando: ha vari sintomi, chi ce l’ha si sente ammalato, il mondo scientifico la considera una malattia. Quindi diciamo che possiamo affermare con un accettabile grado di sicurezza che la depressione è una malattia.

Eppure è molto diffusa, soprattutto tra le menti semplici, ma anche fra certi medici, l’idea che la depressione non possa fregiarsi del titolo di “vera” malattia. Questo credo riguardi più in generale un certo modo di vedere i disturbi mentali.

Siccome di come funziona il cervello non sappiamo ancora tutto (ma molto sì) allora è un campo un po’ vago, perché a essere malato è lo stesso organo che ci fa capire di essere malati. Quindi è solo nella tua testa, ti dicono. Un po’ come se uno avesse il cancro al fegato e gli dicessero “non è una malattia, è solo nel tuo fegato”. Poi muore e i parenti dicono “ma è strano, non era malato”, che è quello che capita davvero con molti depressi.

Hanno sicuramente contribuito a questo atteggiamento generale anche la grande diffusione del termine “psicosomatico”, che è diventata la non-spiegazione per qualsiasi cosa, gli psichiatri pazzi che danno psicofarmaci ai bambini e l’aspetto di coolness di certi atteggiamenti maledetti legati alla malinconia (“non è depresso, è una posa”).

Possibili soluzioni, da prendere in considerazione solo se effettivamente c’è il problema: psicoterapia – pure per questa c’è diffidenza e ironia diffusa, ma esiste e ha un suo senso – oppure sbroccate mistico-religiose oppure, ancora, farmacoterapia.

Il mio voto va all’ultima, anche se ho sempre sognato una sbroccata mistico-religiosa.

Per gli adulti che stanno male per lunghi periodi, la chimica può essere un aiuto utile così come può esserlo un decongestionante per il raffreddore. Non vuol dire che non ti verrà mai più, ma almeno allieva i sintomi ed eviti di buttarti contro un treno.

A volte ho provato a spiegare la depressione a chi la confondeva con “la tristezza”, che può anche non c’entrare un cazzo, dato che la tristezza è una sensazione, un’emozione, mentre qua al massimo si parla di umore (“disturbi dell’umore”, è così ce la chiamano ed è così che la chiamo io se ne parlo con qualcuno, una mia forma di autocensura. La chiamano anche disturbo affettivo, anche se mi piace meno, perché così sembra che abbia a che fare con i sentimenti, anche se è vero che, nel suo essere invalidante, crea problemi con gli affetti, quando non sono gli affetti a creare il problema: mi ha mollato la ragazza).

[nota: non mi aveva ancora mollato!]

Ci sono anche gli adorabili ingenui che ti dicono che la tristezza fa parte della vita e che bisogna accettarla. Assolutamente d’accordo, penso anch’io che sia così. Fosse per me a scuola andrebbe insegnata la cultura del dolore e della sofferenza. Ma, ancora una volta: questo non c’entra niente con la depressione, che molto spesso non è legata al ciclo felicità/tristezza.

A volte ho provato a spiegare la depressione con degli esempi. A volte invece ho provato a spiegarlo con parole semplici e sincere: ma non serve. Ho notato che più sono sincero e meno sono creduto. Se invece mento, non mi credono comunque, forse perché non sono molto bravo a dire bugie.

Ma nonostante questo, rivolgersi in modo gentile e sincero a un pubblico che superi la singola unità, per quanto auspicabile, resta una totale perdita di tempo, almeno nella maggior parte dei casi.

Eppure ho scoperto che una delle spiegazioni che a volte davo (le rare volte in cui ne parlo, quasi mai) usavo le stesse identiche parole usate da uno scrittore che non mi piace particolarmente ma che su questo argomento sapeva il fatto suo. David Foster Wallace, ebbene sì, proprio lui, l’idolo delle ragazzine.

Molti lo amano perché scriveva molto bene, una cosa che a me ricorda sempre l’amore di certe vecchie zie per Mike Bongiorno perché “senti come parla bene” o, in tempi più recenti, per Nichi Vendola (mia nonna lo dice sempre che “parla troppo bene”, sottinteso: “per essere frocio e comunista”). Ricorderò per sempre un’intervista a due vecchi che al giornalista che chiedeva “ma perché guardate il Tg4 di Emilio Fede?” loro rispondevano “perchè scandisce bene le parole”.

Ecco, tranne rare eccezioni, a me gli scrittori “che scrivono troppo bene” di solito non piacciono, sono come i porno patinati in HD, ma ciò non esclude che a volte anche loro abbiano delle cose interessanti da dire, soprattutto quando dicono cose che io dicevo prima di loro (anche se non cronologicamente, ma se intendiamo il tempo come un concetto soggettivo e relativo, allora sì, io queste cose le dicevo prima di loro).

David Foster Wallace si è suicidato.

E questo per un depresso è sempre un buon curriculum. (C’è poi la questione che se non ti uccidi non sei davvero depresso, ma su questo magari ci torno dopo.)

E cosa diceva Foster, e io prima di lui? Che la depressione non c’entra niente con emozioni e stati d’animo, ma che viene percepita come qualcosa di FISICO e che è più o meno come avere la nausea in tutto il corpo. Una nausea totale, completa, in ogni cellula del corpo, che sfugge al vostro controllo e influisce sul vostro essere, sul vostro percepire il mondo e soprattutto sulla vostra forza di contrastare la malattia stessa.

E tutto diventa putrido.

Ecco perché si mettono lenzuola scure alle finestre nelle belle giornate di sole. Affanculo il sole. Ricordate? Il putriarca è qui a putriarti. (Non ve lo ricordate, lo so.)

Ora, in queste condizioni orribili dove ogni boccata d’aria è faticosa e sembra di respirare nella sabbia (un altro sintomo terribile è questa tendenza all’essere lirici nel tentativo di spiegare le cose) appare uno stronzo qualunque che ti dice “ma guarda che non è una malattia”. Oppure – nella variante sottilmente più antipatica – “ma guarda che non è una VERA malattia”. Come dire che te la stai inventando. E questa cosa – lo stronzo non lo sa – il vostro cervello ve la suggerisce quasi subito. Sei sicuro di essere malato? Non è che sei solo… triste?

No. E vi spiego perché. Perchè non sono triste. Anzi ho vari motivi per non esserlo [NOTA: scritto quando ero abbastanza felice, vi ricordo]. So che non dovrei esserlo. Anzi non lo sono proprio. Per me l’assurdità della domanda è sempre quella, la stessa della domanda “sicuro di non essere solo triste?” rivolta a una persona con la broncopolmonite. Ma che cazzo dici, non lo vedi il catarro? Guarda: GUARDA IL CATARRO!

Ecco, nel caso della depressione purtroppo non puoi mostrare il catarro, e questo non aiuta a renderla reale. Per te lo è, ma per gli altri non tanto (altri = chi non ne sa un cazzo) e col tempo ritornano i dubbi pure a te, se mai ti sono passati.

Un altro che sapeva di cosa parlava, il grandissimo Giuseppe Berto, ha scritto bene cose che pure io avevo detto e scritto – sempre per la storia che il tempo è un concetto soggettivo e relativo – a proposito dell’avere malattie di nervi, come si diceva al tempo, e del provare vergogna.

[qua ci doveva essere un pezzo tratto da un libro di Berto, solo che non sono riuscito a trovare la pagina, leggetevi tutto il libro]

Quindi, diciamo che la depressione non è una malattia.

Ne consegue che non esiste una cura.

E quindi non si può guarire.

Bella notizia, eh? Mi piace come si passa dall’ottimismo dell’enunciato – non è una malattia – al pessimismo assoluto del passo logico successivo – quindi non si può guarire.

Ma questo è solo un modo di vederla. Un furbo sillogismo.

Un altro modo di vederla è che la depressione non è una malattia e quindi non sei malato e quindi non devi guarire. Poi però muori. Beh di qualcosa si deve morire, inutile pensarci tanto. E la gente dirà: strano, non era malato. I vicini di casa diranno che eri normalissimo, solo un po’ taciturno. Introverso. Questo è il modo di vedere degli scemi, di quelli che pensano che tutti abbiamo problemi e che prima o poi capita a tutti.

Un altro modo di vederla, il mio, è che la depressione è una cazzo di malattia odiosa che ti rovina anni di vita e ti rende dieci volte più stronzo di quanto non saresti stato, ma che ti fa anche capire delle cose che magari non avresti capito e ti fa apprezzare cento volte di più i momenti in cui stai bene, soprattutto se impari a tenerla sotto controllo, cosa che devi assolutamente imparare a fare, anche perché guarire del tutto è improbabile.

E qui veniamo all’ultimo esempio, questo proprio a misura di scemi totali.

Per me, dato che fin qui non sono morto – poi in futuro chissà, nel caso vi prego di non passare questo post a Studio Aperto – la depressione è come il diabete. Ovviamente non intendo in senso organicista, è solo un paragone tra come vive la malattia il diabetico e come vive la malattia il depresso.

Di diabete si può morire o diventare ciechi. Ma, se si interviene nel modo giusto, è una malattia solo leggermente fastidiosa con cui si può convivere tranquillamente. Basta tenere a bada i livelli di glicemia, seguire una certa dieta, abituarsi a qualche malessere.

Per alcuni depressi, quelli che forse “sono solo tristi”, può servire lavorare, avere obiettivi, amare, avere amici, fare sport. La vita normale. Di solito questi sono i consigli che ti danno i bravi padri di famiglia, coloro per cui la vita scorre su certi binari. In realtà sono i consigli che darei anch’io: lavora, lavora, lavora, cerca la compagnia anche se ti fa schifo, fai cose, muoviti.

Anche Reik, l’allievo di Freud, dopo anni di studi era arrivato alla stessa conclusione dell’uomo della strada o di quelli che rispondono nelle rubriche delle lettere dei giornali.

Qual è il segreto di una vita felice?

Lavorare e chiavare.

Diceva più o meno così, in Eros e lussuria: “Abbiamo notato come a volte l’individuo che si trovi in questo stato di sofferenza tenti di superare l’interna disarmonia mediante raggiungimenti, ovvero compiendo alcunché d’importante per sé e per gli altri. Un’altra via che si offre per soddisfare le interne esigenze, è quella di allargare e arricchire l’ego mediante l’amore. Se ambedue le strade risultano bloccate, l’individuo è destinato ad ammalarsi psichicamente, dal momento che, per rimaner sani, occorre essere in grado di lavorare e di amare. ”

(Non lo cito perché sono un intellettuale che ha studiato, anzi sono più o meno il contrario. E’ che confido nella saggezza dei morti e non trovando soluzioni nelle persone vive, le ho cercate nelle persone morte. Cioè nei libri. E a dirla tutta non le ho trovate neanche lì, ma almeno ho passato del tempo.)

Per alcuni può funzionare. Dai, quanti ne abbiamo conosciuto che erano tristi finché non hanno trovato una ragazza o fatto un figlio o trovato un lavoro figo o hanno iniziato a fare volontariato in Africa?

Per altri invece la vita normale è completamente inutile. Non dico che sia inutile in sé – in una visione più ampia sì, ma questo è un altro discorso – ma inutile nei confronti della malattia.

Se hai il diabete, ce l’hai comunque, anche se hai tanti amici, un lavoro e una donna o un uomo che ti ama. Ti assumono in un lavoro strafigo dove non devi fare un cazzo in cambio di miliardi di dollari, ma continui ad avere il diabete. E nessun medico direbbe mai “Lei ha il diabete: si trovi un bel lavoro e faccia qualche viaggio di tanto in tanto”.

L’importante, da quel che ho capito finora, è evitare il dolore fisico persistente, avere un’ampia casistica di esperienze interiori spiacevoli e avere una certa stabilità nella vita. Ma non in quel senso che intendete voi.

Ecco cosa intendo io per stabilità: sapere sempre dove e come uccidersi.

E’ quella sensazione di sicurezza che ti dà una via d’uscita sicura, come sapere dov’è l’uscita di sicurezza più vicina, o almeno sapere che c’è. E’ come la capsula di cianuro dei nazisti. Se ti catturano, sai che non sarai torturato, perchè stringi i denti e ti uccidi. E fotti tutti.

Sull’utilità del pensiero del suicidio credo di aver scritto altri post, lo do per scontato, ma riassumendo per l’ennesima volta il concetto: serve a rimandare di giorno in giorno la realtà, perché finché il pensiero è presente, e resta un pensiero, la realtà è rimandata, sei salvo, sei normale, puoi condurre una vita tranquilla. A meno che il pensiero non diventi persistente e stai tutto il giorno a pensare alla morte. Allora sei pazzo. A me è capitato ed era orrendo.

Concludo con un aneddoto simpatico a proposito della stabilità di cui parlavo. Cioè sapere dove e come.

Per anni ero convinto di avere la tecnica giusta e il posto giusto. Ricordavo di aver fatto delle prove, ma probabilmente ero ubriaco, e avevo sbagliato i calcoli. Un giorno avevo deciso. Un giorno qualunque, un momento qualunque, non ero disperato, anzi. Ero come molto stanco, sentivo un peso sulla testa, una sensazione simile alla sinusite, ma dentro di me c’era un silenzio assoluto. In quel momento ho scoperto – immaginate voi come – che il punto che avevo da sempre scelto come uscita di sicurezza non andava bene. O il pavimento si era alzato di mezzo metro, o io ero cresciuto senza accorgermene.

E’ stato destabilizzante. Era la mia uscita di sicurezza, la mia via di fuga certa. E non ce l’avevo più.

Lo so, non è proprio un aneddoto simpatico, ma a me fa ridere il fatto che per anni avevo sbagliato i calcoli senza rendermene conto. Quelli veramente divertenti magari li racconto un’altra volta, se ci sarà.

Concludo con una certezza: non esiste stare bene o stare meglio, esiste solo stare male in modi nuovi, modi migliori, più produttivi, più divertenti. Amen.

NOTA: se sei arrivato qui da google e stai pensando di suicidarti, tieni conto di un paio di cose: non sono un medico, non sono uno psichiatra, non sono un esperto e soprattutto non voglio avviare nessuna discussione. Nel post uso un tono colloquiale, ma non è volontario: mi viene fuori quando scrivo su internet. Non voglio parlare con te. E di certo non voglio parlare di suicidio. Se ti vuoi uccidere, prima parlane con qualcuno, possibilmente con uno sconosciuto. Poi procedi come vuoi. Ma, ti prego, non rivolgerti a me, non lasciare commenti disperati qua sotto, davvero. Un’ultima cosa: se veramente hai deciso di farlo, cancella quel cazzo di profilo Facebook dove metti le tue poesie preferite e il tuo punto di vista sulla crisi economica. Lo sai cosa succederà: i giornalisti ci si tufferanno come topi nella melassa. Non hai mai visto topi nella melassa? Nemmeno io. A dire la verità non so nemmeno cosa sia la melassa, forse è una specie di crema, ma è la prima immagine che mi è venuta in mente. Comunque cancella tutto, non lasciare tracce, non lasciare niente. Scoprirai che anche solo con questo semplice atto ci si sente più liberi e puliti e pronti a ripartire. Una volta ho scritto un racconto sul suicidio – ho scritto decine di racconti sul suicidio – dove il protagonista, per potersi impiccare, doveva prima aggiustare una sedia rotta, solo che poi passava del tempo con chiodi e martello, si impegnava in quell’attività, scopriva la bellezza del mondo partendo dalle cose semplici e alla fine non si uccideva. Una cagata di racconto, orribile e ingenuo, e infatti l’ho cancellato, anche se forse avrei potuto rivenderlo a una rivista di bricolage. Comunque non parlarne con chi non capisce. E’ inutile, lascia perdere. Se senti qualcuno rispondere “a tutti capita di avere problemi” o “a tutti capita di essere un po’ tristi”, allontanati velocemente da quella persona e cercane un’altra. Magari leggi un libro, oppure aggiusta una sedia. Ciao.
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RRRRRRRRRRRRRRRRRRiiiidii

sempre sul rispondere “bene”, oggi la farmacista mi ha chiesto come stavo. farmaciste, meriterebbero un discorso a parte. nel senso che è meglio metterlo da parte e non farlo. appunto: le pizze al taglio fanno quasi sempre cagare, buone solo se hai fame. il fatto: mi hanno dato un potente sonnifero al posto di un altro farmaco e sono andate in panico quando ho spiegato l’errore. io l’ho raccontato molto divertito, “ma quindi cosa ha fatto?” “ahah, niente, ho dormito!”. volevo minimizzare, ma il fatto che lo trovassi divertente le ha terrorizzate il doppio. una delle tante conferme che la commedia è il modo giusto di raccontare le tragedie, di esaltarle. avrei voluto anche intonare: tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto, in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor. ah, riiiidi, pagliaccio, sul tuo amore infranto! ridi del duol, che t’avvelena il cor! ma c’era la vecchia dietro che premeva, lei aveva preso il biglietto ma io c’ero prima, un classico.

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Ad un sogno mai sognato

http://www.youtube.com/watch?v=GqrCygtYNn0

Bruciamo i fiori sui davanzali.

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Calore umano

Abbracciami.

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Un delfino

(una storia per i più piccoli)

C’era una volta un delfino.
Lui non lo poteva sapere, perché era morto, ma molto presto a nessuno sarebbe più importato di lui.
Il suo corpo spiaggiato era stato motivo di interesse nelle prime ore di sole, quando prima gli anziani e poi le famiglie con bambini arrivavano sulla spiaggia. Era la novità del giorno: c’era chi si avvicinava subito a guardarlo, altri invece all’inizio fingevano disinteresse, ma poi anche loro cedevano a quello spettacolo. I bambini, come hanno sempre fatto, lo toccavano con una canna o un bastoncino, per constatare l’effettiva morte e verificarne la consistenza.
Il delfino è tra i più sfortunati tra gli animali perché da morto gli resta come un sorriso che più che suscitare tenerezza lo fa diventare ridicolo agli occhi di chi lo guarda. Gli occhi erano chiusi, ma appariva ancora vivo, apparentemente intero, molto liscio, senza graffi o tumefazioni.
“Guarda papà! Un delfino” disse la bambina. “Guarda papà! Un delfino!”
“Lo vedo, lo vedo…”
“Com’è morto?” chiese la bambina.
Il padre non rispose subito, perché c’erano altri adulti e non voleva dire cose inesatte davanti a sua figlia. Prese tempo, nella speranza che qualcuno rispondesse al posto suo.
“Forse una busta di plastica l’ha soffocato” disse un vecchio con un cappello di paglia.
“Ma non si vede nessuna busta.”
“Forse l’ha ingoiata.”
La bambina guardò il padre per avere una risposta definitiva.
“La natura…” cominciò il padre, senza finire.
Gli altri lo guardarono, ormai incuriositi.
“Non ci si può fare niente” disse il vecchio, mettendo fine alla conversazione.
Qualcuno chiamò i vigili urbani per informarli della presenza di un animale morto su una spiaggia frequentata da famiglie e bambini. Quest’ultimo dettaglio, la presenza dei bambini, venne sottolineato più volte, ma non bastò a turbare la proverbiale serenità dei vigili urbani.
“Non è di nostra competenza” risposero.
E a metà mattina del delfino già non importava più a nessuno. Qualche nuovo arrivato si avvicinava e lo fotografava. Ma era chiaro a tutti che l’interesse non era più lo stesso di qualche ora prima. Una motovedetta della polizia si avvicinò alla riva.
“Non potete portarlo via voi, o avvisare qualcuno?” chiese un ragazzo che lo stava fotografando.
“No” rispose il poliziotto dalla barca, “non spetta a noi. Ma qualcuno verrà. Ce la fai una foto?”
I due poliziotti si misero in posa sulla barca e il ragazzo dalla riva gli scattò una foto. I poliziotti misero in moto e andarono via ridendo.
Prima dell’ora di pranzo tutti ignoravano il delfino. Qualcuno giocava a racchette, altri facevano il bagno o prendevano il sole.
Verso sera un cane ci pisciò sopra. Da lontano il padrone lo chiamò, ma il cane non ubbidì immediatamente perché attirato da quegli strani odori che il delfino aveva iniziato a produrre stando tutto il giorno sotto il sole estivo. Il padrone chiamò il cane una seconda volta, quello pisciò di nuovo e poi andò via. L’urina del cane si mischiò con la carne moribonda del delfino formando nuovi colori e nuovi odori.
Il giorno dopo il delfino iniziava a decomporsi.
Le persone si erano tenute a distanza, ma un insidioso venticello portava la puzza tra gli ombrelloni. Qualcuno chiamò di nuovo i vigili, ma di nuovo risposero che non era di loro competenza, imperturbabili ad ogni intervento esterno alla loro realtà. Verso l’una arrivò una macchina misteriosa dalla quale scesero due ragazzi con una borsa nera.
Si avvicinarono al delfino e presero dei campioni. Un vecchio curioso chiese informazioni e i due ragazzi dissero che lavoravano per un centro di ricerca.
“Prendiamo dei campioni per studiarlo.”
“Ma non lo portate via?”
“No.”
“Ma puzza” disse il vecchio.
“Non sappiamo cosa dirle, noi li studiamo. Qualcun altro verrà a prenderlo.”
Poi andarono via.
Il giorno dopo, e quello dopo ancora, il delfino continuava a decomporsi.
Prima diventò più chiaro e opaco, come se si seccasse, poi si gonfiò e diventò viola con chiazze rosse.
Ora non era più bello da vedere e nessuno lo fotografava più. Due uomini lo allontanarono usando dei bastoni. “Dobbiamo allontanarlo anche dall’acqua” disse uno, senza sapere perché.
Il giorno dopo passò una macchina della forestale. Qualche bagnante segnalò la presenza del delfino putrescente, gli uomini della forestale scesero a controllare ma dissero che non era di loro competenza.
“Sì ma questa è una spiaggia frequentata dai bambini” disse una mamma “e questo delfino non è igienico”.
I forestali si guardarono tra loro e uno di loro pensò che era vero, la morte non era una cosa igienica, ma non lo disse a voce alta.
“Signora, manderemo qualcuno.”
“Mamma cosa vuol dire putrescente?” chiese la bambina.
“Non lo so” rispose la mamma a bassa voce.
Il giorno dopo arrivarono due operai del comune con delle transenne.
“Dovete portarlo via?”
“No, dobbiamo transennarlo per questioni igieniche” rispose l’operaio. “Poi verrà qualcuno a prenderlo.”
Dopo qualche giorno quel che restava del corpo del delfino era ricoperto di vermi. La sera i pescatori andavano direttamente dal delfino a prendere i vermi per usarli come esche.
La notte le coppie si appartavano a pochi metri dallo spettacolo della putrefazione. All’alba una brezza leggera faceva svolazzare cartoni della pizza e preservativi secchi.
Dopo dieci giorni del delfino non restava molto. Era difficile riconoscerne la forma. Si capiva che una volta c’era stato qualcosa di vivo, ma non si poteva dire cosa. Gli operai del comune tornarono con una ruspa e un camioncino.
“Lo portate via?” chiese il vecchio con il cappello di paglia.
“Sì, lo devono studiare.”
“Studiare? Ma non è rimasto quasi nulla.”
L’operaio alzò le spalle e continuò il suo lavoro.
Dove una volta c’era il delfino era rimasto il segno della pala meccanica, ma la notte una mareggiata cancellò tutto e il giorno dopo la spiaggia tornò come prima. Non c’era più nessun segno del delfino, solo il ricordo. Ma anche quello durò poco.
“Dove avranno portato il delfino?” chiese la bambina al padre mentre pescavano.
Ma siccome c’erano altri adulti e il padre non voleva dire inesattezze o essere corretto da estranei di fronte a sua figlia, non disse nulla e continuò a pescare.

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Saldi di primavera

Scambio stima e “ottimo lavoro, complimenti” in cambio di sesso e amore.

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E poi c’è anche il cinema

a volte me la prendo con il cinema italiano, sbagliando, perché me la dovrei prendere con il cinema tutto. per dire, non è che i giapponesi o i turchi non facciano cagare: fanno cagare anche loro. è questo il punto: fanno cagare tutti. perché il cinema è sempre cinema confortante, consolatorio, quello che io chiamo la carezza del papa, o della mamma, la mamma che ti racconta la favola prima di dormire e poi ti dà una carezza e ti dice adesso dormi, buonanotte. e tu dormi, sogni, e non hai paura del buio perché sai che i mostri sono una finzione. in pratica dal giorno dopo del treno dei lumiere in poi il cinema si è assunto il ruolo di mamma che ti racconta la storiellina della buonanotte* (in generale: e vissero felici e contenti), quando avrebbe potuto avere il ruolo di zio pazzo e un poco pedofilo che lancia sguardi inquietanti sugli abissi umani e l’insensatezza della vita. quindi mai un cinema che ti dia schiaffi in faccia, pugni negli occhi, un film che ti faccia vedere la realtà da un nuovo punto di vista, un film che torni a casa – se sei così pazzo da uscire, ma diciamo che lo sei – e hai dubbi sull’esistenza: forse devo uccidere il mio vicino, o me stesso, o diventare un asceta, scopare le capre, leccare il pavimento, iniziare a parlare con le piante, o accoltellarle. (parentesi sull’accoltellare le piante: una volta l’ho fatto, poi un pomeriggio mi dondolavo su un ramo dell’ulivo e sono caduto su quella che chiamano cuscino di suocera, l’echinocactus grusonii, ma in questo caso la suocera ero io e quindi molte molto molte spine nel culo, tolte una ad una da mia madre, con grande sollazzo e divertimento. la vendetta delle piante grasse. ecco un film che andrei a vedere: la vendetta delle piante grasse. con bruce willis. chiusa parentesi.) quindi, quando si trova un capolavoro contemporaneo, forse è il caso di dirlo: working man’s death, quello che il cinema virgolettissime documentario dovrebbe/potrebbe essere, non quella merda noiosa che si vede nei festival. abbastanza tradizionale, tecnicamente perfetto, osa il tanto giusto, purtroppo non di più, ma rimane un capolavoro. austriaco, non italiano. perché facciamo cagare tutti, ma qualcuno più degli altri.

*che poi c’è anche storiellina e storiellina: per dire, ne le mille e una notte c’è molto più cinema di quanto non si sia visto negli schermi negli ultimi cento anni. provare per credere. ma non prendete l’edizione per bambini, prendete o scaricate quella grossa, con i pezzi normalmente non inclusi. quella sì che.
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Isolamento: uno dei tanti pro

Ad esempio essere l’unico al mondo, o uno dei pochi assieme a un contadino bretone e una famiglia del Malawi, a non seguire in diretta l’elezione del papa, non avendo nè tv nè internet nè acqua potabile (l’acqua non c’entra niente ma volevo dirlo). Stamattina poi compro il giornale e riesco a saltare la prima pagina andando direttamente al mio articolo – unico motivo per cui ho comprato il giornale – quindi nemmeno in quel momento scopro che è stato eletto il papa. Lo scopro solo alle 9.00 quando, vedendo la donna delle pulizie un po’ su di giri, le chiedo:

– Ma hanno eletto il papa?

– Sì!

– Negro?

– No.

– Ah.

FINE.

 

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Sonno pomeridiano

Fate della morte la vostra certezza; così la morte o la vita saranno più dolci. Ragionate così con la vita: se io ti perdo, perdo una cosa a cui solo gli sciocchi posson tenere: un soffio tu sei, schiavo di tutte le influenze del cielo, che affliggono d’ora in ora quest’abitazione ove tu dimori. Tu non sei altro che lo zimbello della morte; ché questa t’affatichi d’evitare con la tua fuga, e non fai che correrle incontro. Non sei nobile, ché tutti gli accorgimenti che generi sono allevati dalla bassezza. Non sei affatto valorosa, perché temi la molle e tenera forca d’un povero rettile. Il tuo migliore riposo è il sonno, e questo sovente tu sfidi, eppure grossamente temi la tua morte, che non è niente di più. Non sei te stessa, poiché tu sussisti di molte migliaia di granelli che escon dalla polvere. Felice tu non sei, perché ciò che non hai, ti sforzi sempre di conseguire, o ciò che hai, dimentichi. Non sei stabile; poiché la tua complessione svaria a strani effetti, secondo la luna. Se sei ricca, sei povera; poiché, come un asino la cui schiena si curva sotto le verghe dell’oro, tu non porti la tua pesante ricchezza che per una giornata, e la morte ti scarica. Amico non hai alcuno, ché le tue stesse viscere, che si dicon tue figlie, mera effusione dei tuoi propri lombi, maledicon la gotta, la serpigine, e il catarro, perché non ti finiscon più presto. Tu non hai giovinezza né vecchiaia, ma come un sonno pomeridiano, in cui sogni d’entrambe; poiché tutta la tua beata giovinezza diventa come annosa, e chiede la limosina della vecchiaia paralitica; e quando sei vecchia e ricca, tu non hai né calore, né affetto, ne nerbo, né beltà, per rendere gradita la tua ricchezza. Che c’è dunque in questa cosa che reca il nome di vita? Altre mille morti ancora si celano in questa vita, eppure temiamo la morte, che livella tutte queste disuguaglianze

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Ok

9mila abitanti, 500 bar, 80 pizzerie, 0 librerie.

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Problema

McDonald’s dietro il distributore di benzina, tutto intorno stanno asfaltando. Dall’alto arriva musica dance brutta a volume molto alto, forse qualche seduta mattutina di spinning. Nel parcheggio due ragazzini ridono e fumano sigarette. Nell’aria un misto di fumo, bitume, benzina e pesante puzza di fritto. Vicino c’è un’esposizione artistica. Entro più che altro per evitare l’odore esterno, dato che da lontano vedo del confortante legname. Le opere non sarebbero neanche male, discreto artigianato, ma come sempre in questi casi la sala è riempita dalla boria dell’autore lì presente. Oso rivolgergli la parola, ho curiosità tecniche su come ha intagliato il legno, ma lui risponde annoiato. Domande banali. O forse non l’ha fatto lui e non sa rispondere, ma poco male, io mi sarei accontentato di una risposta qualsiasi, mi basta poter annusare un po’ di legno. Poi entrano due ragazze. Allora lui si illumina, si gratta la barba sul mento, ridono, scherzano, loro fanno domande idiote e lui risponde in modo ironico.

Soluzione:

Puntare il compasso in punto A e con apertura AB tracciare una conferenza. Percorrere a testa bassa – e senza salutare – il risultante raggio R dal centro della circonferenza a uno qualsiasi dei punti della stessa – prestando attenzione alle automobili in uscita dal distributore – e posizionarsi all’esterno, possibilmente nel limite più estremo. Entrare nel negozio di articoli per la caccia percorrendo la retta D-F fino al punto di intersezione J. Da qui in poi improvvisare e nel frattempo pensare a un solido piano di fuga.

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Extreme makeover – Reverse Edition

C’è questo programma tv americano che si chiama “Extreme Makeover: Home Edition”. E’ quel genere di programma tv americano che lo guardi per due secondi e mezzo e ti ritrovi in fila all’ufficio di collocamento di al-Qaeda.

Per chi non avesse il tempo di vederlo ma curiosamente ha il tempo di leggere questo post, riassumo brevemente come si svolge: ci sono queste famiglie disgraziate (bambini handicappati, ex militari che hanno perso le gambe in guerra, gente povera con 18 figli, ecc.) che vorrebbero avere una casa nuova ma non se la possono permettere. L’inizio è molto promettente, perché in questa situazione iniziale dall’innegabile potenziale drammatico arriva un gruppo di pazzi che come prima cosa distrugge la casa. Il tutto avviene tra le urla e gli incitamenti della gente. La casa viene demolita con mezzi meccanici e manuali, scavatrici, pale, picchi, calci, mentre tutt’intorno il vicinato grida ed esulta.

Insomma: vera Arte.

La prima volta che l’ho visto – e ancora non conoscevo lo svolgimento del programma – ricordo che pensai “non c’è niente da fare, questi americani sono sempre avanti”.

Ma questo è solo l’inizio.

Infatti il gruppo di pazzi appartiene alla sottocategoria dei pazzi-filantropi. Sono capitanati da un tizio palestrato e del tutto dipendente dall’altruismo, che – come chiunque abbia fatto volontariato vi potrà confermare – può essere peggio dell’eroina (anche se per un paragone corretto dovreste chiedere a chi ha provato entrambe le cose). Così, mentre la famiglia disgraziata viene mandata a Disney World o in qualche altro posto simile, i pazzi filantropi – sfruttando una manodopera composta in maggioranza da ispanici e messicani — ricostruiscono completamente la casa in pochi giorni, lasciandosi andare a deliri architettonici come piscine enormi, stanze enormi, cessi enormi, bandiere americane infilate ovunque.

L’apice del programma è il momento Autista, Sposta Quel Bus, ovvero quando la famiglia disgraziata ritorna e, in mezzo a un delirio indescrivibile (vicini che urlano, bande, parate militari, megafoni, bandiere americane, pianti, crisi isteriche) viene urlata da tutti la frase “Autista, Sposta Quel Bus” e il bus, che funziona come una specie di sipario, viene spostato, rivelando la nuova casa: immensa, spettacolare, esagerata.

Quindi tripudio di gioia, pianti, gente che si rotola per terra, innumerevoli invocazione a Nostro Signore.

Il programma funziona, su questo non ci sono dubbi.

Ha grande successo e ha una drammaturgia molto efficace e ormai rodata, oltre ad avere un’indubbia utilità sociale: ad esempio aumentare il numero di adesioni ai gruppi terroristici islamici.

Però anche le cose che funzionano vanno cambiate, anche perché altrimenti ci si ritrova prigionieri dei cliché.

Quindi, ecco l’idea.

Immaginando il programma diviso in tre atti (1-famiglia disgraziata ha casa brutta ed è triste, 2-filantropi ricostruiscono casa, 3-famiglia disgraziata ha casa bella e ora è felice) è sufficiente invertire l’ordine degli atti per rendere il programma molto più interessante.

Ovvero:

1 – famiglia disgraziata ha casa bella ed è felice

2 – un gruppo di pazzi arriva e distrugge la casa

3 – la famiglia disgraziata ora ha casa brutta ed è triste

In questo modo, con un semplice capovolgimento della trama, si ottiene una storia molto più interessante: basta invertire l’ordine dei fogli del copione, ed ecco che abbiamo un inizio promettente, un secondo atto spettacolare e un grandioso finale tragico, molto più potente dell’originale.

Si inizia con una famiglia sfortunata ma felice, arriva un’insensata orgia distruttiva, si conclude con la famiglia che, disperata e alla ricerca di una spiegazione, si aggira tra le macerie (particolare del bambino handicappato che raccoglie i suoi orsacchiotti ricoperti di polvere), mentre intorno si suonano fanfare.

Che dire?

Gente della tv, quando volete io sono qui.

Precedente rivisitazione: Cortesia per gli ospiti: Horror edition

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In corso d’opera

Non esistono “stare bene” o “stare meglio”. Esistono solo nuovi modi di stare male.

Alcuni sono produttivi ma moralmente discutibili (stragi nelle scuole, terrorismo, arte) altri produttivi e utili (artigianato, scienza, raccolta differenziata fatta bene) altri ancora inutili ma innocui (collezionismo, camminare).

Un esempio incomprensibile: la fluorite cangiante dell’Etiopia.

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118,71 ± 0,007 u

La gente lo stagno non riesce a capirlo, c’è poco da fare. Pensano sia una versione scadente del mare, o addirittura lo paragonano al lago, oppure proprio non ci pensano, e forse è meglio così. Lo stagno è diverso dal mare principalmente per due motivi: 1) non ci si può suicidare, o comunque è molto più difficile, perché l’acqua è bassa, non ci sono forti correnti e comunque presto o tardi arrivi alla riva; 2) la notte è talmente fermo e silenzioso da sembrare finto. Ma non è quel tipo di immobilità che fa pensare alla calma, alla pace e alla rilassatezza (ma quando mai): è qualcosa di più vicino alla morte, a una morte apparente. Tutto infatti sembra finto. Le luci della piazza illuminano il canneto e oltre c’è solo questo blu indefinito, come se la scenografia fosse finita lì. Un passo indietro e sei nella piazza, un passo avanti e sei in un racconto di Lovecraft. Il percorso pedonale che il comune ha genialmente pensato di costruire – una sorta di lungostagno – durante il giorno appare del tutto inutile, dato che, a parte contemplare l’acqua sporca e quei froci dei fenicotteri, c’è poco da fare di fronte a una distesa d’acqua di questo tipo, se non cose inutili (baciarsi, prendersi mano nella mano, scattare fotografie, farsi domande sull’esistenza). Ma la notte acquista improvvisamente senso e diventa il cammino tra le pieghe nascoste del paese: tra la civiltà, l’arancione dei lampioni, e il buio blu dell’acqua scura, dove riposano i miei incubi prima di venirmi a svegliare aprendo improvvisamente le ante dell’armadio mentre io dormo o fingo di dormire.