Neanche rompere il cazzo è una malattia, eppure se ci fosse una raccolta fondi per trovare una cura per i rompicazzo io ci butterei tutti i soldi. Da dove iniziare?
[premessa: questo post-sfogo l’ho scritto in uno dei periodi più felici e tranquilli della mia vita, molti mesi fa. perché lo pubblico ora? perché sì. comunque alla maggior parte delle persone risulterà noioso, quindi suggerisco alla maggior parte delle persone di evitare la lettura. per mantenere la freschezza iniziale, rileggendolo a distanza di mesi l’ho modificato pochissimo: ho solo corretto un paio di errori ed eliminato qualche paragrafo eccessivamente imbarazzante.]
Argomento che ho sempre evitato, in forma scritta e in qualsiasi altra forma, ma mi sono veramente rotto i coglioni di sentire questi scemi che pensano di mettere i puntini sulle i dove i puntini ci sono già e sono grandi quanto il sole.
Allora.
Ci sono quelli che la prendono da un punto di vista filosofico: cos’è davvero la malattia, chi decide chi è malato, cosa vuol dire essere malato. Una questione che potrebbe anche essere interessante, se solo non usassero quel tono da editor di wikipedia che ti ricorda che il delfino è un mammifero, non un pesce.
Eppure secondo me è abbastanza semplice. Io sono per il punto di vista del malato quando coincide con il punto di vista del medico.
Qualche esempio: la malattia intesa come patologia medica, ovvero quando tu scopri di averla solo perché ti viene diagnosticata. Alcuni complottisti non sarebbero d’accordo perché ci vedono un pericoloso ampliamento del campo del patologico con lo scopo di favorire quella che chiamano big pharma: più malati, più clienti. E certe pubblicità in tv, tipo quella che inizia con una voce che dice “la cellulite E’ UNA MALATTIA”, hanno chiaramente questo scopo e sembrerebbero dare ragione ai nostri cari amici pazzi.
L’altro punto di vista è la malattia come vissuto del malato: cioè la percezione, l’esperienza soggettiva di anomalia nel normale stato di salute. Facile, no? Sento di essere malato, ma ovviamente non è detto che lo sia realmente, anche se ne sono totalmente convinto. Poi se ho capito bene a quel punto il cervello può perfino convincere il corpo che è così, ma qui si va in un ambito scientifico che sfioro ma non tocco. Restiamo in superficie, guardiamo dall’alto. Se si va in profondità si perde in ampiezza.
La depressione, nell’immaginario collettivo (che se volete potete leggere anche come “nell’ignoranza della gente”) si colloca a metà tra questi due tipi di malattia: sì, effettivamente stanno male, ma sono davvero malati?
Quindi le domande sono ancora quelle: cos’è la malattia, quando sei davvero malato, chi decide cosa.
Quando sei malato? Cento anni fa forse avrebbero risposto “quando caghi nero” o “quando sputi sangue” o “quando il diavolo è dentro di te”. La zia di mio padre, una donna adorabile e diffidente che si curava il diabete con il dentifricio, avrebbe risposto “quando vai dal dottore”.
Ma c’è un modo ancora più semplice di rispondere, ed è semplicemente andare a controllare cosa ne pensa l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Potrete anche considerarli una specie di Spectre del mondo medico, se volete, e potete pensare che il loro scopo sia controllare le nascite e consigliarvi inutili esami rettoscopici con l’intento di installarvi microchip nel culo per poter controllare i vostri corpi e le vostre menti e fare delle statistiche delle vostre funzioni intestinali.
Oppure, potete ammettere che sanno qualcosa sulle malattie, forse perfino qualcosa più di voi.
E cosa dice l’Oms della depressione? Che è una malattia. Anzi che è una delle malattie più diffuse e che in futuro sarà una vera piaga sociale.
Ricapitolando: ha vari sintomi, chi ce l’ha si sente ammalato, il mondo scientifico la considera una malattia. Quindi diciamo che possiamo affermare con un accettabile grado di sicurezza che la depressione è una malattia.
Eppure è molto diffusa, soprattutto tra le menti semplici, ma anche fra certi medici, l’idea che la depressione non possa fregiarsi del titolo di “vera” malattia. Questo credo riguardi più in generale un certo modo di vedere i disturbi mentali.
Siccome di come funziona il cervello non sappiamo ancora tutto (ma molto sì) allora è un campo un po’ vago, perché a essere malato è lo stesso organo che ci fa capire di essere malati. Quindi è solo nella tua testa, ti dicono. Un po’ come se uno avesse il cancro al fegato e gli dicessero “non è una malattia, è solo nel tuo fegato”. Poi muore e i parenti dicono “ma è strano, non era malato”, che è quello che capita davvero con molti depressi.
Hanno sicuramente contribuito a questo atteggiamento generale anche la grande diffusione del termine “psicosomatico”, che è diventata la non-spiegazione per qualsiasi cosa, gli psichiatri pazzi che danno psicofarmaci ai bambini e l’aspetto di coolness di certi atteggiamenti maledetti legati alla malinconia (“non è depresso, è una posa”).
Possibili soluzioni, da prendere in considerazione solo se effettivamente c’è il problema: psicoterapia – pure per questa c’è diffidenza e ironia diffusa, ma esiste e ha un suo senso – oppure sbroccate mistico-religiose oppure, ancora, farmacoterapia.
Il mio voto va all’ultima, anche se ho sempre sognato una sbroccata mistico-religiosa.
Per gli adulti che stanno male per lunghi periodi, la chimica può essere un aiuto utile così come può esserlo un decongestionante per il raffreddore. Non vuol dire che non ti verrà mai più, ma almeno allieva i sintomi ed eviti di buttarti contro un treno.
A volte ho provato a spiegare la depressione a chi la confondeva con “la tristezza”, che può anche non c’entrare un cazzo, dato che la tristezza è una sensazione, un’emozione, mentre qua al massimo si parla di umore (“disturbi dell’umore”, è così ce la chiamano ed è così che la chiamo io se ne parlo con qualcuno, una mia forma di autocensura. La chiamano anche disturbo affettivo, anche se mi piace meno, perché così sembra che abbia a che fare con i sentimenti, anche se è vero che, nel suo essere invalidante, crea problemi con gli affetti, quando non sono gli affetti a creare il problema: mi ha mollato la ragazza).
[nota: non mi aveva ancora mollato!]
Ci sono anche gli adorabili ingenui che ti dicono che la tristezza fa parte della vita e che bisogna accettarla. Assolutamente d’accordo, penso anch’io che sia così. Fosse per me a scuola andrebbe insegnata la cultura del dolore e della sofferenza. Ma, ancora una volta: questo non c’entra niente con la depressione, che molto spesso non è legata al ciclo felicità/tristezza.
A volte ho provato a spiegare la depressione con degli esempi. A volte invece ho provato a spiegarlo con parole semplici e sincere: ma non serve. Ho notato che più sono sincero e meno sono creduto. Se invece mento, non mi credono comunque, forse perché non sono molto bravo a dire bugie.
Ma nonostante questo, rivolgersi in modo gentile e sincero a un pubblico che superi la singola unità, per quanto auspicabile, resta una totale perdita di tempo, almeno nella maggior parte dei casi.
Eppure ho scoperto che una delle spiegazioni che a volte davo (le rare volte in cui ne parlo, quasi mai) usavo le stesse identiche parole usate da uno scrittore che non mi piace particolarmente ma che su questo argomento sapeva il fatto suo. David Foster Wallace, ebbene sì, proprio lui, l’idolo delle ragazzine.
Molti lo amano perché scriveva molto bene, una cosa che a me ricorda sempre l’amore di certe vecchie zie per Mike Bongiorno perché “senti come parla bene” o, in tempi più recenti, per Nichi Vendola (mia nonna lo dice sempre che “parla troppo bene”, sottinteso: “per essere frocio e comunista”). Ricorderò per sempre un’intervista a due vecchi che al giornalista che chiedeva “ma perché guardate il Tg4 di Emilio Fede?” loro rispondevano “perchè scandisce bene le parole”.
Ecco, tranne rare eccezioni, a me gli scrittori “che scrivono troppo bene” di solito non piacciono, sono come i porno patinati in HD, ma ciò non esclude che a volte anche loro abbiano delle cose interessanti da dire, soprattutto quando dicono cose che io dicevo prima di loro (anche se non cronologicamente, ma se intendiamo il tempo come un concetto soggettivo e relativo, allora sì, io queste cose le dicevo prima di loro).
David Foster Wallace si è suicidato.
E questo per un depresso è sempre un buon curriculum. (C’è poi la questione che se non ti uccidi non sei davvero depresso, ma su questo magari ci torno dopo.)
E cosa diceva Foster, e io prima di lui? Che la depressione non c’entra niente con emozioni e stati d’animo, ma che viene percepita come qualcosa di FISICO e che è più o meno come avere la nausea in tutto il corpo. Una nausea totale, completa, in ogni cellula del corpo, che sfugge al vostro controllo e influisce sul vostro essere, sul vostro percepire il mondo e soprattutto sulla vostra forza di contrastare la malattia stessa.
E tutto diventa putrido.
Ecco perché si mettono lenzuola scure alle finestre nelle belle giornate di sole. Affanculo il sole. Ricordate? Il putriarca è qui a putriarti. (Non ve lo ricordate, lo so.)
Ora, in queste condizioni orribili dove ogni boccata d’aria è faticosa e sembra di respirare nella sabbia (un altro sintomo terribile è questa tendenza all’essere lirici nel tentativo di spiegare le cose) appare uno stronzo qualunque che ti dice “ma guarda che non è una malattia”. Oppure – nella variante sottilmente più antipatica – “ma guarda che non è una VERA malattia”. Come dire che te la stai inventando. E questa cosa – lo stronzo non lo sa – il vostro cervello ve la suggerisce quasi subito. Sei sicuro di essere malato? Non è che sei solo… triste?
No. E vi spiego perché. Perchè non sono triste. Anzi ho vari motivi per non esserlo [NOTA: scritto quando ero abbastanza felice, vi ricordo]. So che non dovrei esserlo. Anzi non lo sono proprio. Per me l’assurdità della domanda è sempre quella, la stessa della domanda “sicuro di non essere solo triste?” rivolta a una persona con la broncopolmonite. Ma che cazzo dici, non lo vedi il catarro? Guarda: GUARDA IL CATARRO!
Ecco, nel caso della depressione purtroppo non puoi mostrare il catarro, e questo non aiuta a renderla reale. Per te lo è, ma per gli altri non tanto (altri = chi non ne sa un cazzo) e col tempo ritornano i dubbi pure a te, se mai ti sono passati.
Un altro che sapeva di cosa parlava, il grandissimo Giuseppe Berto, ha scritto bene cose che pure io avevo detto e scritto – sempre per la storia che il tempo è un concetto soggettivo e relativo – a proposito dell’avere malattie di nervi, come si diceva al tempo, e del provare vergogna.
[qua ci doveva essere un pezzo tratto da un libro di Berto, solo che non sono riuscito a trovare la pagina, leggetevi tutto il libro]
Quindi, diciamo che la depressione non è una malattia.
Ne consegue che non esiste una cura.
E quindi non si può guarire.
Bella notizia, eh? Mi piace come si passa dall’ottimismo dell’enunciato – non è una malattia – al pessimismo assoluto del passo logico successivo – quindi non si può guarire.
Ma questo è solo un modo di vederla. Un furbo sillogismo.
Un altro modo di vederla è che la depressione non è una malattia e quindi non sei malato e quindi non devi guarire. Poi però muori. Beh di qualcosa si deve morire, inutile pensarci tanto. E la gente dirà: strano, non era malato. I vicini di casa diranno che eri normalissimo, solo un po’ taciturno. Introverso. Questo è il modo di vedere degli scemi, di quelli che pensano che tutti abbiamo problemi e che prima o poi capita a tutti.
Un altro modo di vederla, il mio, è che la depressione è una cazzo di malattia odiosa che ti rovina anni di vita e ti rende dieci volte più stronzo di quanto non saresti stato, ma che ti fa anche capire delle cose che magari non avresti capito e ti fa apprezzare cento volte di più i momenti in cui stai bene, soprattutto se impari a tenerla sotto controllo, cosa che devi assolutamente imparare a fare, anche perché guarire del tutto è improbabile.
E qui veniamo all’ultimo esempio, questo proprio a misura di scemi totali.
Per me, dato che fin qui non sono morto – poi in futuro chissà, nel caso vi prego di non passare questo post a Studio Aperto – la depressione è come il diabete. Ovviamente non intendo in senso organicista, è solo un paragone tra come vive la malattia il diabetico e come vive la malattia il depresso.
Di diabete si può morire o diventare ciechi. Ma, se si interviene nel modo giusto, è una malattia solo leggermente fastidiosa con cui si può convivere tranquillamente. Basta tenere a bada i livelli di glicemia, seguire una certa dieta, abituarsi a qualche malessere.
Per alcuni depressi, quelli che forse “sono solo tristi”, può servire lavorare, avere obiettivi, amare, avere amici, fare sport. La vita normale. Di solito questi sono i consigli che ti danno i bravi padri di famiglia, coloro per cui la vita scorre su certi binari. In realtà sono i consigli che darei anch’io: lavora, lavora, lavora, cerca la compagnia anche se ti fa schifo, fai cose, muoviti.
Anche Reik, l’allievo di Freud, dopo anni di studi era arrivato alla stessa conclusione dell’uomo della strada o di quelli che rispondono nelle rubriche delle lettere dei giornali.
Qual è il segreto di una vita felice?
Lavorare e chiavare.
Diceva più o meno così, in Eros e lussuria: “Abbiamo notato come a volte l’individuo che si trovi in questo stato di sofferenza tenti di superare l’interna disarmonia mediante raggiungimenti, ovvero compiendo alcunché d’importante per sé e per gli altri. Un’altra via che si offre per soddisfare le interne esigenze, è quella di allargare e arricchire l’ego mediante l’amore. Se ambedue le strade risultano bloccate, l’individuo è destinato ad ammalarsi psichicamente, dal momento che, per rimaner sani, occorre essere in grado di lavorare e di amare. ”
(Non lo cito perché sono un intellettuale che ha studiato, anzi sono più o meno il contrario. E’ che confido nella saggezza dei morti e non trovando soluzioni nelle persone vive, le ho cercate nelle persone morte. Cioè nei libri. E a dirla tutta non le ho trovate neanche lì, ma almeno ho passato del tempo.)
Per alcuni può funzionare. Dai, quanti ne abbiamo conosciuto che erano tristi finché non hanno trovato una ragazza o fatto un figlio o trovato un lavoro figo o hanno iniziato a fare volontariato in Africa?
Per altri invece la vita normale è completamente inutile. Non dico che sia inutile in sé – in una visione più ampia sì, ma questo è un altro discorso – ma inutile nei confronti della malattia.
Se hai il diabete, ce l’hai comunque, anche se hai tanti amici, un lavoro e una donna o un uomo che ti ama. Ti assumono in un lavoro strafigo dove non devi fare un cazzo in cambio di miliardi di dollari, ma continui ad avere il diabete. E nessun medico direbbe mai “Lei ha il diabete: si trovi un bel lavoro e faccia qualche viaggio di tanto in tanto”.
L’importante, da quel che ho capito finora, è evitare il dolore fisico persistente, avere un’ampia casistica di esperienze interiori spiacevoli e avere una certa stabilità nella vita. Ma non in quel senso che intendete voi.
Ecco cosa intendo io per stabilità: sapere sempre dove e come uccidersi.
E’ quella sensazione di sicurezza che ti dà una via d’uscita sicura, come sapere dov’è l’uscita di sicurezza più vicina, o almeno sapere che c’è. E’ come la capsula di cianuro dei nazisti. Se ti catturano, sai che non sarai torturato, perchè stringi i denti e ti uccidi. E fotti tutti.
Sull’utilità del pensiero del suicidio credo di aver scritto altri post, lo do per scontato, ma riassumendo per l’ennesima volta il concetto: serve a rimandare di giorno in giorno la realtà, perché finché il pensiero è presente, e resta un pensiero, la realtà è rimandata, sei salvo, sei normale, puoi condurre una vita tranquilla. A meno che il pensiero non diventi persistente e stai tutto il giorno a pensare alla morte. Allora sei pazzo. A me è capitato ed era orrendo.
Concludo con un aneddoto simpatico a proposito della stabilità di cui parlavo. Cioè sapere dove e come.
Per anni ero convinto di avere la tecnica giusta e il posto giusto. Ricordavo di aver fatto delle prove, ma probabilmente ero ubriaco, e avevo sbagliato i calcoli. Un giorno avevo deciso. Un giorno qualunque, un momento qualunque, non ero disperato, anzi. Ero come molto stanco, sentivo un peso sulla testa, una sensazione simile alla sinusite, ma dentro di me c’era un silenzio assoluto. In quel momento ho scoperto – immaginate voi come – che il punto che avevo da sempre scelto come uscita di sicurezza non andava bene. O il pavimento si era alzato di mezzo metro, o io ero cresciuto senza accorgermene.
E’ stato destabilizzante. Era la mia uscita di sicurezza, la mia via di fuga certa. E non ce l’avevo più.
Lo so, non è proprio un aneddoto simpatico, ma a me fa ridere il fatto che per anni avevo sbagliato i calcoli senza rendermene conto. Quelli veramente divertenti magari li racconto un’altra volta, se ci sarà.
Concludo con una certezza: non esiste stare bene o stare meglio, esiste solo stare male in modi nuovi, modi migliori, più produttivi, più divertenti. Amen.
NOTA: se sei arrivato qui da google e stai pensando di suicidarti, tieni conto di un paio di cose: non sono un medico, non sono uno psichiatra, non sono un esperto e soprattutto non voglio avviare nessuna discussione. Nel post uso un tono colloquiale, ma non è volontario: mi viene fuori quando scrivo su internet. Non voglio parlare con te. E di certo non voglio parlare di suicidio. Se ti vuoi uccidere, prima parlane con qualcuno, possibilmente con uno sconosciuto. Poi procedi come vuoi. Ma, ti prego, non rivolgerti a me, non lasciare commenti disperati qua sotto, davvero. Un’ultima cosa: se veramente hai deciso di farlo, cancella quel cazzo di profilo Facebook dove metti le tue poesie preferite e il tuo punto di vista sulla crisi economica. Lo sai cosa succederà: i giornalisti ci si tufferanno come topi nella melassa. Non hai mai visto topi nella melassa? Nemmeno io. A dire la verità non so nemmeno cosa sia la melassa, forse è una specie di crema, ma è la prima immagine che mi è venuta in mente. Comunque cancella tutto, non lasciare tracce, non lasciare niente. Scoprirai che anche solo con questo semplice atto ci si sente più liberi e puliti e pronti a ripartire. Una volta ho scritto un racconto sul suicidio – ho scritto decine di racconti sul suicidio – dove il protagonista, per potersi impiccare, doveva prima aggiustare una sedia rotta, solo che poi passava del tempo con chiodi e martello, si impegnava in quell’attività, scopriva la bellezza del mondo partendo dalle cose semplici e alla fine non si uccideva. Una cagata di racconto, orribile e ingenuo, e infatti l’ho cancellato, anche se forse avrei potuto rivenderlo a una rivista di bricolage. Comunque non parlarne con chi non capisce. E’ inutile, lascia perdere. Se senti qualcuno rispondere “a tutti capita di avere problemi” o “a tutti capita di essere un po’ tristi”, allontanati velocemente da quella persona e cercane un’altra. Magari leggi un libro, oppure aggiusta una sedia. Ciao.